Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’opera è finalista nel Concorso Jacques Prévert 2019
Prefazione
Conosco Claudio Guardo da quando ero bambino. O almeno ho sempre saputo dell’esistenza dell’uomo, solo in tempi più recenti mi sono avvicinato al poeta, trasformando una paesana conoscenza in una consapevole stima bagnata d’amicizia. L’onore (e piacevole onere) di scrivere questa prefazione deriva dai nostri quotidiani incontri, durante i quali condividiamo intuizioni ed opinioni su vari argomenti. Pur avendo una formazione umanistica, non sono un esperto di poesia, non mi arrogo la competenza necessaria ad analizzare a fondo un’opera tanto complessa ed affascinante, ma scrivo queste righe forte di due convinzioni: la prima, è che le anime che dedicano la propria vita allo studio ed allo sviluppo di una qualsiasi forma d’arte (per me il cinema) siano di per sé gemelle, e in quanto tali condividano emozioni, complicità ed esperienze sconosciute a chi non gode di tale passione; la seconda, riprendendo una dedica che Claudio mi scrisse tempo fa citando l’artista svizzero Thomas Hirschhorn, è che lo scopo dell’arte non sia la comprensione della stessa, bensì “fornire materiale su cui riflettere”.
È il celebre sonetto barocco di Ciro di Pers a dare il titolo a questa raccolta, un’immagine inquietante ed elaborata che racchiude in sé tutta la disperata caducità del tempo riservato alla vita umana. Un tema, quello del fuggire del tempo e dell’avvicinarsi della morte, che attraversa in toto l’opera di Claudio Guardo, trovando in queste poesie una nuova ed incredibile sintesi. Punteggiata di splendidi haiku, con i loro versi volti a ritrovare negli elementi stagionali un continuo riferimento alla natura umana, la raccolta si snoda tra amari bilanci (“Ho imparato / il passo / del tempo / che scivola / verso la fine / ticchettando / nell’angolo / più lontano”) e sfocate memorie di felicità mai vissute: “Sono rimasto / solo con / i miei / fantasmi / e il gioco / erotico / di un nome”.
Il susseguirsi delle stagioni crea un circolo di ineluttabilità e di contemporanea nostalgia per il passato, visto a tratti come periodo delle emozioni immediate, dei sogni ancora vividi, dei luoghi dove “le radici / del cielo / toccavano / terra, prima / dei dubbi / dell’estate”. L’haiku che apre il volume già ne sintetizza i tratti di pacata malinconia e straziante consapevolezza: “Posso sognare, / ma non posso inseguire / gli stessi sogni”, cedendo il passo a composizioni in cui si respira la spasmodica ricerca di elementi di serenità e benessere (il vino buono, i colori dell’autunno, il suono del violino, il canto degli uccelli), poi smarriti nel sopraggiungere della notte, nel ritrovare una lucida consapevolezza, persino nell’affrettato e quasi inopportuno sorgere del sole, che accelera il fiorire delle primule e cancella la poesia umida di rugiada dell’aurora. Folgoranti, in questo senso, i due haiku che definiscono l’altalenante animo del poeta solo grazie al diverso riverbero della luce sulle foglie; una serenità depressa, magicamente compiuta nella stupita contemplazione di piccoli frammenti di mondo.
Prosegue, come nelle opere precedenti, lo strazio per l’impossibilità delle parole di colmare ogni vuoto dell’esistenza, così in “Ancora a Silvia” sono gli “spazi bianchi / tra le righe / con tutto / quello che / non posso / dirti” ad assumere un ruolo di primo piano, ed il tema della lacuna da riempire, del deserto dell’animo, ritorna in forma fisica in un “Castello / abbandonato, senza / rintocchi / di campane” e nell’atmosfera dimessa e romantica di fine turno in un “Bar a mezzanotte”, con le scarse vetture che “passano / indolenti / lungo la strada”.
Non sa cosa fare con i propri versi Claudio Guardo, come dichiara con umiltà e rassegnazione nella delicata metrica di “Con grazia”. Personaggi come il giocoliere, o gli angeli dell’omonima composizione, appaiono isolati e sperduti in un contesto che sembra non riconoscerli o non comprenderli. La loro ricerca di affetto (forse di solidarietà?), o di accettazione, e l’incredibile dignità che scaturisce dalla loro descrizione ci trasportano in un universo abitato da molteplici Quasimodo, la cui profonda malinconia ben si sposa con le tanto amate campane che “lontane / rintoccano / a sera”, come tra le guglie di Notre Dame.
E la musica fa capolino più volte, ad alleviare tensioni mai sopite e a stuzzicare la memoria con precisione quasi chirurgica, che siano le note di un “Concerto per violino” che “travolge / mondi / ormai persi” o il malinconico ritmo di una triste “Habanera”, che sia la paratassi più brusca di un “Rap lento”, forse la composizione più secca e dura dell’intera raccolta, o il duplice ricordo di un’arpa, quella eolia che non “risuona / al vento” e quella intrisa di romantico erotismo “che si posa / su di un flauto”.
Ma è “il chioccolio / della fontana” a riassumere con la sua sinfonia senza tempo l’intero significato della raccolta. Un suono atavico ed essenziale, disturbato dalle voci umane, così invadenti e superficiali da non rendersi conto che il loro errato ed enfatico interagire non si amalgama con la tenue e maestosa semplicità della vita che scorre. Il riposo della breve eternità racchiude in sé le meraviglie di momenti passati, di impressioni colte all’improvviso, di felicità mai concretizzatesi. Dolenti attimi che inesorabilmente trascorrono, consapevoli dell’inevitabile fine, ma incapaci di abbandonare completamente l’umano desiderio di poter rincorrere i propri sogni.
Michele Bellio