Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’opera è segnalata nel concorso letterario Jacques Prévert 2017
Motivazione dell’attribuzione del Premio:
Frontiere tra il qui e l’altrove, tra il silenzio e la parola, tra la vita che ci è data e tutte le vite possibili, incrociate per un attimo o mancate per un soffio: è su questa linea sottile che si muove Claudio Guardo in questa nuova raccolta, accordando i suoi versi brevi e nitidi al passo leggero e cauto del viaggiatore di confini, dell’esploratore di spazi cangianti e inquieti. Spazi avvinti da un moto perpetuo, come le Simplegadi del mito, che qui diventano simbolo degli urti casuali e inevitabili del destino da cui è vano cercare riparo; spazi sfuggenti come il presente, inafferrabile nel suo essere già diventato passato, e altrettanto illusorio nella sua irridente promessa di futuro; spazi abitati dall’impossibilità del desiderio, come il “piccolo seno” su cui mai si potrà trovare riposo, o come l’“isola inesistente” che sfuma nell’ombra in un tripudio di rosso e arancio tale che par di poterla toccare… ma no, il riverbero è tutto negli occhi, mentre la mano rimane vuota.
Quelle di Guardo sono poesie della sottrazione e dello scavo, concentratissime sul dettaglio – l’acero rosso, una foglia secca, un carillon – e avare di parole, nitide nelle immagini – le campane nella sera stellata, le bacche del sorbo che arrossano il giardino – e sobriamente raffinate nei riferimenti colti. Sono poesie misurate, che proprio da questa misura ricavano lo strumento per uscire dallo spazio angusto dell’autobiografismo e dell’emotività per trovare, invece, il respiro più ampio della mente che si interroga, e talvolta si arrende, di fronte alla meraviglia di una vibrazione, allo scandalo di una nuova ferita, alla drammatica ed esaltante scoperta che non vi sono risposte, ma solo domande, fino alla fine.
Olivia Trioschi Presidente del premio letterario «J. Prévert» sezione poesia
PREFAZIONE
Scrivere una prefazione a questa raccolta risulta compito particolarmente arduo: si corre il rischio di scrivere “parole sulle parole”. In altri suoi lavori l’autore ci ha parlato di quanto l’inutilità delle parole sia una dolorosa constatazione. Si rivela l’inganno di uno specchio deformato, non c’è corrispondenza tra le parole e i significati.
Dunque, perché scrivere, perché soccombere ad una necessità che non trova sollievo?
Col passare del tempo, limando il suo scrivere, asciugandolo, interrogando sé stesso e il mondo che lo circonda, l’autore si avvicina sempre di più a quel filo teso tra la parola e lo Spirito, l’essenza del suo essere umano. Nonostante il poeta ci dica “terrò per me / questa pena / di parole / sconnesse”, egli come essere umano, arrivato ad una dolorosa consapevolezza data dall’età e dalla realtà sempre più presente e viva della morte, si interroga angosciosamente sul senso di tutto, di quello che ha fatto, di quello che ha detto e non ha detto (la poesia “Le parole che non ti ho detto” è lo straziante sussurro dei rimpianti del passato, che bussa insistentemente al nostro cuore). Constata dolorosamente la sua totale casualità, come in “Simplegadi”, le isole della mitologia greca che si scontrano tra loro. Sa bene di ripararsi invano all’urto degli avvenimenti.
L’uomo che riconosce in sé questo smarrimento, non può non essere solidale con lo smarrimento dell’uomo a lui pari. In “Frontiere”, ci parla non di uno straniero ma di un fratello, al quale chiedere perché è qui e a cui cercare un futuro. Domande che in realtà pone anche a sé stesso.
E arrivando al cospetto di sé stesso, vede il Nulla, e si accorge che in quel Nulla, in quel senso di totale mancanza di controllo sulla propria vita, scorge Dio. “Meister Eckhart” stringe il filo tra la parola e lo Spirito in un nodo fortissimo, raggiungendo il cuore dell’angoscia umana: “Dio è assente / eppure esiste / e non ci credi”. Che senso ha chiamare “Padre” un Dio assente?
Eppure nella “Meditazione sul salmo 77” c’è una certezza. Il vento (pneuma-spirito) testimonia l’impossibilità di negare quella presenza divina, quella che si avverte proprio nel nulla più assoluto.
L’uomo si interroga, anche se ha già la risposta.
Questo perché l’uomo consapevole della presenza divina è costretto a riconoscere suo malgrado quando, come in “La madre velata”, “non ha avuto il coraggio di dare da bere agli assetati”.
E così, in questo angosciato evitare di dare la risposta alla domanda, (quella risposta che già si conosce!) “notti e giorni/scorrono/senza trovare / un perché; / qualcuno è morto” (in “Toccata”) e “La traccia del tempo” (…) “colma fino / all’orlo coppe / d’amarezza”. (In “La traccia del tempo”).
Sembra non esserci via d’uscita dal nostro vicolo cieco.
Eppure, tutto a un tratto, balenano i colori. “L’acero rosso”, “Le foglie verdi”, i “Riflessi in una pozza d’acqua”, “Quattro colombe alla fontana” alla luce del tramonto…
In queste poesie “Scende la sera” e “stancamente autunna”: c’è sempre il presagio di una fine vicina, ma dentro queste parole si respira una strana e insperata serenità, punteggiata di dettagli, di sere stellate, di danze, di luci che si accendono e si spengono.
Questo balenare di immagini, vivide del loro tempo presente, si affievolisce in un confuso caleidoscopio. Di fronte al tempo presente, in tutta la sua grandezza “nessuno / stasera / chiederà / più nulla”.
Ma rimane tutto irrisolto, tutto sospeso, l’uomo ha rifiutato il suo specchio. Quello fatto non di parole ma di coscienza. E rischia di trovarsi come Epimèteo “Sono colui / che capisce / dopo (se qualcuno / spiega)” … “eppure / credevo che / i miei pensieri / fossero retti / e chiari / senza/rendermi conto/dell’inganno”.
Proprio in questo inganno, l’uomo-Epimèteo causa i mali del mondo, dando il suo vaso a Pandora…
Ma la poesia, quella pervasa non solo di parole ma di quel filo rosso tra parole e Spirito, come è nel caso di questa raccolta, può rimanere come traccia di quella infinita tensione verso il Divino, che ci rende Umani.
Sonia Guardo