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Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’autore è 3° classificato nel concorso “Il Club dei Poeti” 2007 sez. narrativa con il racconto «L’Anglais»
Prefazione
Il romanzo di Claudio Malatini è un testo struggente e, al contempo, pervaso da una profonda umanità. Sicuramente dominante è la sensibilità dell’autore che, con mano sapiente, riesce a tratteggiare le figure dei protagonisti e, grazie alla sua eclettica capacità narrativa, a cesellare le originali storie che si intersecano e, allo stesso tempo, si plasmano fino a formare, in ultima analisi, un unico nucleo narrativo portante che deflagra in una visione che pone al centro il “significato dell’esistenza”: la parola è umanamente sofferta, disperatamente vissuta, tenacemente perseguita, inevitabilmente ferita.
La stessa figura di Anteo, chiamato l’Anglais, che apre questa serie di “graffiti” scavati nell’anima e raccolti dai luoghi oscuri della vita, rappresenta il simbolo d’un uomo-artista, inesorabilmente destinato all’esilio in un mondo che spazza via chi non è vincente. Come quando si incide sul proprio tavolo “È l’ora della rivolta” e poi non cambia assolutamente nulla: significa che si è al capolinea, che non rimane altro che aspettare. Un uomo con la testa tra le mani, fuori la pioggia battente sulla finestra, dentro le notti passate a fissare il soffitto: nessuno può consolare quando s‘è perso il calore del sole, quando la solitudine attanaglia le budella e la muraglia d’un ospedale nasconde la vista sul mondo. Come in una “prigione d’innocenti” dove sentirsi al sicuro: non chiedere mai niente sulla propria malattia per paura di sapere la verità. E così, circondati da vite insulse e da passioni meschine, si vede spuntare la depressione, il male di vivere: i pensieri turbinano e divorano la mente, le fissazioni avvolgono in paure angoscianti e non più sopportabili. Non rimane che la ricerca di un “significato da dare alla vita”, mentre ci si trova a lottare con le “ombre” che affollano le pareti, ad ascoltare i suoni del mondo nelle sere di delirio, a strisciare tra gli anfratti della vita, rasentando i muri alla spasmodica ricerca di un punto di riferimento. E così, dopo un incendio in un campo nomadi dell’estrema periferia d’una città che diventa “città del mondo”, insieme ai feriti, in ospedale arriva anche lui, Anteo. Lui che di nomade “non aveva proprio nulla”, lui che era stato l’Anglais, quando era giovane, quando era alto e bello, dal portamento signorile e con un sorriso di rara bellezza che “apriva il cuore”. Lui che era stato il “Re dello stradone” quando compariva all’improvviso nel suo trequarti nero stile ottocento, con quel passo aristocratico e circondato da una corte di manovali, garzoni, bulli alla moda e giovincelli che non avevano voglia di studiare. Lui che affascinava le donne e ogni tanto scriveva poesie che declamava a pochi intimi in rare occasioni.
E poi, un fatidico giorno, s’era innamorato di una donna dalla prorompente bellezza, una ragazza selvatica e d’una ambigua ingenuità adolescenziale che lo aveva stregato. Nel giro di poco tempo però lei era diventata una donna vincente, aggressiva, raffinata, intelligente e furba, capace di studiare ogni mossa con successo, corteggiata da tutti e ormai indipendente mentre lui diventava sempre più geloso e si isolava ogni giorno di più, perdendo tutto il suo fascino anche nella piccola corte della strada che era una volta il suo dominio, ormai impotente davanti alla sconfitta. Non restava che “andare a soffrire altrove” come un cane ferito, trascinandosi in una vita ai limiti della sopravvivenza, e per campare s’era messo a raccattare cose vecchie per poi rivenderle. Infine l’incontro con una zingara che aveva tentato di rubare qualcosa da un bottegaio ed era scappata, rifugiandosi proprio in un angolo vicino all’uscio della sua casa. Gli occhi della giovane zingara lo avevano illuminato. Fu così che i nomadi lo aiutarono a sistemare la sua baracca nel loro campo e lui dipingeva con passione seduto davanti alle baracche e poi cercava di educare i bambini e dispensava consigli. E fare l’amore con quella ragazza era sempre come la prima volta. In quel mondo sulla linea di confine tutti usavano nei suoi confronti la deferenza che si poteva usare per un governatore.
Ed ora che l’Anglais si trovava davanti alla morte, era lei, la giovane zingara bruna dai meravigliosi occhi, che teneva orgogliosamente la mano, che lo rendeva “unico”.
Anche negli altri “graffiti” che raccontano l’umano vivere e soffrire, Claudio Malatini, esplora la condizione esistenziale dell’essere umano: la sofferenza di un uomo nel vedere la propria donna gravemente malata e sapere che le restano solo pochi mesi di vita; così come la figura di un uomo troppo timido per avere una donna o quello che muore abbandonato in un luogo miserabile e viene visto con disprezzo. Solo per citarne alcuni.
Ecco allora la constatazione che la vita pietrifica, la disperazione fredda stringe la gola, l’immagine di una donna-simbolo, vogliosa ed eccitante eppure falsamente “angelicata”: dopo poco tempo ecco arrivare, inesorabili, le metamorfosi, ormai quelle donne sono “diverse” quasi aliene, capaci di schiacciare un uomo come una lattina vuota, di renderlo impotente davanti alla loro immagine vincente. La bellezza da ammirare ma che non si può afferrare o tentare di trattenerla: non si può che essere travolti dagli eventi mentre si frantuma l’equilibrio mentale e si scatenano le tempeste che fanno naufragare.
Anche i luoghi delle ambientazioni diventano simboli e metafore, come la raffigurazione della “Casa del ragno”, una villa dall’aspetto sinistro con l’alto cancello con le punte aguzze e sulla facciata un grosso ragno di ferro con una farfalla imprigionata nella ragnatela metallica: la vita simbolicamente diventa una ragnatela di duro metallo dalla quale è difficile sfuggire, spesso si rimane imprigionati come miseri insetti che si dibattono inutilmente: allo stesso modo anche l’attrazione irresistibile verso le donne diventa l’inizio d’una sconfitta, la caduta nell’abisso con la consapevolezza che irrimediabilmente ci si ritroverà con il culo per terra. In rari casi si potrà gioire.
L’equilibrio mentale è sempre in bilico, tutta l’esistenza è sempre giocata sulla lama d’un rasoio, in una sequenza feroce e immobilizzante di eventi che lasciano il segno. Il devastante percorso verso incubi orrendi e sanguinari, l’inevitabile resa dei conti davanti al volto sfigurato dall’espressione disperata della morte.
Claudio Malatini rende palpabile l’atmosfera rarefatta che avvolge le pagine di questa galleria di graffiti ed ogni riferimento, dal cielo color antracite alle meravigliose notti d’estate, è una illuminazione, uno spiraglio vitale tenacemente perseguito per riappropriarsi della vita. Senza ombra di dubbio i ricordi e le storie raccontate hanno il sapore della “fatica del vivere” pienamente l’esistenza. Una manovra da equilibrista sull’orlo della follia.
E capita a volte di accorgersi quanto è dolce ripensare all’epoca in cui si poteva ancora sognare… parlare dei grandi progetti esorcizzando le proprie miserie…
Ecco allora che viene in mente una citazione di Charles Bukowski “Solo i poveri riescono ad afferrare il senso della vita, i ricchi possono solo tirare ad indovinare”.
E Claudio Malatini è capace di impregnare ogni parola di questi meravigliosi graffiti d’una atmosfera che ha il profumo del romantico.
Il bisogno d’amare, il desiderio di volare in un cielo irreale. Da vecchi non resta altro che prendere cognizione della morte. Dopo aver trascorso la vita annaspando come ciechi nei meandri della stessa, alla ricerca disperata di una trama, incuranti all’idea della morte ed ora che la stessa non è poi così lontana, prepararsi ad affrontarla disperatamente, come la vita.
Quella stessa vita che si dissanguava inesorabilmente nei ricordi.
“Nessuno può consolare le perdite”. Il silenzio riempie il vuoto. Non resta che il libero arbitrio, il postulato della libertà. “Il dovere di vivere”.
Nella profondità dell’orizzonte si ritrovavano le tracce di tutte quelle storie umane che si confondevano con il cielo. Che importa se le nostre lacrime sono di piacere o di dolore? C‘è forse qualcosa da vincere o da perdere in questo mondo? Queste sono le domande che non mi sono mai state poste: forse perchè le donne avevano paura della mia risposta. Eppure chi non soffre a causa della conoscenza non ha conosciuto niente. L’atto salvifico è il “bagno di fuoco”, la sola cosa che può salvare l’uomo è l’AMORE.
Per questo motivo leggere ciò che scrive Claudio Malatini è importante.
È il dramma dell’uomo.
Massimo Barile
Graffiti
a Isolina
21 ottobre 2007
A volte, d’autunno, se ne stava bocconi sul pavimento del bagno a sbirciare i rigagnoli e ad ascoltare il fragore della pioggia battente sui vetri della finestra opaca; solo dopo riusciva a farsi la doccia.
Uscì da casa assieme agli altri che avanzavano rapidi e tracotanti come sparvieri, sollevati almeno un palmo dall’acciottolato.
I palazzacci scorrevano grigi e stretti ai loro fianchi e, nonostante la piana, acquistavano sempre più velocità, come fossero in discesa.
Giunsero irrefrenabili sino alla piazza e fecero roteare i bastoni a guisa di spade percotendo i poveri corpi come pelli d’asino.
Solo il sangue e le ferite li quietarono, non i lamenti. Dettero infine fuoco, amnistiati dalla bandiera.
Seduto sui cuscini delle sedie di vimini, nelle gelaterie e nei bar che ora circondano la piazza, nessuno si sogna di udire quei lamenti ma lui, con i gomiti appoggiati sul piccolo tavolo tondo e la testa disperatamente tenuta tra le mani, ancora li sente.
Non aveva mai fatto male ad una mosca, gli piaceva accarezzare il pelo del cane, picchiarlo e poi consolarlo ma, quando alzava inavvertitamente una mano, provava pietà nel vederlo fuggire raso terra.
D’inverno il sibilo della caldaia, consumava la solitudine e le sue cattiverie.
Incise sul tavolo: “È l’ora della rivolta” ma non cambiò nulla.
Nel casermone non aveva paura di starsene nascosto in cantina.
A quell’epoca, i casamenti crescevano come funghi e gli davano un senso di rassegnata tranquillità quando se li vedeva arrivare incontro, alla fermata del capolinea, come tutte le cose brutte che erano solo sue, tanto nessuno le voleva.
Smontava tutto ciò che altri avevano costruito, lo accatastava vicino ai rifiuti, nel cortile di terra dura, dove pedalava seguendo un ovale in senso antiorario, pericolosamente incontro agli altri che lo percorrevano in senso orario.
Nessuno può consolare dalla perdita del sole, quando si ritrae dalle casotte dal tetto fragile, improvvisate con assi di recupero, e fa freddo; quando le barche in secca gridano la loro solitudine al tramonto, le rondini s’inseguono in cielo come puntini impazziti ed i corvi invadono, striduli, gli spiaggioni lungo il fiume.
La conobbe in spiaggia, bionda e azzurra come l’estate, calda come il focolare in inverno, sincera come uno schiaffo dato senza pensarci su, con il cuore.
Si accorse che era una cosa seria quando l’osservò andare a piedi scalzi nel canneto e gli venne voglia di mettere in atto uno sgambetto per farla cadere, in modo di allontanarla dagli altri.
Non lo fece ed invece la provocò la sera, ballando con le più grandi, per farla ingelosire.
Alla fine cedette lui vedendola ingenuamente stretta agli altri che si strizzavano l’occhio.
Serate d’estate violente come i sensi inesperti repressi in un tumulto di paure, nel sottofondo della corrente, così disperatamente inarrestabile.
Mattini che ferivano di rimorsi, ancora lì, più grandi di lui.
Cercò di metterla in gabbia ma tutto svanì d’autunno, assieme alla sua adolescenza.
In quell’accartocciarsi di mattoni della muraglia che nascondeva ai degenti la vista del mondo circondando l’ospedale, non mangiava per farsi imboccare dalle infermiere.
I raggi della luna sciabordavano lenti sul candore delle lenzuola ruvide ed i fruscii notturni dei camici si perdevano nei corridoi che sentivano di linoleum e di morto per i fiori appassiti.
In quella prigione d’innocenti si sentiva al sicuro, sicché non chiese mai notizie precise sulla sua malattia per paura che gli dicessero la verità.
Quando uscì provò un senso di preoccupante libertà, provocò più di una rissa e si accorse, con stupore, che non sempre le prendeva.
Nell’alveare aggrovigliato di vite insulse e di passioni meschine che lo circondavano, come una stella alpina che fiorisce inspiegabilmente nella desolazione della roccia, sbocciò la depressione.
Quella vera, figlia del mal di vivere, che lo colse all’apogeo, senza un motivo, come gramigna che invade il giardino, con il fragore di un sasso scagliato contro il vetro.
I pensieri messi a turbinare nel semicerchio, come tale imperfetto, divenivano problemi che divoravano la mente alla ricerca di soluzioni inesistenti; nubi cariche di pioggia che cozzavano tra loro nel cielo nero, lampeggiando: preludio di una tempesta che non si sfogava mai.
A volte sembrava che il tempo nascondesse l’orrore per quella terra piatta e inospitale, come il suo letto, nelle notti passate a guardare il soffitto nell’attesa dell’alba, sempre impietosamente veritiera.
La mente componeva: “La nappa rossa del cardinale si nasconde dietro gli altari perduti nelle notti senza vento, laddove i pavimenti a scacchi celano le nostre follie”.
Ma sapeva di non essere folle; anche questa via gli era inesorabilmente preclusa.
Le fissazioni lo avvolgevano di paure insopportabili assieme al panico che nascondeva ferocemente alla ricerca disperata di una trama che desse un significato alla vita.
Si chiedeva spesso del nulla, quando il sole sorgeva puntuale come una condanna, nudo senza il pudore di una nube che velasse la protervia dei suoi raggi, tanto violenti da destabilizzare ogni animale richiamandolo alla vita.
Si chiedeva a cosa servisse tanto spreco d’energia, poiché comunque tutti, alla fine, si doveva morire.
Quando il vento soffia imboccando inesorabilmente la pianura, frusta le chiome degli alberi lasciandoli nudi, sibila tra le antenne dei tetti, offusca i percorsi e sporca le strade, copre il rumore dei torrenti, entra dai camini e mette a soqquadro le stanze, ognuno si stringe alla sua donna fingendo di proteggerla.
Lo lasciò con il coraggio dei ragazzi, nell’ineluttabilità di un sentimento consumato lentamente, come una candela.
Se n’andò in un giorno di primavera quando, assieme ai gelsi, ai pioppi incolonnati nella pianura trapunta di margherite e di germogli, il sole si rifletteva sui vetri lucidati a nuovo, nell’attesa della Pasqua.
Nelle sere d’estate si sdraiava nudo a sudare sul letto, a lottare con le ombre che affollavano le pareti e dipingevano i pensieri di malinconia.
Restava lì, impotente e crocifisso, ad ascoltare il rumore delle carte da gioco battute sui tavoli di legno, finché trovava il coraggio di affacciarsi alla finestra e guardare lontano strisciando sui tetti e sui muri alla ricerca di qualche punto di riferimento, di una luce seppur minima, ma tutto era artificiale.
Sapeva che, in fondo, c’era pur sempre un orizzonte qualunque, dove andare a sbattere facendosi male, come l’uccello notturno che si dibatte tra le pareti alla ricerca di un’uscita e, quando la trova, se ne vola a morire altrove, per le ferite.
In quelle sere di delirio prendeva a muoversi alimentato dal caldo umido e dall’afa, strisciava sull’acciottolato dei vicoli, tra le erbe morenti della periferia, negli anfratti dei cortili e nelle crepe delle case, alla ricerca di una preda impossibile e, intanto, inghiottiva tutto ciò che incontrava aumentando oscenamente di volume, sino a scoppiare d’avidità.
Gli antichi morivano giovani ed eroi.
Anche le generazioni precedenti finivano prima, così era stato per “i santi, i poeti e i navigatori”, non per lui.
Non credeva ai miracoli ma un mattino, di quelli che la fatica di vivere l’aveva inchiodato assente tra le quattro mura, si vide allo specchio, provò pietà per quell’estraneo e depose le armi.
Finalmente lo raggiunse la rassegnazione, come neve che ricopre silenziosa le colline non più tormentate dal vento.
...Sul ballatoio sopra il pronto soccorso, si stagliava nel buio la massa bianca di un corpulento infermiere affacciato in posizione volgare alla ringhiera del primo piano che dava giù, dove estraevano dalle ambulanze i corpi.
Ad assistere allo spettacolo lo raggiunse un’inserviente, anche lei fuori turno, avvolta nel grembiule celeste che sottolineava le bruttezze dei fianchi enormi e sgraziati come la voce con la quale cercava d’intrattenere l’altro che non la filava per niente, interessato com’era a tenere in ordine i capelli scomposti dalla brezza della sera.
Sotto, quelli in arancio rifrangente che scendevano e scaricavano in silenzio dalle ambulanze abboccavano e guardavano verso l’alto ma non vedevano nulla, abbagliati dai fari posti proprio sulla ringhiera.
Annoiato dallo spettacolo, l’infermiere si ritrasse per andare a bagnarsi i capelli e a pettinarli, zoccolando e ancheggiando verso lo spogliatoio.
La sera era di quelle primaverili, senza luna, di un nero avvolgente e rassicurante, con l’aria tiepida che portava lontani profumi di fiori mescolati con quelli orientaleggianti dei malcapitati, nonostante le folate acri delle ustioni che coloravano i corpi assieme ai brandelli dei vestiti variopinti.
Le ambulanze, come per rispetto, si tacitavano all’ingresso del tunnel e continuavano a sfornare una gran quantità di feriti provenienti dal campo nomadi andato in fiamme alla periferia.
Al capolinea, in tutti i sensi, arrivò anche l’“Anglais”.
Lui di nomade non aveva proprio nulla, anzi, mentre lo portavano su, i nomadi meglio messi si alzavano stoicamente in piedi fissandolo in silenzio in segno di deferenza, come dinnanzi al governatore di una colonia.
Al secolo Anteo, da un’eternità lo chiamavano l’Anglais per l’aspetto fisico ma soprattutto per il portamento.
Anglais, in francese, perché suonava bene e perché conosceva tale lingua, d’inglese invece non spiccicava una parola.
Da giovane: alto, lineamenti fini, tratto signorile, raffinato, capelli sottili castano chiari come gli occhi con riflessi dorati. Fronte spaziosa, fisico armonioso e slanciato, quasi effeminato per via delle gambe lunghe e perfettamente diritte.
L’aspetto più accattivante era il sorriso, di una rara bellezza, da aprire il cuore.
I rudi del quartiere non avrebbero potuto coniare appellativo più azzeccato in segno di rispetto per la sua cultura, appellativo che gli rimase appiccicato per tutta la vita.
Orfano di padre, in realtà viveva “alle spalle” della madre che gestiva, o meglio lentamente prosciugava, una modesta rendita derivante da alcune proprietà lasciatele dal marito.
Eterno studente aveva superato ben pochi esami, non aveva alcuna fretta e si era dato a tutti i generi di lettura, tranne quelli utili al corso di studio.
Alimentava sporadicamente un’antologia con versi scritti di getto, tuttavia di notevole qualità, anche se conosciuti da pochi intimi ai quali concedeva rarissimamente l’accesso attraverso la propria declamazione, nei frangenti e situazioni in cui tentava di manipolare i loro o i propri sentimenti.
D’inverno, al primo buio, le osterie ed i negozi del quartiere, colmi di barattoli di latta e di cartoni, si riempivano di tepore e di odori nell’attesa della neve, aspettata con trepidazione e ingenuità infantile, con i propri suoni ovattati a ritmo lento, pieno di dolce pigrizia e letargo.
Sui fuochi e sui cerchi roventi delle stufe bollivano gli stufati e gli ossi di maiale abbondanti di grasso; gli angusti cortiletti, gli archi, i portici bassi e i budelli dei corridoi stretti e bui, odoravano intensamente di verza da aggiungere alle ministre con ossi e riso.
Sui marciapiedi i ragazzi per mano, che imbottivano i cappotti stretti e pesanti, avvolti nelle lunghe e gonfie sciarpe di lana grezza, cercavano di scalciare le madri resistendo alle loro strattonate come cani al guinzaglio.
Dalle finestre, sempre troppo piccole, arrivavano le grida sguaiate delle donne ed il fragore delle stoviglie rotte contro i maschi dall’alito vinoso.
L’Anglais era il re dello stradone, compariva bello e signorile nel suo trequarti nero stile ottocento, con passo lieve ed aristocratico salutando con un cenno del capo, sempre circondato dalla sua corte di manovali, muratori, garzoni d’officina, ripetenti alle scuole di avviamento e bulli alla moda.
A volte dispensava pure qualche sorriso alle comari dalle gonne pesanti, rese corte dal sedere troppo largo, “inciabattate” e dai calzettoni a mezza gamba, che andavano in sollucchero e gli mandavano i figli ignoranti a ripetizione.
D’estate l’uniforme era la canottiera e i pantaloncini blu, portati pedalando pigramente a gambe larghe, alla gaglioffa.
I bambini in mutande, a piedi scalzi e con gli zoccoli in mano, suonavano i campanelli appollaiati in equilibrio precario sulle canne delle biciclette dei più grandi che pedalavano in branco, urtandosi allegramente, verso il fiume.
Sugli spiaggioni assolati, all’ombra di tende ricavate da qualche ramo secco e straccio scolorito, l’Anglais, dai fianchi stretti e la pelle ambrata, affascinante come una statua di Fidia, pontificava pigramente.
Intratteneva i fedelissimi e qualche vergine che si dava arie da navigata mentre i più giovani si rincorrevano alzando polveroni e ricadendo avvinghiati in posizioni ambigue di lotta greco-romana.
Alla sera ricomparivano tutti agghindati, profumati di sapone di Marsiglia, con le chiome schiarite dal sole, i colli taurini abbelliti da catene d’argento luccicanti, pantaloni stretti e sorretti dai cinturoni appena sopra il sedere, magliette aderenti e scollacciate per sottolineare i muscoli abbronzati da una manciata di giorni di ferie.
L’Anglais faceva la sua apparizione solo sul tardi, slanciato nei pantaloni neri a tubo, con la camicia candida e ampia, dal collo alla Robespierre, la giacca scura e leggera come un foulard, nella mano sinistra, i capelli lunghi e chiari, pettinati all’indietro con accurata trascuratezza.
Il sorriso, alla luce flebile dei lampioni, lo faceva apparire come un angelo evanescente da far tremare la voce e sussultare il petto delle giovinette dalle gonne a ventaglio.
E di donne n’aveva castigato tante, con passione e con gran fisicità ma sempre con poesia, rispetto e assoluta signorile discrezione.
Affetto sicuramente ma innamoramento mai, finché, maturo e libero dalla morsa possessiva della madre, conobbe lei.
Non pronunciava mai il suo nome, chissà perché, forse per un concetto di assoluto o più semplicemente per un vezzo studiato, di quella timidezza che piace tanto alle donne.
Lei invece si portava dietro l’appellativo di “indiana” per l’aspetto di prorompente bellezza bruna e selvatica.
Sorella piccola di uno degli amici di corte, era l’unica femmina accettata dal branco; partecipava agli incontri con un ruolo marginale e atteggiamento mascolino, nell’indifferenza generale.
Lui però era sempre più sensibile alla trasformazione di quella bellezza adolescenziale e selvatica in una splendida, prorompente e aggressiva donna.
Lei prese presto l’iniziativa alternando furbescamente un’istintiva quanto ambigua ingenuità, quasi cameratesca, con l’irresistibile bellezza di donna complice.
Fu così che in una di quelle sere d’estate, tanto belle e intriganti da corrompere anche un santo, durante le quali ormai i due facevano scherzosamente coppia fissa, tra sfottò e lazzi, si trovarono soli lungo il fiume.
Lui la sdraiò dolcemente, accarezzò la seta fresca del vestito, dei capelli, del seno e dei fianchi ma si fermò abbagliato dallo splendore giovanile del volto e degli occhi.
L’Anglais restò per un attimo sbalordito quando vide spalancarsi la porta della sua stanza e comparire la figura stupenda di lei.
Nella penombra notò il vestito di seta sul pavimento e poi si lasciò travolgere da tanta bellezza.
Ciò che lo intrigava maggiormente era l’ambiguità del loro comportamento, da amici e non da amanti, stupendamente in contrasto con la realtà che riempiva prepotentemente le sue giornate.
Fu lei a lasciare appositamente tracce, a far scoprire l’intrigo rendendo a quel punto ufficiale il loro rapporto.
I giorni scorrevano pieni della sua presenza; facevano coppia fissa in modo quasi assillante ed esclusivo, sicché l’Anglais s’isolava sempre più perdendo colpi con la sua corte e con il quartiere intero.
Lei, al contrario e grazie a lui, aveva perso ciò che di selvatico prima possedeva.
Era divenuta una donna raffinata, di una bellezza classica e intelligente che studiava con successo.
L’Anglais era sempre più in declino economico e questo si rifletteva nella trasandatezza del porgersi e nel vestire. Aveva l’impressione di essere ormai un libro letto e straletto che non emozionava più, come le sue poesie che incantavano solo il gruppo sparuto dei fedelissimi, in disgrazia come lui.
Sempre più geloso, alternava, in una tragica sequenza, periodi lunghi di depressione, umiliazione e aggressività.
Lei era incondizionatamente bella, colta, di successo, corteggiata e soprattutto indipendente.
Non poteva far altro che assistere impotente e disperato al degenerare del loro rapporto, con una rapidità impressionante, sino a toccare il fondo dell’antagonismo, della violenza e della volgarità, ineluttabilmente verso la separazione finale, irreparabile e definitiva, tragicamente dolorosa.
Si lasciò vivere lungo giornate interminabili, colme di vuoto e di assenza, incurante del contingente, ancorché pressante e disastroso, scivolando per le strade solitario e trascurato.
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