Scarpe
Se ti ripenso quand’eri bambina
incespicante entro scarpe di donna
mentre indossavi di mamma la gonna
e t’atteggiavi di già a signorina,
la tenerezza riprovo di allora.
Avevi smania di crescere in fretta,
pensavi la vita fosse perfetta
e d’esser grande sognavi già l’ora.
Mute parole, una fiaba infinita
quando mimavi le tue fantasie
ad uno specchio lator di bugie.
Certo dei grandi storpiavi la vita.
Rimpiango triste, e il cuore mi duole.
Forse giocare ben altra partita
avrei dovuto, la non suggerita.
Non ho saputo? Non trovo parole.
L’eco risento di tacchi e di suole
e un argentino vociar di bambina;
forse ricordi di chi è sulla china:
l’ultimo splendido raggio di sole.
Jag ska go hemma
(voglio andare a casa)
Quando lasciammo la terra vikinga
non lo ricordi tant’eri piccina.
So che partimmo di tarda mattina
abbandonando ogni falsa lusinga.
M’era crollato l’intero universo
quando tua madre con tranquillità
disse: «Rivoglio la mia libertà,
voglio riprendermi quello che ho perso».
Per quell’amor ch’era stato rimosso
volli scrollarmi il passato di dosso,
asserragliato nel crudo dolore,
teso allo spasmo dal tetro rancore.
A me deciso a ignorare il dilemma,
piangendo dicesti: «Jag…ska go hemma».
La cavolaia
Umile cavolaia che d’estate
mi sfarfallavi sopra i gelsomini,
ora ch’è inverno, dove sei fuggita?
Al bruco tuo donasti un dì la vita:
larva che si nasconde chissà dove;
crisalide dal freddo intirizzita.
Forse ti rivedrò,
uscita dal tuo guscio,
tornare a svolazzare
sul limitar dell’uscio,
ma non sarai la stessa,
anche se ti confondo:
vita che si ripete
nell’orbitar del mondo.
Ti voglio bene
Ti voglio bene. Solo tre parole
povere forse, semplici ma vere.
Sanno irradiar tutto il calor del sole.
Le dita ti accarezzano leggere,
cercando vanno ciocche di capelli
mentre dormi. Così passo le sere
sul tuo respiro e penso ai menestrelli,
a note per cantare i sentimenti,
ma le parole suonan come orpelli,
non son per esaltare quei momenti.
Meglio il silenzio: musica del cuore
perché l’amore ignora gli argomenti
dissolti entro il trascorrere dell’ore
nell’estasi e nell’intimo di alcove
ove chi soffre stempera il dolore.
Non so, forse ti ho conosciuta altrove,
e stesti accanto a me continuamente
credo aspettando che arrivasse il dove
oppure il quando. Forse inconsciamente
insieme in altra vita; so che intanto
tu vivi accanto a me qui nel presente
e che ti amo non so dirti quanto.
Mentre tu dormi penso ad un grafema,
a un fonema, voce a questo canto,
a inchiostro con cui scrivere un poema,
la nostra fiaba, il nostro mondo arcano:
il sì dei nostri cuori è quel glossema.
Se poi a qualcuno può sembrare strano
vederci camminar lungo la via
bimbi canuti mano nella mano,
ricorda che la vita è poesia.
Guardandoci negli occhi or proseguiamo
dentro quel sogno pieno di malia.
«Il conto per favore!»
Tutti mangiammo al noto ristorante
di quest’albergo ch’è chiamato Vita
servendoci alla tavola imbandita
tra la ressa di gente sgomitante.
Ebbi assaggiato il cibo del grifagno?
L’ebbrezza dolceamara del rancore?
Il tannico sapore del dolore?
Il digestivo tossico del ragno? ...
Bevuto ho del lamento soffocato
di delfini spiaggiati sugli scogli,
di megattere, squali e capodogli
vittime d’un agire scriteriato?...
Stesi pur io l’aracneo sudario
ove ripor gli avanzi della mensa
per arricchir di scorte la dispensa
ipotecando i dì del calendario? ...
Così fan tutti mi son detto anch’io.
Non fui peggior di molti miei compagni:
di acari, scorpioni, zecche e ragni
qui sulla terra pel voler di Dio.
Non serve ormai affannarmi ossessionato
a rastrellar perfin sulla battigia
ossi di seppia per la mia ingordigia:
non c’è un domani dato per scontato!
Portami il conto dunque, cameriere,
voglio veder, lasciandoti la mancia,
pingertisi il sorriso sulla guancia
tosto che pareggiai dare ed avere.
Par lamento
Lassù, inerpicato fra i graniti,
avvolto dentro il suo candido manto,
per popolar la notte il cieco vate
sulla cetra vibrò l’ultimo canto.
Cantò di Luna al cinguettio di Stelle,
di Pan, che ascoso tra i frondosi larici,
flautava il vento al luccicar di quelle.
La Ninfa Eco seco raccoglieva
quei grappoli di note entro un bucato
panier che disperdea lungo le valli
come fosser lamento disperato.
Il cieco vide allora per incanto
schiudersi a lui le porte del mistero.
Dalla vetta del fiordo udiva il mare
urlare contro un povero nocchiero.
Poseidone scuotere il tridente
e scatenar sul mondo l’uragano.
Vide le spume popolarsi d’ombre:
ressa di larve urlanti in cimitero.
Scagliarsi l’onde come Dei furenti,
e le Nereidi che danzando insieme
traean dal mare mostri come armenti.
Le fiere Allo, Ocipite e Celeno
il vate vide assecondare Aletto:
bruma di morte che opprimeva il petto.
Sorse Tiresia e zittì l’aedo:
«Taci, poeta, con le tue sciagure!
Paterno Zeus incaricò Morfeo
che con l’ulivo asperga piano piano
la sua rugiada sul furore umano».
Simposio olimpico
Fu Clio a porgere la cetra al vate:
«Poiché i giovani ignorano la storia
provati a risvegliarne la memoria.
A Roma una svastica uncinata
che grondò sangue è stata riesumata.
Scrivi un sogno che parli di salsedine,
scrivilo con la penna di gabbiano,
metti il sigillo e mandalo lontano
nascosto sotto le ali d’un airone
migrante ardito verso meridione.
Fa che Mneme riguadagnando il soglio
starnazzi come l’oche in Campidoglio.
Cercando vada un po’ di quella luce:
la fiaccola di Caute che illumina
d’Eliodromo il sentiero che conduce
al ciel di Mitra e dentro al suo mistero».
E il vate strimpellò le sue canzoni:
«Lassù sospese le Costellazioni
si narrano dell’uomo le illusioni
e nel convito il nobile consesso
fra un agape ed un brindisi alla vita,
sconfitto Ahriman il dio feroce,
si chiedono perché non vi sia pace».
«Scorpione fu, l’aracnide venefica
quando insidiò i testicoli di Toro»,
Esordì Miles,«mentre il divin Mitra
con la spada sgozzava l’animale
che stillò sangue per il baccanale».
«No, non mi pare» ribatteva Perses
«Luna mi disse che l’umano genere
ama l’insidia della Notte scura,
divide con la Serpe la natura,
squarta ed uccide, scatena la guerra,
rifiuta la memoria e non afferra
il dramma della morte e per sua quiete
cerca l’oblio tuffandosi nel Lete».
Concluse il Leontocefalo indulgente:
«L’uomo è così, non possiam farci niente».
Ricerca
Volli indagar tra il folto delle selve
ove s’asconde l’albero di vita
e rintracciare sotto le radici
dove la sua memoria s’è smarrita.
Un angelo o un demone, non so,
preso per mano mi portò lontano,
mi pose fra le mani un astrolabio
per navigare ed esplorare il cielo
ed unghie per scavare nel pantano.
M’avvolse poi in un turbine di vento
e mi trovai lontano in un momento.
Nel vuoto d’uno spazio sconfinato
davanti a me si profilava un antro
più tetro ancor del nero della notte
ed inquietante forse più del Fato.
La scala si perdeva nell’abisso.
Scesi gradini senza corrimano
della spelonca ruzzolando in fondo:
tempio di Mitra dove uccise il Toro
dal cui midollo germogliare il grano
vidi e dal sangue il tralcio della vite
quali doni magnanimi di Dite.
Era di Zaratustra quell’invito,
ma mi lasciava incredulo e avvilito.
L’attimo dopo già non fui più lì.
Posato fra le braccia di Kalì
vidi tigri, serpenti ed elefanti,
occhi stupendi ma terrificanti
fra il tanfo ed il baglior di pire umane.
La verità non è metempsicosi,
gl’Indù me l’hanno razionata in dosi.
Entrare e uscir dal corpo di animali
è una tortura che non trova uguali.
Varcato il monte scranno degli dei,
Confucio mi sorrise ambiguamente:
«La verità la troverai nel Cielo,
sei stolto se la cerchi fra la gente».
Trattolo fuor dal fondo del corbello,
mi mise tra le mani un filugello:
«La bava sua ti porterà lontano,
vedrai, fino alla reggia del Sultano».
E così fu, però lungo la via
vidi di lapidati una moria,
di arsi e di sgozzati una ecatombe.
Passando per il tempio degli Ebrei
non fui contento e per altri dei
verso occidente orientai la vela,
ma Manitù non era un rivelato
per cui dai bianchi venne massacrato.
Dove cercare allora il Paradiso?
L’albero della vita e del sapere?
Pensai si nascondesse a settentrione.
Montai sul carro e, salutato Orione,
del polo perseguii la direzione.
Giunto, che vi trovai? ... Desolazione.
Avanti ancora e presso un cimitero
scorsi la guida dal mantello nero.
«Fermati là!» mi disse: «Che vuoi fare?
Vuoi continuare ancora ad indagare
o vuoi tornare indietro e rinunciare?
Sei sulla soglia, se la vuoi varcare
svelata ti sarà la verità,
ma non t’è più concesso ritornare».
Chinato il capo scelsi di star qua.
Favelas
Se guardi oltre il recinto
delle tue assurde brame,
d’uccelli e di fanciulli
tu vedi un brulicame:
frugano tra i rifiuti
bambini che ai gabbiani
contendono la fame.
[continua]