In copertina: Fotografia dell’Autrice
Nota d’autrice
Sul ciglio della scogliera, prima che un boia ci mozzi la testa, confessiamo il tabù dei non colpevoli: l’innocenza della nostra esistenza.
Ai cancelli chiusi dei luminari, i “sommi giudici” ci additano falsi, pagani condannati a saldare ai demoni: una “sporca” coscienza; ma nella pace infernale interiore ci attanagliano i retroscena di un cuore che dopo secoli vuole traboccare ancora amore, infondere calore, protezione, riflessione e perché no, anche sbendarci dall’orrore.
Murata nella nostra anima e affamata di condivisione, la speranza sbatte contro il gelido cemento di merlettate ideologie; frusta il boomerang del nostro reato: non esserci inginocchiati al burattinaio.
Nel monologo della vita, la parola è il dialogo che sgomitola il filo rosso della memoria; faticano i corsari nel labirinto della nostra enciclopedia a scovare il tesoro: un macigno di verità.
I vulcani dell’ira al giardino dell’ingiustizia mietono biglie di ricordi e conchiglie di fede, mutandolo in un deserto sterile.
Ladri di rivoluzione, martiri di religione, chiediamo il risarcimento per le imperfezioni che i “chirurghi del sapere” ci hanno deturpato, i nei che ci hanno omologato, quella follia sedata, quell’impronta “non ibrida”, genesi di un DNA, d’un’unica identità: l’umanità; combinazione di una cassaforte che abbiamo ereditato, molecole che non vanno manipolate né clonate, ma investite sugli orizzonti del mercato di un nuovo senso: l’azzardo sul portale del potenziale, per evolvere e custodire il testamento di vite in usufrutto, sentire il bacio del nostro respiro, del nostro spirito e scegliere di non morire per testimoniare i pionieri di un futuro già presente.
Nella scordatura dei vari burroni che ci hanno reso afoni, ubriachi di adrenalina alziamo il volume della rapsodia dei giganti, solo rumore per i mercenari della quotidianità; “parole di silenzio” ecco l’undicesimo comandamento nel concerto di un mortale viaggio, detto: sacrificio.
Sul pentagramma degli acrobati, sbavano i singhiozzi delle “vittime d’aspettative”, giacciono nei fondali gli errori ortografici della storia; ma la diga è in piena: trema il terremoto delle correzioni, affinché un infermiere di coraggio suturi le cicatrici alle ganasce degli squali, cavie su lingotti di vissuto.
Nella stiva del mondo non siamo pasto per iene, anche se nel camerino sniffiamo pietà e fumiamo paure nel posacenere; avvolti dal sipario dell’indifferenza, marchio di fabbrica su marionette.
Il calvario del nostro codice a s-barre ci ha consumato, pesano i sogni sull’isola dei rifiuti, discariche di utopia; ma non v’è cella di solitudine al rebus dell’essere, quanto una culla di spiritualità, dove sciogliere l’artico dell’individualismo e dissetarsi con la borraccia della solidarietà: equilibristi in bilico tra manette e monete; sorretti da una rete di mani, catena di pescatori, anelli di reduci: noi, non colpevoli.
Concetta Seila Mammoccio
Prefazione
Concetta Seila Mammoccio offre la sua nuova caleidoscopica silloge poetica, dall’emblematico titolo “Non colpevoli”, che è espressione della massima forma di rivelazione, grazie ad una visione lirica che fluisce senza sosta, come fiume in piena che esonda in terre sconosciute, tra percezioni vitali e l’amara costante lotta nell’esistenza.
Lei crea il suo magico segno lirico, supremamente eclettico e simbolico, con una trasparenza fedele che diventa immagine stessa d’una poesia capace di superare l’ideologismo corrente, la banalità imperante così come il mero pragmatismo.
La sua comunicazione poetica è coraggiosa e decisa, espressione d’un orgoglio lirico capace di scrutare nell’abisso dolente, nella speranza che guarda con occhi lucidi al suo cuore, nel bagliore di infernali antri, nella preziosità dell’alone luminoso che si erge dal fondo drammatico della vita, anzi del corale dramma esistenziale.
Davanti al “portale dell’essere”, Lei penetra nel “prisma” femmineo, sapendo bene che l’anima è imprigionata dal corpo, come la coscienza che pare condannata all’espiazione di colpe presunte e, dal calice memoriale e dagli arcani segni, come dal profondo “pozzo” dei tormenti e dalla “giostra di solitudine”, genera la forza emblematica della sua Parola.
Il mondo visibile offre sollecitazione e concentrazione poetica con preziose immagini che appartengono allo specchio, crogiuolo della poetessa, con le presenze nella “pace infernale” dell’animo come a decretarne la funzione di ricerca archetipica.
La sua parola demiurgica oltrepassa i fenomeni della sua esperienza per restituire preziose tracce che diventano canto lirico, interiore e umana rappresentazione.
Il dialogo salvifico testimonia il rifiuto di una realtà sociale divenuta tragica alienante minaccia e preserva la matrice del sogno poetico fermamente unito alla sua ispirazione.
Nel processo della creazione poetica assoluta centralità ha la varietà dei temi, dei ritmi, dei livelli di linguaggio, oltre all’utilizzo di reiterate parole chiave, taglienti e penetranti come lame che incidono segni profondi nella carne, generando la miscellanea complessa architettura, la multiforme visione inventrice, le metamorfosi di un linguaggio all’arsenico che si fa sipario e sudario di esoteriche evocazioni.
L’innocenza della vita, nella sua portata universale, rappresenta il concetto portante nel libro di Concetta Seila Mammoccio, artefice d’un lirismo che è rappresentazione eclettica del suo desiderio di poetare e Lei pone l’interrogativo dell’umano vivere: siamo immuni dalle oscurità dell’esistere o siamo colpevoli di chissà quale misfatto?
La vita come una “malefica clessidra” detta i tempi alla mente nelle contraddizioni dell’esistenza e anche se lo spirito è tormentato è fondamentale l’atto salvifico, che è la Parola, capace di regalare il calore della vita dopo il gelo del dolore.
La sua Parola, cristallina ed audace, alimenta il flusso lirico del sottile filo della memoria, che si dipana nel labirinto esistenziale, per cercare di riportare alla luce le possibili verità perché Lei sa molto bene che non esiste unica verità.
Il calvario dell’umano cammino è una continua azione di consunzione: tra solitudine e svelamento dell’enigma, indagine del mistero dell’Essere, superamento del sipario dell’indifferenza e delle cicatrici celate sotto la “maschera”.
“Nel teatro della vita siamo giocattoli”, “mercenari di solitudine” nel pelago delle sensazioni d’un animo tormentato, ma disposto a captare anche le più labili percezioni dell’essenza stessa del vivere: ecco allora il motivo di quei versi “dalla cima di Leucade voglio saltare”, come a ricordare che dalla vetta dell’isola di Leucas, gli esseri umani si gettavano in mare per guarire dall’amore e, ancora, la sensazione di riemergere dall’Averno, mitico cratere dal quale parevano provenire voci profonde.
Come la discesa agli inferi di Enea, le sue parole, dopo la cerimonia di purificazione, vengono consacrate alla poesia con l’anima ed il cuore totalmente immersi nel travaglio della vita.
E Lei, magnetica e solitaria, enigmatica e surrealista, sempre avvolta nel nobile manto di poetessa, “decanta l’amor, la viltà, l’orror…”.
Massimo Barile