L’AURORA
Sua figlia era come le farfalle che rincorreva da ragazzo, lungo il fiume. Evanescente e bella come loro.
Era cresciuta in periferia, circondata dai pioppeti che in primavera spandevano batuffoli per strade e cortili. D’estate, la colla dei loro pidocchi insudiciava i tavoli delle osterie all’aperto.
Gli ricordava la “vanessa occhio di pavone” dai grandi occhi colorati di bianco e di blu sugli angoli delle ali, volteggiante leggera sulle siepi folte delle strade non asfaltate che si snodavano, strette e polverose, come le innocue bisce d’acqua, lungo il fiume, di là dall’argine maestro.
A voglia ricorrerle. Quando si riusciva ad afferrarle, lasciavano “la polverina” delle ali sui polpastrelli e non volavano più. Morivano d’inedia.
Così era l’Aurora, sua figlia. Si poteva solo ammirarne l’esile bellezza ma non afferrarla o tentare di trattenerla.
Se n’era andata da cinque anni e finalmente quasi non chiedevano più di lei. Non tanto i vicini o gli abitanti del quartiere quanto quelli del centro e delle villette della strada privata.
Non era una farfalla di fiume, volava lieve tra i gerani e gli oleandri dei palazzi più belli, nei cortili del centro che, dopo il letargo tra le nebbie, riuscivano ancora a catturare la luce e il sole.
In verità non aveva neppure tentato di trattenerla, se non formalmente e di rito, più per il vicinato.
Del resto sua moglie se n’era andata, nel senso che era passata a miglior vita, ed era l’unica che poteva arginare quella forza incontrollata della natura, non certamente lui.
Maestro in pensione da tempo, la sua vita scorreva su binari, non albe né tramonti, non cieli ma nebbia, quella opaca, da cataratta, prodromo della cecità. Acqua che scorre lenta, attratta dal delta, senza l’impeto dell’estuario.
Sin da giovane la sua regola era l’atarassia. Una ferrea disciplina di cui non ricordava più il sacrificio dell’adattamento iniziale. Un’abitudine acquisita in tanti anni d’esercizio, come la strumentazione della navigazione che evita le secche e gli scogli, come la direttrice del volo, al riparo dalle vette e dalle perturbazioni.
Distacco, dunque, da ogni sentimento, da qualsiasi coinvolgimento. Sensibilità considerata fonte di dolore come il desiderio, accuratamente represso.
La figlia si era sposata cinque anni prima a Monaco, dove aveva aperto una gelateria.
Lei non aveva insistito e lui si era guardato bene dal partecipare al matrimonio.
Gli mancava la musica, questo si, quando le ombre della pianura inghiottivano l’edera sulla muraglia del piccolo cortile cementato, separato dalla strada da un lungo corridoio da galera, dove poteva capitargli la disgrazia d’incrociare e dover salutare un altro essere umano.
Stava al primo piano, in fondo ad una loggia che comunicava con Maria, l’inquilina di fronte.
Sotto, vi era un piccolo magazzino di ferramenta.
L’inferno era l’incubo di Maria ma anche il luogo dove predestinava quasi tutti gli altri viventi.
Vocazione da Perpetua, assicurava al maestro le pulizie e la colazione; in cambio, lui le pagava le spese condominiali.
Non era certamente religioso ma per Maria era un’autorità e, come tale, non gli chiedeva conto della fede collocandolo in una specie di limbo.
Probabilmente Maria, sotto le gonne alla caviglia, tanto larghe che avrebbe potuto nascondervi anche un figlio del peccato, portava le mutande lunghe ma nessuno le aveva mai viste.
Quando si spogliava per il bagno si barricava in casa con le persiane serrate. Se fosse stato un uomo l’avrebbe sicuramente fatta ad occhi chiusi, per non vederlo.
Di mani calde aveva sentito solo quelle della madre, prima che Dio la strappasse dalla finestra dove, seduta per ore, scrutava quel cielo grigio; labile parvenza d’affetto in quell’appartamento buio, in penombra perenne.
Al piano di sopra, l’ultimo, abitava Lino (Angelo) con la figlia down, la dolce Luigina.
Luigina era l’unica che sognava e, appena poteva, correva in terrazza a raccogliere la pioggia sulle guance giovani e sui capelli d’oro che nemmeno l’acqua riusciva a scurire.
Il padre, ferroviere, da quando la moglie l’aveva abbandonato, di sogni non n’aveva più. Misogeno, c’era da chiedersi come gli fosse capitato di sposarsi e convivere con una donna che, tutto sommato, gli aveva dato una figlia.
Luigina, durante i turni del padre, era affidata a Maria che l’affliggeva con i suoi rosari, non al maestro che non voleva coinvolgimenti e seccature. Come quella volta che Luigina gli aveva preso la mano per fargli sentire i palpiti del cuore e lui l’aveva ritratta inorridito.
“Più in alto, sempre più in alto”, cantava la fanciulla mentre volteggiava sulla terrazza e lui chiudeva le finestre per non udirla.
L’atarassia, la lotta ai sentimenti e ai desideri, richiedeva di rifugiarsi nelle abitudini quotidiane, antidoto efficace, per quanto noioso, contro le emozioni.
L’incarico di vice presidente del circolo dei pensionati di Via Carducci lo impegnava quasi tutti i pomeriggi.
Presidente era il suo ex preside che lo correggeva sempre quando così lo qualificava in pubblico, infatti aveva concluso la carriera come preside di scuola media, non delle elementari.
Uomo piccolo e astioso, tutt’uno con il vestito incolore e le due penne stilografiche odiosamente in mostra nel taschino della giacca, con il colletto della camicia consumato, senza stecche, portava, anche d’inverno e con la pioggia, gli occhiali scuri che nascondevano gli occhi piccoli facendo risaltare le labbra violacee, troppo carnose.
Gli aveva affidato l’incarico di bibliotecario del circolo con trascrizioni su un grosso registro dei titoli e degli autori dei libri, per lo più ricevuti in omaggio.
Achille, suo collega per decenni nella stessa scuola, era uno spirito libero, dal volto aperto e franco, l’opposto dei due. Quando leggeva, gli anziani non dormivano e partecipavano alle emozioni che, con la complicità d’autori opportunamente scelti, sapeva trasmettere.
Con lui, invece, tornavano vecchi e assenti.
Ad Achille nessun incarico, solo ostilità da parte dei due che non perdevano occasione per mettersi di traverso, senza tuttavia scalfirlo minimamente, come mosche che stuzzicano un toro.
Le giornate si avvicendavano tutte uguali e pigre anche se ormai l’inverno era alle spalle e stava arrivando, prepotente, la primavera.
Non per lui. Rifuggiva deliberatamente dai cortili che iniziavano a riempirsi di fanciulli, dai germogli dei fiori che si schiudevano agli occhi delle giovinette dalle vesti colorate, dal fiume che scorreva rapido tra le sponde ripopolate d’insetti e dalle boschine che si rivestivano di verde bandiera, intenso e vivo, sotto un cielo rianimato dal volo delle rondini.
Il 21 marzo si alzò presto e si ricordò che era il primo giorno di primavera, forse questo, pensò poi, fu il primo errore.
Gli parve che avessero bussato e così aprì la porta.
Si ritrovò l’Aurora al collo, tanto avvinghiata che fece fatica a reggerla. La scostò sbalordito e, prima che si riprendesse, sua figlia lo informò con tre parole che aveva lasciato il marito e di tedeschi non voleva più sentir parlare.
“Bisognerà che mi comperi qualcosa di leggero”, disse mentre si toglieva il cappotto, gli stivaletti e l’abito, rimanendo in sottoveste e bevendo tutto il caffè che lui si era accuratamente preparato.
Anticipando la domanda aggiunse: “Non preoccuparti, ho solo bisogno di un po’ di tempo per riordinare le idee e trovare un lavoro. Intanto mi occuperò del mio papà!”.
Erano proprio queste parole che lo terrorizzavano; stava per dire qualcosa quando entrò Maria, con la scusa delle pulizie.
Aurora l’accolse con una risata fragorosa e di scherno: “E questa chi è? La strega delle lanche?…”
Maria, colta di sorpresa, si fece il segno della croce e scappò via, sbattendo la porta.
“Sono stanca, ho fatto un lungo viaggio, mentre fai le tue cose io riposerei un poco” e sua figlia scomparve in camera infilandosi nel letto matrimoniale ancora sfatto.
Lui si ritrovò a riordinare il bagno.
Annaspava in un elemento ostile, violentato come i bambini che gli sconsiderati gettavano nel fiume, al di qua delle corde, dove l’acqua è bassa e la corrente quasi ferma, affinché imparassero a nuotare.
Andando al circolo si dibatteva come i pesci d’argento sui sassi del “pennello” alla ricerca disperata della pace rassicurante dell’acqua, giù, al riparo dei fendenti del sole e nel silenzio ovattato del nulla.
Complice la routine, il suo obiettivo era rifuggire da ogni pensiero sul futuro. Del circo gli erano piaciuti gli equilibristi sul filo, con la mente sgombra da pensieri poiché concentrati sull’esercizio ma, quel giorno di primavera, il filo per lui si era spezzato ed era caduto nella fossa della vita.
Unico desiderio, difficile a realizzarsi, che lei se n’andasse, destabilizzante come tutti i desideri dai quali tenersi alla larga, come i pipistrelli dalla luce violenta del giorno.
Se la prese con gli anziani ai quali lesse passi della Divina Commedia, strangolandoli con pedanti annotazioni, ma erano di gomma, imperturbabili nei loro sbadigli, in attesa della sera.
I giorni che seguirono trascorsero irti di sorprese ed imprevisti. Cercava di lasciarsi andare in quella forzata convivenza come in preda ad una malattia ma non ci riusciva e così annaspava tra continui turbamenti
Piovve persino con il sole e pensò che fosse accaduto sotto l’influenza di Aurora, capace di destabilizzare anche la natura.
Sicché, durante le lunghe assenze notturne di Aurora, soffriva l’insonnia cercando inutilmente di far quadrare i conti e star dietro alle spese.
Lo tolse dall’ambascia lei: “Non crederai che me ne sia andata senza soldi!”, difatti scialacquava.
Svolazzava leggiadra nei vestiti di seta color della primavera tra un dentista ed un figlio di papà ma non concedeva loro nulla, nessuno riusciva ad averla, tutti si accontentavano del suo profumo e della sua bellezza da esibire come un fregio che all’alba svaniva, assieme alle luci artificiali della notte o ai riflessi della luna sui tetti e sull’acciottolato bagnato.
All’alba s’infilava nel letto matrimoniale dove lui fingeva di dormire e si stringeva infreddolita al padre sfregando i piedi contro i suoi, prima di addormentarsi con un sorriso da bambina.
Lui aspettava che si fosse assopita, se ne restava lì ancora un po’ a rimirare quei capelli di seta e oro sparsi sul cuscino, poi si alzava lentamente, per andarsi a fare il caffè, chiedendosi sempre, con una certa tenerezza, se esistesse al mondo creatura più bella.
A mezzogiorno, dopo le pulizie, gli toccava preparare la colazione anche per lei; non capiva che fine avesse fatto Maria e decise di affrontarla.
Bussò e dalla finestra, rivoluzionariamente spalancata a calamitare le vivide luci del giorno, giunse squillante la sua voce: “La porta è aperta!”.
Gli apparve una donna diversa con una vestaglia corta a fiori, dai capelli tinti e accuratamente pettinati, con gli zoccoli alti, l’ombretto sotto gli occhi e che sicuramente non indossava le mutande lunghe.
Si ritrasse spaventato ma sulla loggia la voce di Maria lo colpì alle spalle: “Si ricordi delle spese condominiali e, per favore, se l’Aurora si è alzata, le dica che l’aspetto!”.
Una sera, mentre era supino sul letto, al buio e vestito, incapace di riordinare le idee, sentì entrare l’Aurora e si ricordò dell’alluvione, di quando il fiume aveva superato l’argine maestro e la piena invaso le strade.
Sentì la voce di Maria e poi la vide, giacché era entrata in camera senza bussare: “Avanti, venga con noi dal Lino!”.
Si lasciò trascinare come in preda alla corrente e salì sulla terrazza del Lino.
Il profumo del dolce che il Lino stava affogando nell’olio e nello zucchero si materializzava in una piccola nube che offuscava ad intermittenza la luna piena, come un’eclisse parziale sullo sfondo di un cielo nero, trapuntato di lampade colorate ad ornamento della terrazza.
In un angolo Luigina cambiava i dischi e seguiva felice la musica canticchiando sottovoce.
Aurora lasciò il dentista con il quale stava danzando, prese il padre per mano e lo costrinse a seguirla ballando affettuosamente guancia a guancia.
Non osò opporsi a tanta vitalità; ormai era naufragato, travolto dagli eventi.
I cambiamenti erano stati violenti come un uragano che si abbatte sulla spiaggia livellando inevitabilmente tutto, tra cielo e mare.
Si sentiva come se avesse varcato un confine proibito e affascinante, come un emancipato, un figlio alla sua prima vacanza senza genitori.
Pensò che anche i coinquilini di quella macchia grigia, sperduta e soffocata nella periferia, provassero gli stessi sentimenti: naufraghi su un’isola inesplorata, dai frutti esotici, dove nulla era proibito, abbagliati dalla libertà.
I giorni trascorrevano in fretta illuminati dall’Aurora. Scandalizzò l’ex preside con letture di avventure, tra gli applausi degli anziani e l’approvazione sbalordita dell’Achille.
Assetato di vita, fu una vera e propria rivoluzione dove i punti cardinali dell’atarassia non avevano più riferimenti, come in una bussola impazzita.
La sera che parcheggiarono l’auto davanti al portone, i carabinieri percorsero il lungo corridoio sino al cortiletto e guardarono insù: videro il maestro che si sporgeva dalla loggia, quasi li attendesse.
In casa, oltre a lui e alla figlia, entrarono silenziosi come fantasmi la Maria, il Lino e la Luigina sicché, mentre arrestavano l’Aurora, dovettero dare le loro lapidarie spiegazioni a tutti: gli inquirenti tedeschi, avvisati dai vicini insospettiti dalla prolungata scomparsa dei coniugi, avevano trovato il corpo senza vita del marito nella casa di Monaco e le indagini conducevano a pesanti indizi di colpevolezza della moglie.
Aurora lanciò un ultimo sorriso alla loggia e Luigina le dedicò un applauso, seguita da tutti gli altri, mentre i carabinieri, allibiti, la portavano via.
Il giorno seguente il maestro si alzò presto, in tempo per vedere l’aurora.
Si vestì di chiaro, guardò con nostalgia il letto vuoto mentre la corona rosa che bordeggiava i tetti lasciava il posto al giallo e l’azzurro del mattino.
Pensò che aveva mille cose da fare: cercare un buon avvocato, studiare una strategia… e, soprattutto, occuparsi della figlia.
Prima, però, si sarebbe recato dall’Achille, l’unico che l’avrebbe capito.
IL LATO SINISTRO
Mal si adattava al suo carattere la tradizione di esporre la salma in casa. Per fortuna l’avevano trasportata subito all’obitorio dell’ospedale anche se era morta sul colpo battendo la nuca sul marciapiede e, quindi, fu lì che addobbarono sommariamente la camera ardente, senza tanti orpelli, in modo semplice, com’era vissuta.
Erano sposati da circa cinque anni, si erano conosciuti sui cinquantacinque, coetanei, per quel che conta l’età.
Era il terzo figlio di uno statale velleitario, un maniaco dello sport, li aveva praticati tutti, quelli non dispendiosi, senza successo ma non gli importava.
Lui, con due sorelle che avevano primeggiato negli studi, non nel lavoro, troppo dimesse, timide e con un impieguccio da quattro soldi, si era diplomato ragioniere a calci nel sedere, metaforici, s’intende.
Degli studi non gli era rimasto nulla se non quel tanto che gli interessava: storia e geografia.
Dell’educazione famigliare si trascinava l’abitudine a fare la pipì seduto, come l’avevano costretto le donne di casa, per non bagnare fuori.
Avrebbe voluto fare il marinaio, per questo prese la patente di guida d’autocarri con estrema facilità e si mise a girare l’Europa come camionista.
Guadagnava bene anche perché divorava miglia.
Viaggiava rigorosamente solo, spesso fuorilegge, nel senso che non rispettava i tempi di sosta né i riposi tra un viaggio e l’altro ma a lui e al padrone andava bene così.
Adorava l’intimità della cuccetta di notte, le aree di sosta con i caffè ventiquattro ore e le trattorie più strane.
Respirava le albe più fresche e ascoltava sempre il cinguettio vitale degli uccelli prima di girare la chiave e accendere l’innaturale sferragliare del diesel.
Aveva tolto il fascione bluastro dal parabrezza per rimirare, al naturale i cieli diversi.
Per lui divorare lentamente la strada con il camion, come un ruminante, non era fatica ed anche durante i viaggi più noiosi o ripetitivi, trovava sempre il modo di scoprire qualcosa d’affascinante.
Non lo faceva solo per i soldi, era la sua vocazione, si sentiva realizzato, stava bene ed era in pace con se stesso.
Intendiamoci, non che sottovalutasse l’importanza del denaro ma l’utilizzava per quel che serviva. Non si faceva mancare nulla: una modesta casetta con mutuo, un armadio con vestiti decorosi, una gran tv, lo stereo, ecc.
Poi, si sa, come i marinai, ad ogni porto una donna.
Le sue non erano prostitute, o per lo meno non lo manifestavano apertamente, erano affezionate; insomma, erano delle compagne un po’ facili, certamente non monogame, tuttavia, a loro modo, sincere e comprensive.
E poi c’erano i racconti che quel tipo di vita gli consentiva di fare ai pochi e selezionati intimi e, più tardi, ai nipoti che le sorelle avevano sfornato.
Visse dunque così per tanti anni. Trascorsero pieni e in un attimo.
Amava soprattutto la Francia, dove poteva cullarsi sui saliscendi delle colline e ciondolarsi nei numerosi rondò.
Quando poteva, abbandonava l’autostrada per le dolci discese e salite con rincorsa.
Fu così anche quella sera d’inverno.
Si stava crogiolando nel tepore della cabina quando tutto congiurò contro di lui, effetto ipnosi: la pioggia battente sul parabrezza, la danza a ritmo costante dei tergicristalli, il nessuno davanti, l’effetto psichedelico dei paracarri illuminati a frazione uniforme dal faro anabbagliante di destra, il più potente, e il motore a giri e ronzio costante, con cadenza cantilenata.
Si risvegliò giù dalla scarpata, stretto nella morsa metallica della cabina con un dolore acuto al braccio sinistro, nel mezzo di uno spettacolo lunare dato dai caschi a visiera dei pompieri, luccicanti per le scintille della fiamma ossidrica.
Vedeva in lontananza le torce sulla strada sovrastante e, nonostante il suo precario francese, percepiva quasi tutte le concitate parole dei soccorritori, soprattutto quelle dell’uomo in camice bianco che dirigeva gli altri con ordini secchi e perentori.
Quando finalmente lo caricarono sull’ambulanza, scorse i lenzuoli che coprivano completamente i corpi di due figure riverse sull’asfalto bagnato, a fianco di un groviglio che doveva essere stato un’auto.
Duplice omicidio colposo, di cui era senza ombra di dubbio l’unico responsabile e l’amputazione dell’arto sinistro, all’altezza della spalla.
Era rovinato. Non poteva più guidare e fu licenziato senza tanti giri di parole; gli rimanevano solo “le pezze sul sedere” ed un’invalidità permanente.
I primi mesi li trascorse davanti allo specchio studiando ogni dettaglio del suo lato sinistro monco, vestito e nudo, e a rintuzzare le parole e gli sguardi di commiserazione dei parenti.
Suo padre, ancorché ottantenne, si ostinava a praticare lo sport. La mattina trotterellava per le strade ingobbito e confezionato in una tuta troppo larga trascinandosi sino alla doccia purificatrice. Al pomeriggio si addormentava davanti alla tv, dove scorrevano le più insignificanti manifestazioni sportive, non prima di aver spento sul pavimento le cicche di sigaretta della sua dose quotidiana.
Razionalizzando lentamente che non vi era nulla da fare, pensando che in ogni caso non avrebbe voluto tener di conto con un impieguccio da ragioniere ed entrare in quella piccola borghesia che odiava visceralmente, si rassegnò.
Accettò, si fa per dire, un posto di posteggiatore offertogli dal Comune, al parcheggio dell’ospedale, ottenuto grazie le perorazioni porta a porta della madre.
Della donna che incontrò ricordava soprattutto le mani da pianista che prendevano delicatamente la sua, gli accarezzavano dolcemente le labbra, scendevano, farfalle maliziose, sul suo corpo e poi giacevano abbandonate sul cuscino, illuminate dalla luna, nelle sere d’estate.
Aveva studiato dalle suore e si notava. Chissà come aveva fatto ad interessarsi ad uno come lui.
E’ vero che, nonostante il suo handicap, ormai superato (non si esaminava più allo specchio dal lato sinistro), a cinquantacinque anni, era ancora d’aspetto giovanile, robusto e gradevole ma non perdeva occasione per rendersi antipatico e scontroso.
Eppure lei era riuscita ad infrangere quella cortina di dolore e a riversare su di lui tutto il suo bisogno d’amare.
Ciò, all’inizio, l’aveva insospettito: dubitava che, in realtà, si fosse innamorata dell’amore. Poi, costatando come ignorava i corteggiatori di turno, ogni dubbio svanì, come le nubi del mattino in una solare e fresca giornata di primavera.
La conobbe al bar-minimarket del campeggio che gestiva da dipendente, assieme ad un tunisino che parlava talmente rapido da non capirsi niente.
Dal quartiere ove era stato costretto a trasferirsi dopo il disastro, doveva prendere due bus ma gli piaceva andare a quel bar in mezzo al bosco da dove, in riva al fiume, poteva guardare in lontananza le case e i palazzi con le finestre degli uffici illuminati tutta la notte che si riflettevano sulle pigre acque nere.
E poi poteva studiare i nuovi arrivi e, a volte, intrattenersi con qualche turista.
La loro vita in comune trascorreva tranquilla e si accorgeva di stare bene poiché sentiva scorrere i giorni troppo in fretta come se stesse dissanguandosi lentamente.
Una notte, di quelle buie senza luna, si addormentò presto accanto a lei di cui intravedeva spuntare i capelli dal piumone sul cuscino. Lentamente assunsero l’aspetto di un pelo grigio-bruno di cane lupo. Non si spaventò, anche perché aveva sempre desiderato un cane lupo che rappresentava per lui: forza, fedeltà e sicurezza; anzi lo accarezzò.
Con le orecchie all’indietro, girò il muso verso di lui che riuscì ad intercettare il suo sguardo protettivo nonostante il buio. Sentiva battere la coda sotto le coperte e le zampe posteriori che si accostavano alle sue gambe.
Provò invece un profondo senso di sconforto quando, nel sogno, comparvero al capezzale i parenti di lei, quasi sconosciuti, per rendere omaggio alla scomparsa, allibiti alla vista della lupa che nel frattempo aveva abbracciato, per proteggerla da quegli sguardi di orrore.
Al mattino il sole lo colse impreparato.
Quel sogno l’aveva profondamente turbato ed ora, sveglio, era ancora presente come un tragico segno premonitore.
Lo consolò la presenza di lei che stava preparandosi ad uscire per la spesa. Fu una consolazione che durò solo un attimo, il tempo di cogliere nel suo sguardo quasi un addio che lo lasciò impotente nell’attesa del peggio.
La notizia non tardò ad arrivare e lo trafisse come la sentenza che, ancorché prevista, pone fine alle ultime speranze del condannato.
Uno scippo. Due motociclisti. La caduta. La nuca sul marciapiede. La morte sul colpo.
Ritornò davanti allo specchio, nudo, ad esaminare il suo lato sinistro.
Cercò di evitare la notte ubriacandosi ma non ci riuscì.
Pensò di andare al bar del campeggio, poi si mise come una furia a riempire dei cartoni con gli indumenti di lei e allora, finalmente, lo sorprese uno sbocco di pianto. Dovette sedersi per non cadere. Appoggiò il capo sul tavolo e si assopì.
Quando si riprese la lupa era lì mentre la porta di casa batteva socchiusa. Lo fissava nella penombra della grande cucina in tono interrogativo e, scorgendo che si era svegliato, iniziò a scodinzolare e ad ondeggiare sui fianchi in segno di gioia.
Le andò incontro traballante e prese della carne macinata dal frigorifero, la mise in una fondina e gliela porse.
Disdegnò il cibo, come se volesse fargli intendere che la sua non era una visita di interesse, tuttavia bevve avidamente l’acqua che le aveva versato in una ciotola.
Era sollevato per quella insperata compagnia. Si spogliò e decise di dormire sul sofà della cucina. Di ritrovarsi solo nel letto matrimoniale, proprio non se la sentiva.
La lupa si accucciò a fianco e bastò un cenno che saltò su sdraiandosi pesantemente a lato con la testa sul cuscino.
Si svegliò che il sole filtrava rabbiosamente attraverso le persiane e la lupa non c’era più.
Trovò la forza di andare al bar del campeggio e lì il tunisino l’affrontò parlando così rapidamente che, come il solito, non capì niente ma non era difficile intuirne il senso, sicché si abbracciarono commossi.
Gli venne improvvisamente in mente una citazione di Charles Bukowski che aveva letto da qualche parte: “Solo i poveri riescono ad afferrare il senso della vita, i ricchi possono solo tirare ad indovinare”.
Bighellonò tutta la mattina e poi pranzò in cucina con il tunisino, a base di cuscus vegetariano, giacché quest’ultimo affermava che “non amava cibarsi delle agonie degli animali”. L’accontentò.
Musulmano, non beveva ma, verso sera, smontato di servizio, fu lui ad accontentarlo bevendo in sua compagnia mentre tentava di ubriacarsi.
Arrivarono in quattro, pallidi come cristi, robusti come gladiatori, feroci come belve, ceffi che presero ad insultarli senza ragione. Il tunisino s’immolò e reagì.
Fu facile tenerlo fermo per l’unico braccio mentre riempivano di botte il tunisino e poi lo ripulivano dei quattro soldi che aveva. Ripulirono anche lui costringendolo in ginocchio.
Ricoverarono il tunisino con le costole rotte e la mascella fratturata. Lui sapeva che sarebbero rimasti impuniti come gli assassini di sua moglie.
Prese il bus e rientrò a casa specchiandosi nelle vetrine dal lato sinistro con un profondo senso di umiliazione.
La lupa era lì che l’aspettava sulla porta. Questa volta mangiò ma non come un animale, con delicatezza.
Sapeva approssimativamente dove i ceffi abitavano e spadroneggiavano. La fierezza della lupa gli diede coraggio. Prese dal cassetto un coltello ed uscì. Lei lo seguì.
Girovagò inutilmente finché udì alle sue spalle: “Che ci fai qui, monco!”. Quasi istantaneamente avvertì una forte botta sul collo come se gli fosse caduto addosso un masso e si ritrovò riverso sull’asfalto da dove poteva vedere, ritto, uno dei quattro, quello più grosso.
La lupa mirò diritto alla carotide che squarciò in un attimo.
Riuscì a rialzarsi con il cane che guaiva d’intorno e lasciò l’aggressore lì, in una pozza di sangue.
Dormirono assieme come la prima notte, stavolta comodi, nel letto matrimoniale. Ogni tanto la sentiva scodinzolare per la felicità.
All’alba era di nuovo solo.
La lupa tornò tutte le sere successive.
Aveva comperato un guinzaglio ed un collare e così cominciarono ad uscire. La portava sul bus e poi lungo il fiume. Al ritorno si fermava per una birra in qualche bistrot dove lei trovava sempre qualcuno che le faceva una carezza mentre lui era orgoglioso di quella splendida creatura.
Poi a letto, lui leggeva e lei scodinzolava sotto le coperte.
Una notte, dopo una buona mezz’ora che la guardava fisso, in cucina con la testa sul tavolo, uscì e lei dietro.
Si addentrò nella zona del ponte grande, scese i gradoni lasciando la strada sopraelevata, costeggiando il fiume, al buio interrotto solo dai fuochi delle prostitute.
Non ci volle molto perché si ritrovasse con le spalle al muro sotto minaccia e l’ordine perentorio di vuotare le tasche.
Questa volta lo addentò al polpaccio e lui vide che la lupa sputava un brandello di carne prima di addentare l’altra gamba facendolo cadere, mentre il complice scappava inorridito. Infine un morso ed uno strattone secco, di violenza inaudita, che gli ruppe l’osso del collo.
Rientrarono tardi, prima le lavò il muso ad una fontanella e si fermò ad un bistrot, per una birra, dove lei ricevette la solita carezza.
Pensò più volte che stava trascinando quella povera creatura verso un destino che non meritava ma si chiese altrettante volte se non era proprio quello che lei voleva: riversare su di lui tutto il suo amore seguendolo anche all’inferno, con una fedeltà assoluta.
D’altro canto il loro legame era divenuto indissolubile e lui era ormai predestinato.
Trascorsero alcune serate tranquille pur nella consapevolezza che, tuttavia, erano solo una parentesi fisiologica in attesa della prossima uscita.
Stavolta andarono nella zona dei casermoni nuovi, nei pressi di uno in perenne costruzione con le scale a cielo aperto, senza protezione e lo scheletro dei piani senza pareti, lì ad offendere il cielo.
Buttò male, li circondarono in quattro. Lui riuscì a ferirne uno con il coltello ma la lupa ebbe la peggio, con alcune costole sicuramente rotte dai calci.
L’unica via di scampo, solo temporaneo, era quella di fuggire salendo per le scale e così fecero: lui arrancando faticosamente sui gradini e lei dietro che rantolava e guaiva per il dolore, sino al quinto piano, poi lui si arrese.
Con uno spintone lo buttarono giù. Riuscì ad aggrapparsi con l’unica mano al bordo del pavimento, sospeso nel vuoto. Non lo finirono, restarono ad irriderlo in attesa che mollasse la presa.
Guardò negli occhi la lupa che si era trascinata accanto e non vi scorse alcun terrore, bensì una rassegnata serenità.
Si abbandonò precipitando nel vuoto e vide, in quell’istante, che, con un ultimo sforzo, lei si era gettata dietro ed era in caduta libera appena sopra di lui.
Pensò che fino all’ultimo aveva voluto non lasciarlo solo costringendolo a guardare all’insù verso di lei per distoglierlo dalla disperata attesa del tremendo impatto finale.
“Mi chiedo se Cristo avesse un piccolo cane nero tutto riccioluto e lanoso come il mio, con due lunghe e seriche orecchie, un naso umido e rotondo e due teneri occhi marroni e scintillanti. Sono sicuro, se lo avesse avuto, che quel piccolo cane nero avrebbe saputo sin dal primo istante che egli era Dio; che non avrebbe avuto bisogno di alcuna prova della Divinità del Cristo, ma che avrebbe semplicemente venerato il suolo su cui Lui fosse passato. Ho paura che non lo avesse, perché ho letto come Egli pregasse nell’orto da solo poiché tutti i suoi amici erano scappati, persino Pietro, quello detto “una roccia”. E, oh, sono sicuro che quel piccolo cane nero, con un cuore tanto tenero e caldo, non lo avrebbe lasciato soffrire da solo, ma, spuntandogli da sotto il braccio, avrebbe leccato le care dita, strette nell’agonia. E, aspettandosi qualche coccola, ma incerto, quando Egli fu portato via, gli avrebbe trottato dietro seguendolo fin sulla Croce”.
Edward Bach
I FIORI DEL TIGLIO
I fiori del tiglio sono ermafroditi, la corolla è composta di cinque petali giallo chiaro, il profumo è di un dolce intenso e il nome deriva da “ptilon”: ala.
Da lassù, appollaiato sul cornicione della terrazza, all’ultimo piano, poteva cogliere ogni respiro della brezza che andava a morire più in basso, tra le chiome dei tigli sottostanti. I primi raggi di luce lavavano l’asfalto assieme ai lampioni ancora accesi, in attesa del giorno.
Aveva sempre pensato di saper volare, fin da piccolo quando, vestito d’angora, immaginava di librarsi nell’aria svolazzando leggero sopra i tetti, i campanili, le scuole, gli alberi, le insegne…., a braccia aperte.
Leonardo aveva espresso la sua fede nella possibilità del volo umano ma lui non aveva mai considerato la scienza e la forza di gravità se non come un dettaglio trascurabile, troppo reale, concreto.
Nel suo caso si trattava di una convinzione irrazionale, da custodire segretamente e riservare all’ultimo atto, un’opportunità immateriale, trascendente.
Era certo di essere predestinato, il volo non si sarebbe esaurito nell’eventuale impatto finale ma sarebbe proseguito altrove, in perpetuo.
Il senso del vuoto l’aveva accompagnato tutta la vita, sin dalla placenta.
E che cos‘è lo spazio se non un cielo stellato immanente, statico e freddo che ti piomba addosso con tutta la violenza del silenzio?
Avrebbe dovuto volare, oppure precipitare: quale la differenza? Solo questione di velocità, tempo e durata.
Di sotto gli uomini, in quell’alba di primavera, avevano assunto la loro dimensione cosmica: puntini radi e insignificanti, legati ai propri turbamenti da un filo impercettibile che si sarebbe spezzato per ognuno, senza eroismo, al primo stormir di foglia.
I batuffoli del polline dei pioppi non riuscivano ad arrivare sino all’ultimo piano e in ogni caso stavano facendo un percorso inverso al suo, un volo finto, falso.
Gli venne in mente che da qualche parte aveva letto dei “pioppi transessuali” e cioè che le autorità di Pechino avevano lanciato una campagna per cambiare sesso ai pioppi allo scopo di bloccare l’invasione del polline, dannoso alla popolazione della capitale. Avevano fatto bene.
Il falco vive quasi esclusivamente negli ampi spazi ma in alcune città si annida sui tetti di palazzi alti, sulle guglie delle chiese e nelle case abbandonate, in agguato, volando in circolo o in picchiata.
Ora, però, toccava a lui.
Non che vi fosse una ragione precisa ma forse era proprio per questo che doveva farlo. Librarsi nell’aria fresca o non, era indifferente; sarebbe stato in ogni caso un volo.
Guardò giù gli spazzini meccanizzati che iniziavano a svegliare la città, di lì a poco sarebbe pure passato il primo tram.
Vide un vecchio che faceva colazione e cercò di penetrare l’intimità di altri appartamenti.
Tutto era irreale mentre il sole cominciava ad apparire all’orizzonte e si apprestava ad ingoiare la città.
Gli arrivò, d’improvviso, il pianto di un bambino. Riuscì a scorgere la figura della madre che, postolo dolcemente sul tavolo, lo rincuorava.
Gli venne in mente, prepotentemente, un pensiero dell’Alfieri: “Mi disturba la morte, è vero. Credo che sia un errore del padreterno. Non mi ritengo per niente indispensabile, ma immaginare il mondo senza di me: che farete da soli?”
Si scosse come ad un risveglio e non poté fare a meno di pensare alle due donne che aveva lasciato fiduciose nel sonno, giù, al terzo piano, in casa, soprattutto a quella dai lineamenti fini di sua madre.
Gli giunse il profumo dei fiori del tiglio e pensò che se fosse rientrato subito avrebbe potuto preparare loro la colazione, sorprendendole, in quella tersa mattinata di domenica.
L’ANGLAIS
Opera Terza classificata all’edizione 2007 del concorso Il Club dei Poeti.
Sul ballatoio sopra il pronto soccorso, si stagliava nel buio la massa bianca di un corpulento infermiere accovacciato in posizione volgare nei pressi della ringhiera del primo piano che dava giù, dove estraevano dalle ambulanze i corpi deimalcapitati.
Ad assistere allo spettacolo lo raggiunse un’inserviente, anche lei fuori turno, avvolta nel grembiule celeste che sottolineava le bruttezze dei fianchi enormi e sgraziati come la voce con la quale cercava di intrattenere l’altro che non la filava per niente, interessato com’era a tenere in ordine i capelli scomposti dalla brezza della sera.
Sotto, quelli in arancio rifrangente che scendevano e scaricavano in silenzio dalle ambulanze, abboccavano e guardavano verso l’alto ma non vedevano nulla, abbassando lo sguardo, abbagliati dai fari posti proprio sulla ringhiera.
Annoiato dallo spettacolo, l’infermiere si ritrasse per andare a bagnarsi i capelli e a pettinarli, zoccolando e ancheggiando verso lo spogliatoio.
La sera era di quelle primaverili, senza luna, di un nero avvolgente e rassicurante, con un’aria tiepida che portava lontani profumi di fiori mescolati con quelli orientaleggianti dei malcapitati, nonostante le folate acri delle ustioni che coloravano i corpi assieme ai brandelli dei vestiti variopinti.
Le ambulanze, come per rispetto, si tacitavano all’ingresso del tunnel e continuavano a sfornare una gran quantità di feriti provenienti dal campo nomadi andato in fiamme alla periferia.
Al capolinea, in tutti i sensi, arrivò anche l’“Anglais”.
Lui di nomade non aveva proprio nulla, anzi, mentre lo portavano su, i nomadi meglio messi, si alzavano stoicamente in piedi fissandolo in silenzio in segno di deferenza, come dinnanzi al governatore di una colonia inglese.
Al secolo Anteo, da un’eternità lo chiamavano l’Anglais per l’aspetto fisico ma soprattutto per il portamento.
Anglais, in francese, perché suonava bene e perché conosceva tale lingua, d’inglese invece non spiccicava una parola.
Da giovane: alto, lineamenti fini, tratto signorile, raffinato, capelli sottili castano chiari come gli occhi con riflessi dorati. Fronte spaziosa, fisico armonioso e slanciato, quasi effeminato per via delle gambe lunghe e perfettamente diritte.
L’aspetto più accattivante era il sorriso, di una rara bellezza, da aprire il cuore.
I rudi del quartiere, all’epoca, non avrebbero potuto coniare appellativo più azzeccato in segno di rispetto per la sua cultura, appellativo che gli rimase appiccicato per tutta la vita anche al di fuori del quartiere.
Orfano di padre, in realtà viveva “alle spalle” della madre che gestiva, o meglio lentamente prosciugava, una modesta rendita derivante da alcune proprietà lasciatele dal marito.
Eterno studente aveva superato ben pochi esami, non aveva alcuna fretta e si era dato a tutti i generi di lettura, tranne quelli utili al corso di studio.
Alimentava sporadicamente un’antologia con versi scritti di getto, tuttavia di notevole qualità, anche se conosciuti da pochissimi intimi ai quali concedeva rarissimamente l’accesso attraverso la propria declamazione, nei frangenti e situazioni in cui tentava di manipolare i loro o i propri sentimenti.
D’inverno, al primo buio, le osterie ed i negozi del quartiere, colmi di barattoli di latta e di cartoni, si riempivano di tepore e di odori nell’attesa della neve, aspettata con trepidazione e ingenuità infantile, con i propri suoni ovattati a ritmo lento, pieno di dolce pigrizia e letargo.
Sui fuochi e sui cerchi roventi delle stufe bollivano gli stufati e gli ossi di maiale abbondanti di grasso; gli angusti cortiletti, gli archi, i portici bassi e i budelli dei corridoi stretti e bui, odoravano intensamente di verza da aggiungere alle ministre con ossi e riso.
Sui marciapiedi i ragazzi per mano, che imbottivano i cappotti stretti e pesanti, avvolti nelle lunghe e gonfie sciarpe di lana grezza, cercavano di scalciare le madri resistendo alle loro strattonate come cani al guinzaglio.
Dalle finestre, sempre troppo piccole, arrivavano le grida sguaiate delle donne ed il fragore delle stoviglie rotte contro i maschi dall’alito vinoso.
L’Anglais era il re dello stradone, compariva bello e signorile nel suo trequarti nero stile ottocento, con passo lieve ed aristocratico salutando con un cenno del capo, sempre circondato dalla sua corte di manovali, muratori, garzoni d’officina, ripetenti alle scuole di avviamento professionale e bulli alla moda.
A volte dispensava pure qualche sorriso alle comari dalle gonne pesanti rese corte dal sedere sempre troppo largo, “inciabattate” e dai calzettoni a mezza gamba, che andavano in sollucchero e gli mandavano i figli ignoranti a ripetizione.
D’estate l’uniforme era la canottiera e i pantaloncini blu, portati pedalando pigramente a gambe larghe, alla gaglioffa.
I bambini in mutande, a piedi scalzi e con gli zoccoli in mano, suonavano i campanelli appollaiati in equilibrio precario sulle canne delle biciclette dei più grandi che pedalavano in branco, urtandosi allegramente, verso il fiume.
Sugli spiaggioni assolati, all’ombra di tende ricavate da qualche ramo secco e straccio scolorito, l’Anglais, dai fianchi stretti e la pelle ambrata, affascinante come una statua di Fidia, pontificava pigramente. Intratteneva i fedelissimi e qualche vergine che si dava arie da navigata mentre i più giovani si rincorrevano alzando polveroni e ricadendo avvinghiati in posizioni ambigue di lotta greco-romana.
Alla sera ricomparivano tutti agghindati, profumati di sapone di Marsiglia, con le chiome schiarite dal sole, i colli taurini abbelliti da catene d’argento luccicanti, pantaloni stretti e sorretti dai cinturoni appena sopra il sedere, magliette aderenti e scollacciate per sottolineare i muscoli abbronzati da una manciata di giorni di ferie.
L’Anglais faceva la sua apparizione solo sul tardi, slanciato nei pantaloni neri a tubo, con la camicia candida ed ampia, dal collo alla Robespierre, la giacca scura e leggera come un foulard, nella mano sinistra, i capelli lunghi e chiari, pettinati all’indietro con accurata trascuratezza.
Il sorriso, alla luce flebile dei lampioni, lo faceva apparire come un angelo evanescente da far tremare le parole e sussultare il petto delle giovinette dalle gonne a ventaglio.
E di donne n’aveva castigato tante, con passione e con gran fisicità ma sempre con poesia, rispetto e assoluta signorile discrezione.
Affetto sicuramente ma innamoramento mai, finché, maturo e libero dalla morsa possessiva della madre, conobbe lei.
Non pronunciava mai il suo nome, chissà perché, forse per un concetto di assoluto o più semplicemente per un vezzo studiato, di quella timidezza che piace tanto alle donne.
Lei invece si portava dietro l’appellativo di “indiana” per l’aspetto di prorompente bellezza bruna ma selvatica.
Sorella piccola di uno degli amici di corte, era l’unica femmina accettata dal branco; partecipava agli incontri con un ruolo marginale e atteggiamento mascolino, nell’indifferenza generale.
Lui però era sempre più sensibile alla trasformazione di quella bellezza adolescenziale e selvatica in una splendida, prorompente e aggressiva donna.
Lei prese presto l’iniziativa alternando furbescamente un’istintiva quanto ambigua ingenuità, quasi cameratesca, con l’irresistibile bellezza di donna complice.
Fu così che in una di quelle sere d’estate, tanto belle e intriganti da corrompere anche un santo, durante le quali ormai i due facevano scherzosamente coppia fissa, tra sfottò e lazzi, si trovarono soli lungo il fiume.
Lui la sdraiò dolcemente, accarezzò la seta fresca del vestito, dei capelli, del seno e dei fianchi ma si fermò abbagliato dallo splendore giovanile del volto e degli occhi.
L’Anglais restò per un attimo sbalordito quando vide spalancarsi la porta della sua stanza e comparire la figura stupenda di lei. Nella penombra rimirò, sul pavimento, il vestito di seta e poi si lasciò travolgere da tanta bellezza.
Ciò che lo intrigava maggiormente era l’ambiguità del comportamento che tenevano, da amici e non da amanti, stupendamente in contrasto con la realtà che riempiva prepotentemente le sue giornate.
Fu lei a lasciare appositamente tracce, a far scoprire l’intrigo, rendendo a quel punto ufficiale il loro rapporto. I giorni scorrevano pieni della sua presenza; facevano coppia fissa in modo quasi assillante ed esclusivo, sicché l’Anglais s’isolava sempre più perdendo colpi con la sua corte e con il quartiere intero.
Lei, al contrario e grazie a lui, aveva perso ciò che di selvatico prima possedeva.
Era divenuta una donna raffinata, di una bellezza classica ed intelligente che studiava con successo.
L’Anglais era sempre più in declino economico e questo si rifletteva nella trasandatezza del porgersi e nel vestire.
Aveva l’impressione di essere ormai un libro letto e straletto che non emozionava più, come le sue poesie che incantavano solo il gruppo sparuto dei fedelissimi, in disgrazia come lui.
Sempre più geloso, alternava, in una tragica sequenza periodi sempre più lunghi di depressione, umiliazione e aggressività.
Lei era incondizionatamente bella, colta, di successo, corteggiata e soprattutto indipendente.
Non poteva far altro che assistere impotente e disperato al degenerare del loro rapporto, con una rapidità impressionante, sino a toccare il fondo dell’antagonismo, della violenza e della volgarità, ineluttabilmente verso il giorno della separazione finale, irreparabile e definitiva, non per questo meno tragicamente dolorosa.
Si lasciò vivere lungo giornate interminabili, colme di vuoto e di assenza, incurante del contingente, ancorché pressante e tragico, scivolando per le strade solitario e trascurato.
Andò a soffrire altrove, come un cane ferito che si nasconde.
Il ballatoio dell’ultimo piano, dove era il gabinetto comune, guardava sull’aperta campagna, piatta ed uniforme, a perdita d’occhio.
Viveva in uno stanzone con un grande pendolo sottratto al sequestro, un letto piccolo con la coperta militare, un vecchio tavolo circondato da tante sedie inutili, da osteria, una stufa a legna nella quale bruciava di tutto, un veliero pieno di polvere ed un’enorme credenza usata come armadio.
Il corridoio, con grandi mattonelle disposte a scacchiera, portava ad un’altra stanza fredda, dalle pareti scrostate, adibita a magazzino dove aveva accatastato tutte le robe vecchie che trovava in giro con la rara vendita delle quali rimediava da campare, al limite della sopravvivenza.
Non parlava mai del suo passato, arido come una pianta secca; ogni tanto aveva degli sprazzi di vita con qualche matura e generosa donna con alle spalle storie complesse di cui non voleva sapere niente.
Le giovani lo salutavano asciutte con un certo rispetto per i suoi tratti fini ed il portamento demodé ma frequentavano gli operai o gli artigiani della zona, con le loro utilitarie dal cambio corto, i jeans a zampa d’elefante, i mangiadischi, le festine con le paste, la luce spenta e le mani leste.
Un giorno sentì prima un urlo e poi un gran vociare dalla strada dove si era riunita una piccola folla davanti al bottegaio che inveiva per essersi fatto sfuggire una zingara ladra.
Ebbe un’intuizione, aprì l’uscio e la vide accovacciata in un angolo del pianerottolo: splendida, orgogliosa, dagli occhi e capelli neri in un volto dolce e giovane, con una fisicità perfetta e scura, come la gonna e la maglietta.
Lasciò la porta aperta e lei entrò in silenzio, selvatica come un gatto randagio, si sedette sul letto.
L’Anglais estrasse dalla credenza un foglio, prese un pezzo di carbonella, le si avvicinò, le sollevò con dolcezza la gonna larga e si mise a ritrarla assorto in un furore mistico.
Quando capì che lui aveva finito, lei si avvicinò alle sue spalle, lo accarezzò e afferrandolo per mano si sdraiò sul letto trascinandolo a sé.
I nomadi lo aiutarono a sistemare la sua baracca nel loro campo e si occuparono di trasportare il pendolo, i libri e tutto ciò che poteva essere utile sotto lo sguardo allibito degli abitanti la vecchia casa.
Il campo era all’estrema periferia da dove si vedevano in lontananza i primi agglomerati popolari, spettrali e lividi come i suoni che da essi provenivano.
L’Anglais aveva ricominciato a vestire anche d’estate la giacca, dipingeva con passione seduto e assorto davanti le carovane e le baracche, in un’inebriante ridda di colori e volti veri, ricchi di storia.
Passeggiava spesso per il campo tra un nugolo di bambini che cercava di educare, peripatetico, sotto gli alberi.
Chiunque cercava il suo consiglio con ossequio e deferenza che trasmetteva anche alla sua compagna, trattata come la moglie di un governatore.
Di notte, lei lo afferrava per mano trascinandolo a sé sul letto ed era sempre come la prima volta.
Finalmente il medico, superata l’emergenza, potè occuparsi anche dei casi senza alcuna speranza, agonizzanti, come lui.
Quando lo vide trasalì, scostò con una garza quanto rimaneva dei capelli, lo guardò fisso e quasi urlò: «Ma lei è l’Anglais!».
Non fece in tempo a cogliere la sua reazione ed espressione di compiacimento, distratto come fu dalla splendida presenza di una giovane zingara bruna che lo teneva orgogliosamente per mano, tirandolo, per quanto possibile, a sé.
L’Anglais piegò il capo e si lasciò morire felice di chiuderla lì, in quel momento di gloria e massimo fulgore.
L’infermiere, ormai in borghese, lanciò un ultimo sguardo all’ospedale che stava lasciando, contento di aver terminato il suo turno appena prima dell’arrivo di quella baraonda ma ebbe un moto di stizza quando un refolo di vento scompigliò i suoi capelli, ormai asciutti.