Racconto premiato di Bruno Longanesi


Con questo racconto ha vinto il settimo premio nella settima edizione del Premio Letterario Internazionale Il Club dei Poeti 2003


La lunga penna nera

“C‘è una lunga, c‘è una lunga penna nera…
che a noi serve… che a noi serve da bandiera…”

Roberto, il nipotino di Antonio, era arrivato in mattinata da Milano, per passare il Natale lassù, nella vecchia casa del nonno Antonio, abbarbicata fra i monti e avvolta, come in una protezione di bambagia, dalla neve. Appena arrivato, Roberto, aveva voluto in testa il “cappello da alpino”: quello dalla stoffa logora ma con la “penna”, una lunga penna nera.
Era buffa quella testina che entrava per metà dentro l’ampio copricapo, ma il suo atteggiamento, fiero e
superbo, imitava quello del nonno quando portava orgogliosamente quel cappello carico di nostalgici ricordi.
Nonno e nipotino erano seduti vicini all’ampio camino: novità anche questa per il bambino abituato in città, con altri sistemi di riscaldamento, ma era tanto piacevole per lui vedere sprigionare quella fiamma, quello sfavillio delle “monachine”, sentire quella sensazione di calore sulle gambe e sul florido faccino.
«Nonno…», intervenne Roberto, «Nonno… raccontami ancora quella storia dell’anno scorso… raccontami di quando facevi la guerra… raccontami di quello che ti successe…».
Antonio si rese conto del cambiamento del nipote. Era cresciuto in altezza ma anche in intelligenza e perspicacia: aveva sei anni ma, forse, quest’anno era in grado di capire certe cose: doveva parlargli in maniera più reale e non più “favoleggiando”.
«Roberto… se tuo nonno è qui, e parla con te, lo deve a quella penna che porti sul cappello, quella penna che tutto il mondo conosce e ci invidia… senza quella penna…».
Antonio incominciò a raccontare “quella storia”, con le parole più semplici possibili, mentre, nella sua mente, iniziarono a scorrere, come scene “cinematografiche” di un film che aveva rivisto per tutta la vita, la sua “odissea” nella campagna di Russia…

... La tradotta, ferma sui binari della stazione, era stracolma di alpini in procinto di partire verso una destinazione che, dopo tremilacinquecento chilometri, li avrebbe scaricati sulle sponde del fiume Donetz per farli proseguire a piedi, verso l’altro grande fiume: il Don.
“... Motorizzati a piè &endash; la penna nera sul cappello…
lo zaino affardellato &endash; l’alpin l‘è sempre quel…”
Così cantavano quel giorno, con forzata allegria, gli alpini della “Divisione Cuneense” in partenza per il fronte russo, mettendo in evidenza la loro bonaria filosofia.
Infatti, come dice la canzone, “l’alpin l‘è sempre quel…”, con il suo antico scetticismo di fronte all’entusiasmo e all’esaltazione delle novità mirabolanti.
Lui, l’alpino, “vecio” o “bocia” che fosse, per quante divisioni corazzate gli fossero spuntate attorno, era destinato, eternamente, a camminare a piedi e, per quante “colonne celeri” gli si decantassero, era sicuro che il suo zaino avrebbe dovuto reggerlo in spalla e, naturalmente, “affardellato!... com‘è significativa e bella, quella parola, ‘affardellato’!”.
Si narra che un giorno, alla stazione di Torino, due soldati meridionali di fanteria, in attesa del treno, vedessero per la prima volta alcuni di quegli zaini posati a terra dagli alpini in transito, i quasi si erano liberati un attimo del fardello per andare a bere un bicchiere di vino. I due soldati guardarono quei monumentali zaini con viva meraviglia.
Mai, prima di allora, si erano imbattuti in qualcosa di simile!...
Poi, uno dei due esclamò: «Ma chisto non è “nu zaino”... chisto è “nu comò!...!.
Quel “comò” gli alpini se lo caricano, da sempre, sulle spalle: è la loro casa con le suppellettili e gli arredi!...
La lunga tradotta partì (altre ne sarebbero seguite a distanza di giorni) e incominciò il lungo viaggio per trasportare, a scaglioni, i quindicimila alpini della divisione verso quella lontana, ignota e tragica destinazione.
Era il 5 agosto del 1942: la data di inizio del Calvario della “Cuneense”.
Di quei quindicimila alpini sarebbero tornati in Patria, anni dopo, solo ottocentonove!...
Il viaggio durò quattordici giorni, resi disagevoli dal caldo eccessivo di quell’estate e, passato il fiume Beresina che ricorda l’infausta campagna russa di Napoleone nel 1812, fu reso pericoloso anche dalle imboscate dei partigiani sovietici. Finalmente gli alpini conclusero il loro viaggio, per ferrovia a Izjun, cittadina industriale nota per le costruzioni di locomotive. Lì sostarono una decina di giorni per attendere le altre tradotte.
A ranghi completi, quindicimila uomini si mossero a piedi, con marce forzate di venticinque-trenta chilometri al giorno, per raggiungere il pericoloso saliente del fronte loro assegnato, sul fiume Don, il grande fiume che divide l’Ucraina dalla Russia.
Anche Antonio e Marco era fra questi uomini: marciavano a fianco scambiandosi il minimo di parole necessarie in quel frangente.

Antonio e Marco erano, come si usa dire, due “amici per la pelle”.
Coetanei, erano stati richiamati alle armi e assegnati, entrambi, alla Divisione Cuneense.
La loro “classe”, il 1915, era una di quelle che aveva subito, più di altre, la … “naia”. Scherzosamente gli alpini di quell’“annata” usavano ripetere: «Ogni tant i xe riciama a far i borghesi, ma po’ in xe congeda subito e tornemo soldà!...».
Erano cresciuti assieme i due. Fin da piccoli, vicini di casa, compagni di scuola, amici di giochi e di birichinate. Finite le elementari, data la difficoltà a frequentare scuole superiori, si erano dedicati ai lavori nei campi delle rispettive famiglie. In montagna la vita dei contadini era molto dura, ma entrambi erano ottimi lavoratori.
Alla domenica si trovavano e con le biciclette raggiungevano i paesi vicini dove sapevano che c’era una festa da ballo.
Erano due ragazzi piacenti e la corte alle ragazze spesso aveva successo, ma quando la situazione cominciava ad essere… pericolosa e compromettente, cambiavano zona.
Non volevano impegni: era così bello svolazzare di fiore in fiore…!
Erano due “cacciatori” che si dividevano la … “selvaggina”: adocchiate le “prede” concordavano i rispettivi bersagli!... mai avute discussioni in proposito!...
Ma un giorno capitò un fatto che determinò una svolta nella loro vita.
Era una domenica di primavera, nelle prime ore del pomeriggio.
Stavano arrancando in salita sulle loro “sgangherate” biciclette, per raggiungere un paese vicino, quando Marco bucò una gomma. Per ripararla si fermarono a fianco di una casa isolata fuori dal paese. Riparare una gomma, allora, non era una cosa tanto facile.
Occorreva affrontare un “rituale” che prevedeva la fuoriuscita del “copertone” dalla ruota, con due appositi attrezzi, poi la gonfiatura della “camera d’aria” che veniva immersa in una bacinella d’acqua per la ricerca della “bucatura” evidenziata dalle bollicine di aria che salivano alla superficie del liquido. Successivamente bisognava asciugare tutta la parte interessata alla riparazione e renderla ruvida mediante carta vetrata.
Una passata di mastice, materiale viscoso e tenace e, appena asciugato, si poneva sopra la bucatura un pezzetto di gomma, opportunamente sagomato per glutinare i due corpi omogenei. Un’operazione abbastanza lunga e che prevedeva una attrezzatura indispensabile: una bacinella d’acqua!...
I due amici videro una ragazza che stava uscendo e chiesero, per favore, un catino d’acqua dopo averle spiegato il motivo. La giovane fu molto gentile, prese un recipiente, lo riempì e lo porse ai due giovani, mettendosi seduta, a distanza ravvicinata, per osservare il loro travagliato compito. Marco e Antonio le sorrisero e si fecero subito arditi.
Uno dei due chiese: «Come si chiama, signorina?...».
«Maddalena», rispose pronta la ragazza, «Maddalena è il mio nome… ma nessuno mi chiama così, è troppo lungo… per tutti sono Lena…».
Antonio e Marco fecero in modo di incontrare frequentemente Lena nelle sale da ballo. Lena era una bella ragazza, bionda, con i lineamenti molto fini, attraente e piacevole.
La ragazza piaceva ad entrambi, ma nessuno dei due si comportava con lei come con le altre ragazze anche perché, l’atteggiamento fermo e determinato della giovane, riusciva a smorzare la loro spavalderia. Quando i due amici tentavano qualche “corteggiamento” la risposta di lei era disarmante: «Avete “bucato” un’altra volta la… gomma!»
Ma la situazione non poteva continuare a lungo.
Una malattia di Antonio fece sì che Lena si dedicasse con maggior interesse a lui e da questa situazione nacque un sentimento diverso dall’amicizia.
Marco, poco alla volta, cominciò a capire che la situazione non era più quella di prima ed i rapporti con Antonio, apparentemente normali, in realtà incominciarono a far trapelare molta freddezza, se non addirittura astio e rancore.
Antonio gli “aveva portato via” Lena!... spesso Marco si chiedeva se Antonio si fosse comportato da vero amico… certo si sentiva umiliato e provava un senso di sofferenza…

Antonio e Marco si trovavano nello stesso vagone della tradotta che li portava in Russia, un Paese che avevano appena sentito nominare e che non conoscevano.
Percorsero affiancati anche la lunga marcia di avvicinamento alla linea del fronte. Passarono lunghe ore e lunghi giorni a guardare quel paesaggio tanto diverso dalle loro montagne: sconfinate pianure piene di girasoli e con coltivazioni estensive di frumento, miglio e segale. La monotonia del paesaggio piatto era variata da pittoreschi villaggi, nuclei di casette di legno tinte di bianco, mulini a vento che tagliavano l’orizzonte con le pale a colori, campanili silenziosi accanto alle chiese trasformate in magazzini.
Nelle brevi soste gli alpini cercavano di prendere contatto con l’ambiente nuovo e fraternizzare con la popolazione che si dimostrò molto cordiale. Ma, tutto attorno, regnava aria di tragedia: quel paesaggio era circondato da segni di battaglie recenti, di distruzioni.
Come era tutto diverso dalla loro valle, accerchiata da alte montagne, inclusa fra tanti boschi di alberi verdi, costellata di paesi ridenti e ospitali, abitati da gente che parlava la loro stessa lingua, gente che era familiare, che loro conoscevano e chiamavano per nome.
Questi pensieri di Antonio e Marco mentre procedevano faticosamente nel caldo e con quel fardello sulle spalle. Marciavano quasi affiancati ma difficilmente si rivolgevano la parola: solo l’indispensabile per le necessità impellenti, mai una parola sulle persone che conoscevano… Il silenzio su una persona, poi, era evidente: parlare di “quella” persona avrebbe fatto esplodere i risentimenti dei due amici.
Talvolta, a rompere la monotonia del paesaggio, ci pensavano i partigiani russi con delle imboscate che rendevano drammatico il viaggio. La zona di combattimento si avvicinava sempre più!... presto avrebbero rivisto le montagne perché “Radio fante” aveva divulgata la notizia che la loro Divisione sarebbe stata impiegata sulle montagne del Caucaso.
Ma il Comando confermò la prima destinazione che li portò sul fiume Don e cioè ... in pianura… Dunque, addio alle montagne caucasiche!...
Erano alpini severamente addestrati a combattere sui monti e furono mandati a morire, invece, nel caldo estivo della steppa e, d’inverno, nella desolata pianura nevosa, con indumenti inadatti alla situazione.
Il reggimento di Antonio e di Marco, prese posizione in prima linea all’inizio del mese di ottobre, sulla riva desta del fiume Don, il famoso “placido Don” che, in quel punto, era veramente placido, ampio e maestoso. I due “amici” rimasero nello stesso plotone anche nello scaglionamento delle posizioni degli avamposti… Il comune destino, la sorte infelice, li avrebbe dovuti riavvicinare nello spirito della vecchia amicizia, ma nel loro comportamento, formalmente corretto, non c’era più: spontaneità, sincerità, naturalezza, semplicità di rapporti; non era più come prima!...
In alcuni momenti della vita in comune si accendeva la loro “rivalità”. Ad esempio: durante la distribuzione della posta i due si comportavano con poca lealtà, con poca schiettezza, addirittura, con doppiezza. Si controllavano a vicenda non si confidavano nulla, erano in continuo sospetto. Marco aveva notato una busta particolare che Antonio apriva per prima; da questa busta estraeva un foglio, scritto fittamente, che leggeva e rileggeva per riaprirlo, nel corso della giornata, un paio di volte. Ma sempre con atteggiamento furtivo, nascosto!... Marco, talvolta, arrivava a pensare che Antonio lo facesse con intenzione… Era una furbizia, una malizia, una scaltrezza di Antonio per farlo soffrire?

L’artiglieria nemica si faceva sentire sempre di più: si cominciarono a contare le vittime.
Questo comune pericolo avvicinò un poco i due compaesani: ricordavano il loro luogo di origine, le loro belle montagne, ma mai veniva toccato quell’“argomento”!
Quando il freddo aumentò di densità, trenta gradi sotto lo zero, l’equipaggiamento apparve subito inadeguato a quel clima. Disponevano sì di maglioni, passamontagna e pellicce di agnello, ma difettavano di convenienti calzature: i tradizionali scarponi a “quattordici chiodi” non difendevano i piedi dal congelamento. Anzi, diventavano morse infernali con quel cuoio che si restringeva. Anche il vino, l’inseparabile amico degli alpini, si solidificava in blocchi: occorrevano sacchi e coperte per trasportarlo e bisognava scioglierlo in recipienti posti sul fuoco per poterlo bere, purtroppo, sempre in quantità molto limitate.
Nei rari momenti di libertà, Antonio e Marco, andavano in un villaggio vicino, poche “isbe”, chiamato Staraja Kasatva (“Starei a casa”, lo chiamavano gli alpini per l’assonanza alla lingua italiana!) e prendevano contatto con i civili, con i quali avevano ottimi rapporti e scambi di merci, regolati da “leggi di mercato” dettate dalle contrapposte esigenze.
Addirittura il “sensale” di questi scambi era lo “Stàrosta” il Sindaco, il quale regolava le permute: “Sup” (minestra), “Papiròsa” (sigarette), assieme a medicinali; queste erano le richieste dei locali i quali offrivano in cambio, i “Valenki” cioè gli stivaloni di feltro usati dai russi, merce pregiatissima e ricercata dai nostri alpini.
Il rapporto di amicizia instaurato con la popolazione locale risultò ottimo, sincero, cordiale, costellato di simpatici episodi con protagonisti i nostri alpini, che riuscirono a trasmettere la loro simpatia, l’allegria, la bonomia e la loro innata generosità!
Le donne anziane del paese erano tutte “Babuska” (nonna) per i nostri giovani alpini che rivedevano in quei visi sofferenti e scarni le sembianze dei loro genitori e delle nonne!
Quando dovevano rientrare nei loro attendamenti, gli alpini si sentivano salutare con “Do Svidanija” (arrivederci) e con una serie di “Spasibo” (grazie) per quanto avevano dato in dono. Questa “cordialità” di rapporti venne dimostrata coi fatti, da una situazione che aveva del sensazionale nel contesto delle circostanze: i partigiani russi che presidiavano la zona, sempre pronti a fare colpi di mano contro i distaccamenti tedeschi, non attaccarono mai le nostre truppe mentre erano ospiti nelle loro case o nei dintorni.
Se erano costretti da ordini superiori ad attaccare, mandavano “staffette” ad avvisare i nostri alpini. “Bystroj… Bystroj…” (via… via…) era il loro preallarme!...
Sì... questa è la verità!... I “russi” avevano una grande stima, come combattente, per il “soldato con la penna sul cappello”!...
Radio Mosca, il 27 gennaio 1943, trasmetteva: “L’Armata rossa è orgogliosa di aver vinto il più forte soldato d’Italia”. Ma oltre al valore militare, avevano altrettanta stima per il loro comportamento come persone, di una umanità eccezionale, nei confronti di chi soffriva. Non era infrequente il caso che gli alpini dividessero il loro “rancio” con donne, vecchi e bambini del posto!...
“Italjanskii hosòsii” (gli italiani sono buoni): questo il concetto dei russi sul nostro Popolo. Gli alpini, con quella “lunga penna nera”, se lo erano “guadagnato” quel giudizio!...
il 10 dicembre iniziò un furioso cannoneggiamento: era l’inizio dell’offensiva che annientò, in un mese, tutte le forze alpine del medio Don. I mezzi corazzati russi attaccarono in massa.
In “pianura”, gli “uomini della montagna”, resistettero come macigni fino allo stremo.
Antonio e Marco combatterono fianco a fianco, aiutandosi a vicenda, nei momenti critici.
La “Cuneense” non mollò!...
Qualche ufficiale, più ottimisti di altri, incitava i suoi uomini con ipotetici rinforzi, ma questi apparivano, agli occhi di tutti, estremamente improbabili.
La tragica realtà mise, ancora una volta, in evidenza la saggezza e la volontà proverbiali di questi uomini di montagna, stimolando il ricordo di un motto famoso dell’alpino, trincerato sul Piave, al quale si faceva credere, anche a lui, l’arrivo dei rinforzi: “Mona chi ghe crede, ma boia chi molla!...”.
Non era una grande filosofia, ma certo lo spirito dell’Alpino era presente!...
Ma da altre parti il fronte fu sfondato drammaticamente e il loro reparto fu costretto a ritirarsi. Iniziò, così, la più tragica, dolorosa e crudele ritirata della seconda guerra mondiale, che si protrasse per parecchie settimane, senza soste.
Le autocarrette, ormai inservibili per mancanza di carburante, vennero incendiate per procurarsi un po’ di calore. Gli alpini ebbero in dotazione due scatolette di carne e tre “gallette”: tutto questo doveva servire per… alcune settimane!...
Gli uomini, stanchi e sfiniti da giornate di marce forzate, non potevano fermarsi perché significava morte sicura. Bisognava camminare… camminare e camminare ancora, su un mare cristallizzato di neve e ghiaccio, battuto da tempeste di sinibbio, attorniati da un panorama tremendamente desolante per la sua piatta monotonia, tra villaggi incendiati, macerie di case distrutte, rovine di ogni genere e con il rischio incombente di attacchi nemici, sempre più frequenti e pericolosi. Antonio e Marco procedevano vicini.
Con lo sguardo, che trapelava da spettacolari ma capricciosi arabeschi tracciati dal gelo che si era installato nei loro baffi e nelle barbe lunghe, si cercavano continuamente e, a turno, si rincuoravano a vicenda, specie quando, nell’immensità della steppa si faceva da cassa di risonanza, si levavano grida e gemiti di alpini feriti. Non c’era tempo per riposare, si doveva proseguire nell’oscurità della notte, rotta dalle scie delle pallottole traccianti che davano un aspetto ancora più spettrale all’ambiente, tra rombi cupi e spari che giungevano da tutti i punti imprecisati dell’orizzonte.
Non si dormiva. Nelle poche “isbe”, incontrate lungo il doloroso cammino della ritirata, si ammassavano centinaia di soldati per riposare un paio d’ore.
Improvvisamente, questi uomini spettrali, mentre riposavano, perdevano la sensibilità delle mani o dei piedi: era l’inizio del “congelamento” che rendeva gli arti ingombranti appendici del corpo e li portava all’inevitabile cancrena. Significava l’impossibilità di continuare a camminare e, quindi, l’annullamento della speranza!...
I colpiti non ce la facevano più a rialzarsi e si abbandonavano alla “morte bianca”!... Antonio e Marco vagavano in mezzo a quella turba di disperati, ma erano anche loro allo stremo delle forze. Avevano esaurito le minime scorte di viveri da diversi giorni e lo sfinimento si faceva sentire con una progressiva mancanza di energie.
Antonio, poi, era ridotto in condizioni pietose. Era sostenuto continuamente da Marco. Non ce la faceva più a reggersi in piedi, il corpo curvato, quasi rattrappito nello sforzo.
Essi seguivano la massa dei derelitti: una enorme colonna di uomini coperti nella maniera più disparata, come tanti straccioni; le divise ed i pastrani a brandelli, gli scarponi avvolti in pezze di stoffa, in testa i copricapo più strani, nelle mani guanti lacerati, molti i feriti con bende rosse di sangue raggrumato, che appariva ancora più vermiglio in quel cinereo ambiente. Avevano sonno, tanto sonno, ma sapevano che fermarsi significava addormentarsi e se si addormentavano non si sarebbero più svegliati: la “morte bianca” era in agguato!

Un mattino, improvvisamente, apparvero, su una piccolissima altura, delle ombre scure, rese ancora più minacciose perché si intravedevano fra il turbinare della neve senza la possibilità certa di individuare chi fossero. Erano mastodontici carri armati russi!...
Incominciarono a sparare sulla interminabile colonna di fuggiaschi. Gli alpini, con la forza della disperazione, cercarono scampo in un bosco vicino.
Marco si accorse che Antonio non reagiva più e vice l’amico che sanguinava abbondantemente da un braccio, per una ferita da scheggia. «Aiutati, Antonio… aiutati!...», urlò.
Antonio era in uno stato di semi incoscienza, ma ebbe la forza di dire: «Marco, sto morendo… non ce la faccio più... sparami… ti prego… sparami… se sei un amico fallo… te lo chiedo per pietà!...», implorò ancora «... fallo Marco… ti supplico… fallo… sparami…».
Marco ebbe tanta pietà... sì... era l’unico modo per aiutarlo… per farlo soffrire meno!... Si sfilò il fucile dalle spalle, guardò quell’uomo e incontrò il suo sguardo implorante.
Lentamente, molto lentamente, pose il calcio del fucile in posizione di sparo.
In quell’istante, si udì un urlo selvaggio al limitare del bosco: centinaia di militari russi a cavallo, con le spade sguainate, si buttarono all’assalto. Erano gli squadroni della cavalleria “cosacca”, guerrieri feroci, spietati, che partivano all’attacco di quei malridotti alpini!...
Marco gettò via il fucile urlano verso l’amico: «No… no… no… non posso!...» e, in un gesto impulsivo, naturale, si mise a correre, correre all’impazzata verso la direzione opposta da dove stava arrivando la cavalleria, in un disperato tentativo di salvezza…

Qui Antonio, fece una lunga pausa nel suo racconto.
Tutta la tragedia, rivissuta nella memoria; l’aveva raccontata con parole più semplici al bambino che aveva ascoltato attentamente.
Poi il vecchio si passò una mano sulla fronte…
«E allora, nonno… continua… come andò a finire?...», chiese ansioso il nipote.
Il nonno tolse il berretto da alpino dalla testa del piccolo e indicò la “penna nera”...
«Vedi?... Fu questa a salvarmi… Ero rassegnato… Vidi arrivare un gran numero di cavalieri… vidi tutte quelle spade sguainate… sentii le loro grida eccitate… urlavano… urlavano come forsennati… Chiusi gli occhi e pregai. Per alcuni secondi sentii strepitare sempre più vicino. Poi, un improvviso silenzio… solo un nitrire di cavalli!… Aprii gli occhi e vidi davanti a me un cavaliere russo che, con un braccio alzato, aveva fermato il galoppo dei cosacchi.
L’uomo scese dal cavallo: era un giovane ufficiale russo che si avvicinò a me ‘Italiano?’ chiese.
‘Sì, italiano’, risposi. L’ufficiale fece un segno con un dito alla penna, alla “nostra penna” e disse stentatamente ‘Alpino?… Tu alpino?…’
‘Sì, sono un alpino… sono ferito…’ e mostrai il braccio colpito.
‘Italjanskii horòsii’, rispose il russo. E tu, Roberto, sai cosa vuol dire vero? Che gli italiani sono buoni!
Il giovane ufficiale fece un cenno ai suoi uomini per dare degli ordini, mi salutò militarmente, ritornò in sella e spronò il suo cavallo…
Fui adagiato su una barella ed inviato in un piccolo ospedale da campo nelle retrovie dove furono costretti a tagliarmi il braccio… Rimasi prigionieri per tanti anni… ma mi salvai».
Il nonno tacque: aveva terminato il suo racconto….

«E Marco?… e Lena?…», chiese curioso e interessato il nipote.
«Marco non tornò… rimase là… la sua “penna nera” è rimasta in quel Paese lontano a testimoniare e rappresentare il “nostro Paese“… perché quando qualcuno, ancora oggi in Russia, ricorda gli alpini di ‘Italjanskii horòsii‘…e Lena… Lena era la nonna, Roberto, la nonna morta diversi anni fa e che non hai mai conosciuto!…».


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