Trozzi sciughjiri (Trecce sciolte)

di

Carmelo Lanfranco


Carmelo Lanfranco - Trozzi sciughjiri (Trecce sciolte)
Collana "Apollonia" - I libri dedicati alle minoranze linguistiche: lingua, storia e letteratura
14x20,5 - pp. 198 - Euro 13,00
ISBN 9791259511287

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100 poesie inedite e postume nel dialetto galloitalico di San Fratello (ME) [a cura di Giuseppe Foti]


In copertina: diploma del 1108 col quale la contessa Adelaide dona all’Abate Ambrogio di San Bartolomeo le decime degli ebrei di Termini (con sigillo di ceralacca).
(Per gentile concessione dell’Archivio Capitolare di Patti)


Dentro l’inconscio collettivo sanfratellano

Un autore non può non rimandare ai suoi luoghi: così è per la Palermo di Tomasi di Lampedusa, per la Racalmuto di Sciascia, per la Comiso di Bufalino… Così è, senza dubbio, per la San Fratello di Carmelo Lanfranco, uomo di cultura raffinata, venuto a mancare troppo prematuramente all’amore dei suoi cari e all’intera comunità sanfratellana. In questa raccolta, nel 10° anniversario della sua scomparsa, vengono pubblicati cento componimenti inediti, scelti tra le sue poesie dialettali di maggior rilievo. Con la voce dell’autore, così come emerge dalle sue carte (pag. 187), possiamo addentrarci nel significato dei suoi versi: «La mia poesia esprime temi cari non solo alla mia sensibilità ma anche alla mia memoria. Molti segmenti della mia vita si trovano come sfilacciati nelle poesie, soprattutto in quelle vernacole. Sono oltre modo fiero di essere un siciliano “lombardo”, in quanto sono convinto di possedere nel patrimonio genetico quel quid di matrice galloitalica che mi accomuna ai miei concittadini sanfratellani con i quali è possibile comunicare emozioni, sentimenti, modi proverbiali, con una spontaneità pura e trasparente che difficilmente si presenta con questi elementi cumulativi quando comunico con gli altri siciliani. Mi sento endemico, quando arrivo a San Fratello». Lo scrittore ha avuto, in realtà, diverse patrie – Nicosia, il luogo dell’amore; Troina, l’ubicazione della professione; Venetico, il regno del riposo – ma protagonista di queste poesie è, dichiaratamente, San Fratello, luogo natale e materno, una delle cittadine della Sicilia lombarda, l’insieme dei centri siciliani di parlata settentrionale – galloitalica – formatosi nel medioevo, in seguito alla protratta migrazione nell’isola di genti provenienti dal Nord Italia che qui portarono anche le loro parlate, ancora vitali all’inizio di questo XXI secolo.
San Fratello, d’accordo. Ma qual è il mondo di questa poesia? L’universo dell’adolescenza è ormai perduto già al momento della genesi dei primi componimenti. L’eco della travolgente industrializzazione degli anni ’50 e ’60 giunge, con qualche anno di ritardo, nell’intero meridione, operando, anche nei “lombardi” della cittadina nebroidea, la pasoliniana mutazione antropologica che si stava già consumando nel resto degli italiani. La poesia di Lanfranco ha, però, la forza di ricreare letterariamente lo spazio scomparso, malgrado i testi non nascano con questo fine precipuo, nemmeno inconscio. Nessuna operazione nostalgica: Lanfranco non è un laudator temporis acti. Nessun tentativo di tutelare un passato e una tradizione “inventata”, di sapore romantico, frutto di facili panegirici. Ciò che leggiamo, giunge dallo sguardo sincero di un bambino, attraverso le parole dell’adulto che guarda al proprio locale, senza cadere nel localismo: la stessa sincerità dichiarata, coraggiosamente, nella poesia-manifesto (pag. 23) che, come era nei progetti dell’autore, dà il titolo all’intera raccolta.
Siamo di fronte a temi dal sapore antico, ma ad una poesia nuova per l’ormai non trascurabile produzione letteraria nel dialetto di San Fratello. I testi, letti senza soluzione di continuità, sono un’opera narrativa in versi che racconta la comunità sanfratellana, attraverso una rassegna di figure di uomini e donne esemplari e antonomastici nell’emblema dell’universo paesano. La voce di questi protagonisti – reali o, spesso, riconoscibili dietro l’elaborazione letteraria – descrive la visione del mondo della comunità, rappresentando una molteplicità di aspetti che vanno dagli amori, la famiglia, le aspirazioni, la dabbenaggine, alla fede, il cibo, la festa, la lingua e, ineluttabilmente, la morte. Quella di Lanfranco è la poesia dello zeitgeist, dello spirito del – suo – tempo.
Questo grande affresco, fa uso di tinte differenti. La lirica commovente, come nell’intensa Cient e rries ‘Pianto e riso’ (pag. 28); la preghiera, che vena la delicatissima Ninna nanna a Gesù bambinìan ‘Ninna nanna a Gesù Bambino’ (pag. 95); i moniti pedagogici e la satira, come nell’epigrafica Quänt è beu mi suogir ‘Quanto è bello mio suocero’ (pag. 113). Ogni creazione ha modelli di riferimento e precedenti illustri; nel caso della satira, è evidente il nesso con le 39 poesie popolari di genere comico e satirico, raccolte dal sanfratellano Luigi Vasi, alla fine del XIX secolo in appendice al suo Delle origini e vicende di S. Fratello.
Sul piano degli usi linguistici dialettali, Lanfranco è il primo scrittore sanfratellano che fonda pienamente la lingua materna e il vernacolo del poeta in un codice unico di comunicazione. Si tratta di un dialetto che fa uso sapiente di termini e locuzioni oggi in disuso, entrate in parte nell’ambito degli arcaismi, in grado di arricchire ulteriormente la documentazione del galloitalico di San Fratello. Tra questi, solo per qualche esempio, vanno menzionati: pipiriddu ‘dito mignolo’ (pag. 40), madunäzza ‘donna onesta, moralmente retta’ (pag. 121), l’anglismo baccaus ‘sala da bagno’ (pag. 60) e le polirematiche èassir di insingatina ‘essere all’ufficializzazione del fidanzamento’ (pag. 122), avar la duntanänza ‘apparire di bell’aspetto già a distanza’ (pag. 115), fomni e ami, schietta la fieu ‘femmine e maschi (vicini), esplode la bile’ (pag. 28).
L’espressività del dialetto viene pienamente recuperata nella competenza di un parlante colto, che evita, ad esempio, l’uso improprio di prestiti dall’italiano, superflui, se non addirittura alienanti, quando il dialetto possiede già termini patrimoniali al netto di meditate innovazioni letterarie. Proprio sugli usi scritti di semiparlanti, dove appaiono più frequenti i segni della pressione interlinguistica sul dialetto da parte della varietà di prestigio (la lingua italiana), il poeta, con lungimiranza, afferma: «Lascia che salgano / sul palcoscenico / coloro che succhiarono latte e dialetto / quando le proprie madri li allattavano al petto» (Ana vei firrijann, signaur pueta?, pag. 76).
Questi i motivi per i quali le poesie di Carmelo Lanfranco rappresentano un grande passo avanti per la letteratura nel galloitalico di San Fratello e per i migliori usi scritti del dialetto, ormai destinati a continuare a crescere, dopo il grande rilancio scaturito dall’impegno straordinario del compianto Benedetto Di Pietro (pag. 13).
Ci sono scrittori i cui componimenti sono stati letti appena, e li si ama molto. È il caso di Carmelo Lanfranco, già molto ammirato, oltre che per il segno che ha saputo lasciare in chi lo ha conosciuto, anche per il manipolo delle sue belle poesie già edite. Con questa corposa raccolta che si dona ai lettori, è facile profezia affermare che Lanfranco diverrà, da oggi, uno di quegli scrittori che si legge e si rilegge per anni, e si ama tanto, davvero tanto.

Giuseppe Foti


Trozzi sciughjiri (Trecce sciolte)


Preambolo

Vi racconto il paese
Le storie cancellate, o mai vissute da altri, che dai tre anni di vita, per oltre cinquantacinque anni ho conservato nella mente, attraverso una memoria che non è mai invecchiata.
Ma ora è il momento di affidarle alle carte, prima che il sole tramonti con esse, trascinando anche i frammenti della mia stupenda, ma complessa avventura terrena.

U ieu cantäva,
e u scecch arragnieva,
u caveu s’appagnieva
e rodda ghj’uogg di därmi
s’arrasäva

Carmelo Lanfranco


Trozzi sciughjiri

Tu, cuor mia, aprisàntat cu li trozzi sciughjiri, cu li paradi abijeri
cam vienu,
pircò li uò dascer aner
na vauta pi sampr…
Tu, cuor mia, bätt cam uoi, se ni fei accuscì
li buriedi si nturciunìu
e ti santi mpazzir.
Dì sach uoi saura dû ta paies e di la saua giant,
sanza amuccer nant…
E u cuor m’aripunò:
«Scì, ara dich tutt cau chi suò, tutt cau chi foi,
tutt cau chi vicc
e nudd mi pà udier,
pircò dich la viritea.
D’ana uoi ch’acumunzuoma? Di la campegna,
dî zzitegg,
di li festi,
di li carni,
di li stuorii dû passea,
o di quodi dû prisant,
o di tänt ieutr causi?»
Fea tu, cuor mia…
Sciuoghj li trozzi
e grira!



Trecce sciolte

Tu, cuore mio, presentati con
le trecce sciolte, con le
parole gettate
come vengono,
perché le devo liberare
una volta per sempre…
Tu, cuore mio, batti come vuoi, se non fai così
le budella ti si aggrovigliano
e ti senti impazzire.
Dì ciò che vuoi sul tuo
paese e sulla sua gente,
senza nascondere niente…
E il cuore mi rispose
«Sì, ora dico tutto ciò che so, tutto ciò che feci,
tutto ciò che vidi
e nessuno mi potrà odiare,
perché dirò il vero.
Da dove vuoi che cominciamo? Dalla campagna,
dai fidanzamenti,
dalle feste,
dalle corna,
dalle storie del passato,
o da quelle del presente,
o da tante altre cose?»
Fai tu, cuore mio…
Sciogli le trecce
e grida!



I sentimenti


Ma li aumbri (Ma le ombre)

Ma li aumbri
arrestu sampr aumbri.
Nudda luci pi roddi s’aduma.
Cieng la moma u fighj pirdù,
cieng u pätri chi turner n’u vo chjù.
U passea si rripiet ntô prisant.
Ana son, sach fon, sach fu,
San Miniritu u pai savar sau tu!
Pätri afritt e momi scunsuläri
ana tu vienu sampr a prigher.
Fucilei nta la guerra i fighjuoi.
I nimisg i carp amazzean,
ma tu a d’ärma bleanca d’ognun
ghj’apizzest li ieli buleardi.
La guerra distrugì u carp,
la guerra n’i fo turner
ma San Miniritu d’ärma
n Pararies fo achjaner.
E quänt a vauti s’i nsugniean
li momi scunsuläri
chi s’arivighjevu pinsann:
«ara tuorna mi fighj!».

Ma le ombre / rimangono sempre ombre. / Nessuna luce per esse si accende. / Piange la madre il figlio disperso, / piange il padre che tornare non lo vede. / Il passato si ripete nel presente. / Dove sono, cosa fecero, cosa fu, / San Benedetto, puoi saperlo solo tu! / Padri afflitti e madri sconsolate / da te vengono sempre a pregare. / Fucilati in guerra i figlioli. / I nemici uccisero i corpi, / ma tu all’anima candida di ciascuno / affiggesti ali atte al volo. / La guerra distrusse il corpo, / la guerra non li fece tornare, / ma San Benedetto l’anima / in Paradiso fece salire. / E quante volte li sognarono / le madri sconsolate / che si risvegliavano, pensando: / «ora ritorna mio figlio!». /


I fighjuoi di la guerra
cu ghj’iengiu abrazzei
chi paraiu tucc frei,
era u sagn e ghj’u cuntävu
a tutt li visgini.
Era u caunt chi plasgiaia
ai carusgì e a li carusini
chi ni capimu sach era la guerra
e cantämu “Fratelli d’Italia”
na canzan chi sunäva
la bäna cu la fanfearra.

I figli della guerra / insieme agli angeli abbracciati / che sembravano tutti fratelli, / era il sogno che raccontavano / a tutte le vicine. / Era il racconto che piaceva / a bambini e bambine / che non capivamo cosa fosse la guerra / e cantavamo “Fratelli d’Italia”, / una canzone che suonava / la banda con la fanfara.

Cient e rries (Pianto e riso)

Cient e rries
nta ssi paies
Fomni e ami, schietta la fieu,
ghj’è chi si ng’anea cû meusittieu
trozzi sciughjiri, sciunuri ai barcuoi
pi d’ùrtim salur ê mart suoi.

Pianto e riso / in questo paese / Femmine e maschi, scoppia la bile, / e c’è chi se n’è andato col mal sottile. / Trecce sciolte, di-stese ai balconi / per l’ultimo saluto ai propri morti.

U miea dulaur (Il mio dolore)

U miea dulaur
è accuscì gränn
chi n’u pazz
nciarir chjù
ntô miea cuor,
tänt u uò cìan.

U miea dulaur
è accuscì fart
chi di li sbearri
di fearr ch’u ncatinean
grira e pearda ô vant,
e quoi ch’u sean
san tucc
ndiffirant.

U miea dulaur
ni iea dìmit, pircò
ghirdann späzza tutt li ciurani
fin’a quänn
n’arriniesc
a rràumpir quodd
carani
ch’u tienu attachiea

Il mio dolore / è così grande / che non lo posso / rinchiudere più / nel mio cuore, / così tanto l’ho pieno. // Il mio dolore / è così forte / che attraverso le sbarre / di ferro che lo hanno incatenato / grida e parla al vento, / e quelli che lo sanno / sono tutti / indifferenti. // Il mio dolore / non ha limiti, perché / gridando, spazza tutte le cortine / fino a quando / non riesce / a rompere quelle / catene / che lo tengono legato /


ntô chierzar
di na esistanza
ch’era vita
quänn tu, amaur miea,
carmävi li sufranzi.

nel carcere / di un’esistenza / che era vita / quando tu, amore mio, / calmavi le sofferenze.

Pinsier päzz (Pensiero pazzo)

Uloss affirrer u sau
achjaper la duna
àncir n canostr di stodi
e sdavacherlu atuorn atuorn
di tu!
Chi pazzìi di pinsier
treasu nta la mant
di chi stravò pi na fomna.
Pussibu ch’u bai
arriva fin’a tänt,
chi fea pèardir i sintimant
e un ni sea meanch
ana è aciantea
né sach disg
né sach fea?

Vorrei afferrare il sole / prendere la luna / riempire un cesto di stelle / e rovesciarlo tutto attorno / a te! / Quali pazzie di pensieri / entrano nella mente / di chi stravede per una donna. / Possibile che il bene / giunga fino a tanto, / da far perdere il senno / e uno non sa nemmeno / dove si trova / né cosa dice / né cosa fa?

[continua]


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