Prologo
L’“ora del racconto” è un’usanza vecchia quasi quanto Imanar. Nessuno ricorda quando sia iniziata: ha fatto parte dell’infanzia di tutti, semplicemente. Nelle notti di luna piena, grandi e bambini si riuniscono nelle case per ascoltare le storie narrate dagli anziani e dai saggi dei villaggi. Sono storie di creature magiche e di avventure meravigliose, al dì là di ogni immaginazione.
La più bella di tutte, però, è quella che non si trova scritta in nessun libro, ma che vive e vivrà per sempre nei nostri cuori, tramandata di generazione in generazione, di padre in figlio.
Io sono solo un vecchio, con gli occhi e le mani segnati dal Tempo, ma ricordo quel giorno come se fosse oggi. Quel giorno in cui la vita e il destino di tutti noi cambiarono per sempre.
Parte prima
Viaggio a Enyrid
1
L’inizio di tutto
L’oscurità che precede l’alba regnava sul bosco di Myanor, giungendo fino alle porte della città. Un pallido raggio di luna filtrava dalla nebbia, illuminando Enyrid di una luce spettrale. Il Lago di Cristallo rifletteva come uno specchio le ombre degli alberi e, in lontananza, si udiva un canto sommesso, irreale, segno che le fate e le ninfe della foresta si erano riunite per il Gran Consiglio, come sempre nelle notti di luna piena. L’incanto delle tenebre avvolgeva la città.
Orye distolse lo sguardo dalla finestra e tornò a guardare il Vecchio, che, seduto al tavolo di legno dell’osservatorio, stava studiando un polveroso libro. Una profonda ruga gli solcava la fronte mentre traduceva alcuni passi nell’antica lingua.
“Le stelle si allineano” mormorò Orye, “e il sole e la luna si oscurano; le Sabbie del Tempo scorrono inesorabili e il giorno si avvicina. La Profezia si avvererà, nel Bene o nel Male, entro il giorno di Syornagh”.
Il Vecchio la fissò intensamente.
“Orye, rispondimi con sincerità: hai fede nelle Virtù?”.
“Fin dall’inizio del mondo uomini ed elfi di inimmaginabile saggezza hanno previsto che esse salveranno Imanar dalla rovina e dalla distruzione, Luna e Sole, purezza e ardimento, gli opposti si completano. Chi sono io per mettere in dubbio le loro parole?”.
Il Vecchio le rivolse uno sguardo severo. “Non velare le tue parole”.
“Il Male avanza e la guerra incombe” sospirò la giovane sedendoglisi accanto.
“L’Oscuro sta radunando spettri e demoni e prepara eserciti di incredibile potenza nei sotterranei di Yacar. Non è mai stato così forte. Uomini malvagi giungono da ogni parte per allearsi a lui, pirati dal mare, nomadi e raminghi dalle foreste del Nord. I suoi seguaci bruciano e saccheggiano i villaggi, uccidendo tutti coloro che incontrano lungo il cammino. Noi non siamo pronti a fronteggiare un simile attacco né ad intuire come e, soprattutto, quando accadrà”.
Il Vecchio le prese dolcemente il viso tra le mani.
“Non ti ho forse educata fin da piccola a credere anche in ciò che in apparenza può sembrare impossibile e ad avere speranza in tutte le cose che appaiono perdute? Non dimenticare mai, Orye, queste parole e, mentre gli altri cadranno, tu troverai sempre la forza di andare avanti, nonostante il dolore e i fallimenti che potrai incontrare sulla tua strada. Non temere. Abbiamo alleati in tutti i regni di Imanar. La catena che lega elfi, nani e uomini non si è ancora spezzata. Affronteremo questa guerra insieme. Tuttavia, il nostro destino è nelle mani delle Virtù e nel successo della loro impresa. Non resta che attendere”.
Mentre il sole cominciava la sua ascesa nel cielo, i due elfi, il Vecchio e la fanciulla, guardavano l’orizzonte in cerca di risposte, immersi ognuno nei propri pensieri.
L’aria fredda e frizzante delle montagne spazzava le nuvole, facendo apparire un limpido cielo primaverile. Le rive dei torrenti erano coperte di brina, segno che si era da poco usciti da un lungo e gelido inverno, e i campi di Litheran, rischiarati dal sole, brillavano di rugiada.
Tutti gli abitanti del villaggio, intenti nelle loro occupazioni quotidiane, pensavano all’ottimo raccolto che, se il tempo non fosse mutato improvvisamente, si prospettava per quella estate. Tutti, meno una. La ragazzina bionda che cercava di arrampicarsi sulla grande quercia al limitare del villaggio non pensava affatto al raccolto o ad altre sciocchezze da contadini.
Dopo l’ennesima caduta, si scostò i lunghi capelli dal viso e guardò con determinazione la cima dell’albero.
“Adesso ti faccio vedere io stupida pianta!” pensò.
Circondò con entrambe le braccia il tronco della quercia e, con immenso sforzo, riuscì a issarsi su un ramo; poi si nascose tra le foglie, avendo cura che, dalla strada sottostante, nessuno potesse scorgerla.
Sentiva in lontananza il fischiettare dello zio che si avvicinava, di ritorno dal mercato, e sorrise vedendolo apparire da dietro la curva.
Elisyor adorava lo zio Aidhelm. Adorava la sua folta barba brizzolata, adorava il suo modo di ridere e di vedere il lato positivo di tutte le cose, adorava la sua parlata con un forte accento del Nord. Lei e lo zio si intendevano perfettamente perché avevano lo stesso carattere allegro e un po’ sognatore. Amavano molto la natura e spesso facevano lunghe passeggiate nei boschi seguendo le orme degli animali e scovando i nidi degli uccelli. Se trovavano una bestiola ferita, la portavano subito alla fattoria, con grande disappunto di zia Jesabel, dove la curavano fino al momento di rimetterla in libertà.
Lo zio Aidhelm aveva dato a Elisyor importanti lezioni di vita, insegnandole che tutte le creature hanno un cuore, hanno bisogno d’amore e sono degne di rispetto e ammirazione.
Per la ragazzina egli era come un padre, dato che i suoi genitori erano morti di malattia poco dopo la sua nascita, quindici anni prima. Gli zii l’avevano adottata e allevata e, non avendo figli loro, l’avevano sempre fatta sentire la loro unica, preziosissima bambina. Avevano occupato così bene il posto di genitori nel suo cuore, che spesso Elisyor dimenticava che non erano veramente la sua mamma e il suo papà.
La fanciulla attese che lo zio fosse esattamente sotto il ramo su cui si trovava, poi si lasciò scivolare sulle sue spalle. Per un attimo l’uomo rischiò di perdere l’equilibrio, ma riuscì a raddrizzarsi prima di finire a gambe all’aria, lui e la nipote.
“Me l’hai fatta anche questa volta, scimmietta!”esclamò sorridendo.
Elisyor ridacchiò. “Scusami zio, ma non ho saputo resistere. Ci caschi ogni volta! Te ne arrivi tutto baldanzoso non sospettando di nulla e…”.
“Dovrai stare attenta signorina, o un giorno o l’altro mi toccherà riportarti a casa con il collo rotto. Ti immagini le urla della zia?”.
La ragazzina sbuffò: “Tanto sono abituata e non mi faccio assolutamente niente. E poi lo dici anche tu che le cadute e i lividi rinforzano il fisico dei bambini.«C’è bisogno di giovani forti per proteggere la città, il lavoro nei campi non è roba da marmocchi!» disse imitando la voce burbera dello zio quando sgridava un bimbo che, caduto mentre giocava, scoppiava a piangere disperato.
L’uomo faceva la voce grossa, ma, in realtà, aveva un cuore d’oro. E, per sua disgrazia, ormai lo sapevano tutti. A discapito del suo orgoglio, anzi che essere considerato eroico come avrebbe voluto, si era ritrovato il favorito delle mamme di Litheran. Molte lo fermavano per strada, dicendogli che i loro bambini malati si rifiutavano di prendere le medicine a meno che non fosse andato a trovarli “Aidhi”.
Era un po’ meno simpatico ai mariti che, molto spesso, quando venivano rimproverati dalle mogli, erano costretti a sorbirsi frasi del tipo: “Aidhelm è proprio un tesoro; perché non ti sforzi di assomigliargli?” oppure “I piccoli adorano Aidhelm: potresti farti dare qualche consiglio su come essere un buon padre!”.
Elisyor conosceva bene la bontà dello zio e spesso si divertiva a punzecchiarlo proprio in quello che sapeva essere il suo punto debole.
“Mi sento preso in giro” mormorò lo zio fingendosi abbattuto.
“Ma nooo! A proposito: come è andata al mercato? Ci sono novità?”.
“Nessuna” disse l’uomo rabbuiandosi.
Preferì non raccontare alla ragazzina che Alastair era appena tornato da Duyor. Il capo villaggio aveva trovato la città completamente distrutta da un incendio appiccato dalle truppe di Yacar e gli abitanti morti, uccisi barbaramente dai soldati senza alcuna differenza tra uomini e donne, vecchi e bambini.
E poi… Alastair gli aveva detto un’altra cosa, a cui preferiva non pensare. Lo sapeva da molto tempo, da quindici anni, ma aveva sempre sperato che i suoi timori non si realizzassero. E invece, il momento era giunto.
“Troppo presto conoscerà tutto il male e il dolore di questo mondo” pensò mentre osservava la ragazzina che si avviava correndo verso la fattoria. “Elisyor… Perché proprio tu?”.
Un uomo camminava per le segrete della fortezza di Yacar, tra le celle dei prigionieri. Uomini, elfi, nani, creature dei boschi erano rinchiusi tra quelle massicce mura di pietra senza che probabilmente sarebbero mai riusciti a rivedere la luce del sole. L’odore del rancido cibo dei detenuti era insopportabile e, di tanto in tanto, un terribile urlo di dolore squarciava l’aria. Nessuno era a conoscenza delle atrocità e delle torture che venivano messe in atto nei sotterranei di Yacar, ma una cosa era certa: chiunque sorpassava il nero cancello della prigione non ne sarebbe più uscito.
L’uomo era avvolto in un lungo mantello e un cappuccio gli nascondeva il volto. Tuttavia doveva essere ben conosciuto perché, al suo passaggio, gli orchi, gli orribili aguzzini della prigione, si facevano da parte, chinando il capo con timore reverenziale. I suoi passi riecheggiavano provocando sinistri rimbombi. Salì una stretta e buia scala a chiocciola dalle pareti gocciolanti a causa della forte umidità e si ritrovò in un lungo corridoio scarsamente illuminato dalla luce di alcune torce. Il fuoco di esse proiettava inquietanti ombre sul freddo pavimento di marmo nero. L’uomo girò a destra e si diresse con decisione verso una porta. A guardia di essa c’erano due sentinelle di aspetto orribile. Avevano lunghi e luridi capelli neri e la carnagione di un pallore mortale. Indossavano un’armatura di ferro che copriva loro tutto il corpo e in mano stringevano un’appuntita lancia. Ma la cosa più spaventosa erano gli occhi, rossi come il sangue, che fissavano minacciosamente il nuovo venuto. Quando egli si fu avvicinato troppo, incrociarono le lance davanti alla porta e uno dei due gli domandò con voce roca:
“Che cosa vuoi?”.
“Sciocchi!” tuonò l’uomo incappucciato. “Non avete ancora capito all’entrata di chi dovete prestare attenzione e chi invece può passare liberamente senza dover essere sottoposto al vostro futile interrogatorio?”.
La sentinella digrignò i denti, ma l’uomo la ignorò e, scostatala malamente, entrò nella sala del trono.
La sala era immensa ed immersa nella penombra. La sola luce che la illuminava proveniva da un immenso camino di pietra affiancato dalle statue di due giganteschi draghi. In fondo ad essa si trovava un trono di legno con lo schienale intagliato a formare un complicato disegno.
L’uomo si diresse verso il trono senza osare alzare gli occhi su colui che l’occupava e si inchinò profondamente.
“Spero che tu mi porti buone notizie, Yaragon”.
“Duyor è caduta mio signore; i ribelli hanno opposto resistenza e… non ci sono sopravvissuti” disse l’uomo.
“Ottimo lavoro, Yaragon. Sapevo di poter contare su di te. Di questo passo Imanar cadrà nelle nostre mani prima di quanto ci potessimo aspettare. I nostri avversari sono deboli, non avranno la forza di opporcisi a lungo. Le città dell’Alleanza bruceranno tra le fiamme del Male, una nuova Era comincerà. Un’Era in cui il mondo sarà popolato da orchi e demoni, fulmini solcheranno il cielo e il buio avvolgerà ogni cosa”.
“Ma signore… non temete che la Profezia possa avverarsi?”.
“No, ho una persona su cui so di poter riporre la mia fiducia… Yaragon, partirai subito! Mettiti sulle tracce delle Virtù. Trovale! Prendi con te i ghurbal. Uccidi tutti coloro che oseranno mettersi sul tuo cammino, ma loro… portamele vive”.
L’occupante del trono scoppiò in una spaventosa risata e Yaragon, il più crudele e spietato dei seguaci dell’Oscuro, pur avendo un cuore di pietra che non si faceva scrupoli ad uccidere un innocente, non poté trattenere un brivido.
2
Ricordi sepolti
La fattoria di Jezabel e Aidhelm Byunill si trovava al limitare di Litheran.
Era una piccola costruzione di legno, graziosa e ben curata dalle abili mani di Jezabel. Tendine di stoffa a quadretti bianchi e rossi ornavano le minuscole finestre e una porticina tonda chiudeva l’ingresso della casa.
La fattoria era circondata da un ampio giardino. In un angolo di esso si trovava un frutteto, mentre lungo tutto il lato destro c’era una staccionata su cui si arrampicava un bellissimo roseto, che costituiva il vanto di Jezabel. La donna vi trascorreva molta parte delle sue giornate, coltivando varie specie di rose rare e accudendole amorevolmente. Le più pregiate erano le “rose di Antrim”, dal nome della contea, delicati boccioli di un colore perlaceo dal leggero profumo di vaniglia. Elisyor adorava quelle rose e per questo la zia dedicava loro particolari attenzioni.
Nel giardino si trovavano anche un pollaio, una stalla e un fienile. Due volte alla settimana, Aidhelm si recava al mercato del villaggio per vendere i prodotti della fattoria: uova, latte, formaggi e qualcuna delle deliziose torte appositamente sfornate dalla moglie.
Non era raro, passando per il viottolo che conduceva alla proprietà dei Byunill, sentire nell’aria un dolce profumino di marmellata, crema e mele.
“Quella donna ha proprio le mani d’oro” dicevano gli abitanti del villaggio, fermandosi estasiati.
La fattoria era un piccolo angolo di paradiso, in cui regnavano la felicità e la gioia. Nessuno avrebbe mai pensato che questa armonia si basasse su un sottile equilibrio che ben presto sarebbe stato spezzato.
La sera in cui questo accadde Aidhelm e Jezabel si trovavano nella cucina della fattoria. Era un ambiente caldo e accogliente, con un grande tavolo di legno al centro. Alle pareti erano appesi vari utensili, mestoli, pentoloni e un enorme grembiule ricamato che la donna indossava quando doveva impastare pane e focacce, e sulle numerose mensole facevano bella mostra di sé molti vasetti contenenti marmellate, zucchero e miele.
Elisyor dormiva già da un pezzo nella sua stanza e gli zii, seduti vicino ad uno scoppiettante caminetto, stavano sorseggiando una tisana alle erbe.
Jezabel aveva infatti anche la passione per tè, tisane e infusi di vario genere, e lei e il marito avevano preso l’abitudine, prima di andare a letto, di sedersi vicino al fuoco con una tazza bollente tra le mani, per riposarsi e raccontarsi a vicenda come si erano svolti i vari avvenimenti della giornata.
Quella sera, però, qualcosa non andava. Nella stanza regnava uno strano silenzio. Aidhelm fissava il fuoco del camino, le cui fiamme gli illuminavano a tratti il volto, pallido e preoccupato. La sua tazza era ancora piena, anche se il contenuto era ormai divenuto freddo.
Jezabel era perplessa: non aveva mai visto suo marito in un tale stato di inquietudine; sembrava che fosse tormentato da qualche terribile pensiero, ma non trovasse la forza di parlarne.
Alla fine, Aidhelm si decise a rompere il silenzio, che per la donna era a questo punto divenuto insopportabile: “Jezabel, certamente quello che sto per dirti ti sconvolgerà” disse. Il tono con cui pronunciò tali parole tradiva tutto il nervosismo di chi sa di essere sul punto di dare una notizia di cui non è in grado di prevedere i devastanti effetti, e la mente di Jezabel, cogliendo questa sfumatura nella voce del marito, fu attraversata da un terribile sospetto. Sbiancò. No, non poteva essere vero…
Percepì un brivido freddo scorrerle lungo la schiena e le mani cominciarono a tremarle. Con gli occhi inquieti fissò l’uomo che, preso un lungo respiro, ricominciò a parlare: “È giunto il momento: ho parlato con Alastair e mi ha detto che domani dobbiamo portargli la bambina”.
Jezabel sentì il mondo crollarle addosso e fu colta da un’improvvisa vertigine. I timori, gli spaventosi incubi che la svegliavano nel cuore della notte da più di quindici anni, stavano per realizzarsi.
Fortunatamente, Aidhelm fu pronto a sostenere la moglie che, lasciata cadere la tazza, che s’infranse in mille pezzi sul pavimento, era sul punto di svenire.
Quando si fu un poco ripresa, parlò con voce angosciata e incrinata dal pianto: “Non possiamo, non possiamo… Alastair non può chiederci questo. È nostra figlia! L’abbiamo cresciuta, l’abbiamo amata, ora non può portarcela via!”. Scoppiò in lacrime.
Aidhelm guardò teneramente la moglie che singhiozzava, il volto nascosto tra le mani, e le disse con voce dolce: “Jezabel… sapevamo che cosa ci aspettava fin dal momento in cui l’abbiamo presa. Sapevamo che un giorno avremmo dovuto separarci. Il nostro compito era quello di allevarla e di volerle bene fino a quando avesse intrapreso, da sola, il suo destino. Alastair cerca solo di aiutarla, di prepararla al lungo viaggio che dovrà affrontare”.
“No, no! Tu non capisci! Elisyor è tutto per me! È il sole che illumina le mie giornate. Non riuscirei più a vivere senza di lei!”.
A queste parole il viso di Aidhelm diventò rosso di collera e l’uomo balzò in piedi dalla sedia sulla quale era riuscito, malgrado la tensione, a mantenersi seduto e con una violenta spinta la scaraventò a terra.
“Io non capisco?!” urlò. “Credi che io non sia disperato all’idea di perderla? Ma se io la amo più della mia stessa vita! Più che se fosse davvero mia figlia. Se non comprendi questo, allora non mi conosci”.
Jezabel non era abituata a vedere suo marito in preda all’ira e lo scatto di Aidhelm ebbe un effetto calmante su di lei. Cessò di piangere e, alzatasi, raccolse i frantumi della tazza.
“Perdonami, caro” disse avvicinandosi e abbracciando l’uomo che era tornato a fissare con aria assente le fiamme danzanti, “ma fin dall’inizio ho sempre sperato che ci fosse un modo per evitare tutto questo. Elisyor è ancora una bambina, ha solo quindici anni! Come può essere in grado di sopportare il peso di ciò che le è stato affidato? Potrebbe distruggerla!”. La voce della donna tremava ancora.
“Elisyor è più forte di quanto crediamo. È coraggiosa e determinata…”.
“Ma è sempre vissuta all’interno del villaggio!” lo interruppe la moglie. “Non conosce nulla al di fuori di Litheran. Crede che noi siamo i suoi veri zii e non ha mai dato un peso particolare al fatto di essere un’elfa! Non vede alcuna differenza tra lei e noi e considera le orecchie a punta un semplice dettaglio…”. Sospirò. “Le abbiamo sempre raccontato che i suoi genitori sono morti di malattia: come credi che reagirà scoprendo la verità e il futuro a cui va incontro? Non possiamo mica andare da lei e dirle: “Tesoro, tu sei una delle Virtù, di cui parla una profezia di migliaia di anni fa, nonché l’unica speranza di salvezza del mondo perché la sola in grado di sconfiggere l’Oscuro che, nascondendosi nell’ombra, da lungo tempo opprime uomini, elfi, nani e ogni genere di creature distruggendo e massacrando!”. Si fermò per riprendere fiato. “Ce n’è abbastanza per far cadere in preda allo sconforto un eroe da leggenda! Figuriamoci una ragazzina!”.
“Tutto ciò è inevitabile, Jezabel. Il destino di Elisyor è intrecciato con il destino di molti. Ma non dimenticare che non sarà sola… Le Virtù di cui parla la Profezia sono due… «Luna e Sole, Purezza e Ardimento»…” citò l’uomo. “Elisyor avrà un compagno nella difficile missione che dovrà portare a termine, qualcuno che condividerà con lei preoccupazioni e dolori, vittorie e sconfitte. Ma ora andiamocene a letto: domani sarà una lunga giornata”.
Jezabel annuì e i due si coricarono. Aidhelm però non riuscì ad addormentarsi. La sua mente correva incessantemente a quindici inverni prima, a quella notte tempestosa in cui, aprendo la porta, si era trovato di fronte l’elfa tremante, avvolta in un lungo mantello. I grandi occhi verdi colmi di terrore, i lunghi capelli biondi bagnati dall’acqua e dalla neve, la giovane si voltava continuamente, come un cerbiatto che, inseguito dai cacciatori, si sente ormai in trappola.
Mormorando poche parole convulse in una lingua a lui sconosciuta, la donna gli aveva posto tra le braccia un morbido fagottino ed egli, scostando un lembo di panno che lo avvolgeva, si era ritrovato a fissare stupefatto due occhi verdi identici a quelli dell’elfa e una manina si era allungata afferrandogli la barba. Accennando un sorriso, la donna si era chinata, sfiorando con un bacio la fronte del bebè e mormorando un nome – Elisyor –, e poi si era allontanata correndo. Volgendosi indietro un’ultima volta, gli aveva rivolto un’occhiata piena di disperata e muta supplica.
Ripresosi dalla sorpresa, aveva cercato di rincorrerla, ma la giovane sembrava scomparsa nel nulla.
Pochi minuti dopo, lui e Jezabel avevano realizzato di essere in possesso di una bellissima bimba elfica di poche settimane, senza sapere assolutamente nulla di chi fosse, da dove venisse e sul perché colei che presumibilmente era la madre avesse deciso di affidarla a loro.
L’unico indizio consisteva in un medaglione che la piccola portava al collo, raffigurante uno spicchio di luna circondato da strane incisioni che, ad uno studio più approfondito, si erano rivelate antiche rune.
Molti interrogativi privi di risposta avevano portato i coniugi a confidarsi con il loro miglior amico, nonché capo villaggio di Litheran: Alastair.
Dopo lunghe ricerche, l’uomo aveva compreso, decifrando la scritta sul medaglione, che la bimba era nientedimeno che una delle Virtù di cui parlava la Profezia e per questo era necessario tenerla il più possibile nascosta, per evitare che cadesse nelle mani di uomini privi di scrupoli che avrebbero potuto sfruttarla per scopi malvagi.
Elisyor era stata il più bel dono che Jezabel e Aidhelm avessero mai potuto ricevere, pur sapendo che ella non sarebbe mai stata completamente loro. E in quanto a quella donna… Aidhelm non aveva mai saputo che cosa ne fosse stato. Era ancora viva? Se sì, dove si trovava? Sospirò.
Quella notte fu molto lunga, per l’uomo, che rimuginava in silenzio gli eventi di molti anni prima, e per la donna che, dandogli le spalle, singhiozzava amaramente.
La giovane elfa attraversò il lungo corridoio e bussò impazientemente alla porta. Dopodiché, senza nemmeno attendere una risposta, entrò nella stanza.
All’interno della grande sala due elfi stavano discutendo animatamente. Uno aveva i capelli biondi e indossava una tunica di seta rossa ricamata, stretta in vita da una cintura di cuoio. I lineamenti eleganti e il volto fiero indicavano una certa autorità e incutevano rispetto. L’altro, più anziano, aveva i capelli grigi intrecciati ed era vestito di nero. Da un fianco gli pendeva un affilato pugnale e a tracolla portava un arco di legno lavorato di straordinaria fattura; era una guardia reale.
All’entrata della ragazza i due cessarono di parlare ed ella si rivolse al primo: “Mi dispiace interrompere il tuo colloquio, Balôis, ma devo parlarti di una cosa molto importante e non posso aspettare”.
L’elfo congedò la guardia con un cenno del capo e questa, dopo essersi inchinata profondamente, uscì dalla stanza.
“Ti vedo preoccupata, Orye. È forse accaduto qualcosa?” domandò Balôis voltando le spalle alla giovane e guardando fuori da una delle alte finestre della sala. Non gli era facile, infatti, guardare la fanciulla senza rischiare che il suo volto tradisse le emozioni che provava. Erano ormai trascorse un paio d’estati da quando si era accorto di provare per la giovane qualcosa di più che una semplice amicizia e da allora, ogni volta che la vedeva, Balôis era sempre più consapevole di desiderare ardentemente l’amore di Orye.
Lei era bellissima, con i lunghi capelli neri sciolti sulla schiena, luminosi occhi del colore del mare e i tratti del viso dolci e delicati.
Ma questo amore era inammissibile. Balôis era il reggente di Enyrid e, in quanto tale, era carico di responsabilità che non gli consentivano distrazioni. Amava Orye, di questo era sicuro, ma era anche altrettanto sicuro di volersi impegnare al massimo per il bene della regina e della sua città. Perciò era determinato a non lasciarsi trascinare dai sentimenti, per quanto ciò potesse essere difficile e faticoso.
“La regina sta per partire” annunciò Orye avvicinandosi. Aveva il viso segnato da un’apprensione malcelata. Aveva fretta di interrogare nuovamente il Vecchio, voleva avere risposte più esaurienti su quello che aveva scoperto. Ma egli avrebbe accettato di dargliele? Per la prima volta, il futuro le appariva buio, e la cosa era alquanto singolare, visto che era una veggente. Neanche interpellando le stelle era riuscita a scoprire qualcosa di più su ciò che il domani riservava alle terre di Imanar.
Se Yacar si stava organizzando, c’era qualche possibilità che Enyrid non cadesse nelle mani dell’Oscuro? Era realmente giunto il momento in cui la Profezia doveva avverarsi?
Orye si costrinse a tornare alla realtà, abbandonando le sue meditazioni, e si voltò verso Balôis, che la stava fissando. L’elfo aveva superato la sorpresa iniziale e riacquistato un’apparente calma.
“È dunque giunto il momento” mormorò pensieroso. “Sei sicura che la regina sia pronta ad affrontare il viaggio?”
“Deve esserlo” tagliò corto Orye. “È vero… è molto giovane ed è sempre vissuta protetta dalle mura del palazzo, viziata e riverita da tutti – sarà un duro colpo per lei abbandonare la vita a cui è abituata – ma dentro di lei scorre sangue reale. È una regina e per questo è suo preciso dovere proteggere il suo popolo. È l’unica che può farlo… Ho pensato che tu dovessi essere il primo e l’unico a sapere della sua partenza, dato il ruolo di grande importanza che rivesti a Enyrid. Come reggente, spetta a te il compito di sostituire la regina nel governo della città. Nessun altro dovrà sapere il vero motivo della sua assenza perché, se i nostri nemici venissero a conoscenza della verità, potrebbe trovarsi in grave pericolo. A chi ti domanderà informazioni, dirai che la regina si è recata in un’altra città per fare visita ad alcuni ambasciatori della Lega, senza fornire ulteriori dettagli”.
Balôis annuì e Orye attraversò la sala, diretta verso la porta. Prima di uscire dalla stanza si voltò, sorridendo per la prima volta da quando vi era entrata.
“Balôis?”.
“Sì?”.
“Mi fido di te”.
[continua]