In copertina «Bandiera italiana» © Omar – stock.adobe.com
PREFAZIONE
Ogni città è un piccolo tesoro. In Italia come dappertutto. Ti ci aggiri, ne senti i profumi, ne ammiri la bellezza, ne gusti l’unicità. Ogni provincia italiana ti trasmette questa sensazione. Con gli occhi, con il cuore e con la mente varchi i suoi confini, apri le sue porte, le chiedi il permesso per poterne catturare la ricchezza unica e irripetibile. Sono così, le province italiane e i loro territori. Ricchezza, di monumenti, persone, paesaggi. Come tante perline colorate, ognuna delle quali ha un colore differente ed è infilata a intarsio in una collana di dolcezza. Nessuna è come le altre. Nessuna può essere sostituita. E pensi anche un po’ a chi ha reso possibile quest’intarsio, al suo impegno per realizzarlo. Alle molte persone che, ogni giorno, con il loro impegno silenzioso, cercano non solo di tenerlo vivo ma anche di arricchirlo. Perché cambiano, le province, non rimangono mai uguali a loro stesse, seppur abbiano uno zoccolo duro di patrimonio dal valore inestimabile che le rende chiaramente identificabili l’una dall’altra. Province da accarezzare, ma anche da mangiare. E infatti, nel tentare umilmente di tratteggiarne l’ineffabil beltà, abbiamo anche dato attenzione alla loro ricchezza gastronomica e culinaria. Nutrimento per il corpo e per l’anima. Nel viaggio che abbiamo cercato di compiere, che non definiremmo strettamente ideale ma assolutamente concreto, abbiamo cercato di andare alle radici della loro storia per capire in base a quali premesse di tradizioni, di usi, costumi, impegno, anche di lacerazioni, esse siano diventate ciò che sono oggi. Non ci interessa, né mai ci interesserà, stabilire una gerarchia di bellezza, perché la bellezza, quando ci si imbatte in una realtà come l’Italia, è ovunque. Ci interessa stabilire invece che, pur nelle mille differenti particolarità, ogni provincia è casa propria. Che in ognuna di esse si respira la magia di un intero paese. E che la magia del paese non è semplicemente la sommatoria di tutte queste province. E, altresì, ci interessa evidenziare che, spesso, esse divengono una cartolina in grado di attirare come una calamita anche altre zone del mondo. Una città è, al contempo, frutto e demiurgo della creatività umana. Essa racchiude in sé un potenziale infinito. Perché, se è vero che essa incarna l’azione e il pensiero degli uomini che hanno una natura finita e si associano alla loro stessa finitudine strutturale, lo è altrettanto che al suo sviluppo non vi è mai limite. Uno sviluppo che non è mai ripudio del passato ma è sedimento orgoglioso con esso. Una città non potrebbe essere ciò che è oggi senza la storia che l’ha percorsa. Così come non potrà essere alcunché domani senza l’oggi che lo sta concretizzando. Pur nelle difficoltà economiche e sociali, una città è in eterno, indefinito cammino, Ed essa, volendo fare una concessione all’idealismo, contiene in sé l’universale, ovvero tutte le altre città. Non ci stancheremo mai di affermare che, osservando la bellezza multiforme di ogni città italiana, si possa ammirare e amare la complessiva regalità del paese. Dicevamo che una città è, al contempo, frutto e demiurgo della creatività umana. Perché sia frutto è intuibile, le sue ricchezze sono nate dalle sensibilità di diversi secoli e popoli che hanno trovato, inconsapevolmente, un’armonizzazione. Potremmo a esempio notare in qualche città una strada romana o medievale a braccetto con una chiesa o con edifici straordinariamente moderni. Non sposiamo la tesi per cui la modernità finirebbe per soffocare la storia di una città. Non sarà mai così neppure se un singolo edificio dovesse essere demolito, perché anche nelle sue macerie sarà rinvenibile il percorso evolutivo della città stessa. Al modo in cui la scomparsa di una persona cara non va a estinguerne affatto la presenza in noi, la scomparsa di un edificio non ne cancella certo la storia e il contributo che esso ha saputo dare. Pensiamo, soprattutto, alle grandi fabbriche in città particolarmente sviluppate e popolose che hanno lasciato il segno in termini produttivi e occupazionali. La città, come frutto, è la realizzazione di un sogno. Come demiurgo, invece, è il progetto di un sogno. La città forma sensibilità, è veicolo di aggregazione tra i cittadini, di vitalità, di movimento economico, culturale, sociale. Essa crea da ciò che per lei è stato creato, e questo in un incessante scambio tra quanto la storia e chi l’ha incarnata le ha dato e quanto lei riesce a dare agli uomini che la vivono. La città, ci perdonerete se bussiamo ancora alla porta dell’idealismo che ci pare però essere a supporto di un’idea di fondo essenziale, è tesi che si esterna da sé stessa per negarsi in altro da lei, cioè nelle sue aspirazioni e nelle sue prospettive di sviluppo non ancora a lei note per ritrovarsi arricchita nella sintesi che è connubio tra quanto è stata e quanto si appresta a essere. In questo senso ci pare riduttivo dire di una città che è passato, presente e futuro. Essa non è scansione di questi tre elementi temporali, ne è armonizzazione. Se la consideriamo soltanto in una prospettiva storica, come in parte la dobbiamo pur considerare, non abbiamo però l’idea della sua esatta grandezza. Perché passato, presente e futuro si fondono in continuazione, cosa che non potrebbero fare se li considerassimo soltanto in una prospettiva di dinamica cronologica. La città è voglia di sperimentare, è inesausto desiderio di crescere, è pressoché illimitata possibilità di evoluzione. Ed è l’incarnazione di uno spirito di un popolo che si è formato e, definendosi sempre più, finisce per costituirne l’elemento guida.
L’identità di una città si fonda storicamente su due elementi ben precisi: il campanile, dunque la chiesa, e il municipio. Sono l’elemento religioso e quello laico. E qui, certamente, alcuni di coloro che mi faranno l’onore di leggere questi versi non mancheranno di muovere un’obiezione: la società è cambiata, non si è più al tempo del semplice campanile, si sono affacciate sempre più alla ribalta, segnatamente con il rafforzarsi del fenomeno migratorio, nuove confessioni e nuove appartenenze religiose che non consentono più di guardare al solo campanile e dunque alla cristianità. Ma dovremmo pur ricordare alcuni aspetti che ci consentono di guardare ancora al campanile come un simbolo. In primo luogo, l’evoluzione del nostro paese, che possa piacere oppure no, è permeata di cristianità e cattolicesimo, l’Europa e non solo l’Italia hanno radici cristiane, dunque vi è un elemento storico- cultural-religioso che non può consentire di mettere così facilmente in ombra il campanile. Non si tratta di difesa d’ufficio da parte di chi pur è, e resta, cattolico, ma della presa d’atto di una storia. Il campanile come elemento religioso ha finito per identificare sempre più una comunità costituendone il collante. E a conforto di questa tesi non vi è solo il titolo che si è scelto per questa silloge, ovvero “Verseggiar per campanili” ma anche il fatto che spesso le città sono qualificate esse stesse come campanili, il paese dei campanili eccetera. Va da sé che questo non pregiudichi in alcun modo l’apertura delle braccia ad altre opzioni religiose. Anche perché, se il campanile identifica, almeno in parte, la Chiesa e la Chiesa è accoglienza, un campanile è simbolo di inclusione e mai potrà rappresentare un simbolo divisivo, a pena di non potersi considerare davvero cattolici. Non è certo oggetto della presente raccolta svolgere una riflessione di questo tipo, anche perché dovrebbe essere effettuata con un trattato e non certo con dei versi (e non saremmo affatto in grado di farlo) ma se il cattolicesimo è davvero tale esso accoglie il diverso, non lo esclude, ci si confronta. Questo ci apre la strada anche per affrontare, sia pure brevemente e certo senza pretesa alcuna di completezza, anche la metamorfosi demografica di una città. Abbiamo lasciato intendere, e confermiamo, che una città o è aperta o non è. E non è solo una questione di evoluzione storica, ma anche di capacità di accogliere le sollecitazioni che provengono dal suo esterno e i mutamenti armonizzandosi con essi e senza farsene travolgere. Ci viene in mente l’interazione tra sistema e ambiente evocata da Nicklas Luhmann nel suo ottimo volume “Illuminismo sociologico” che ci onoriamo di avere letto. C’è un sistema, in questo caso la città, che subisce l’influsso dell’ambiente ovvero di tutto quanto le sta intorno. Un’interazione che può avere esiti positivi o negativi, ma noi ci permettiamo di considerare unicamente quelli positivi. E che, a ben vedere, si svolge anche intracittà, cioè, appunto, tra le varie parti di una città. Una delle interazioni sistema-ambiente è appunto il mutamento demografico che ha portato, porta e sempre più porterà a considerare la città come un incontro tra etnie differenti, dunque culture, usi e costumi differenti. E, dunque, a ripensare progressivamente il concetto di città come di qualcosa che includa e armonizzi le differenze e non più a un unicum composto solo da persone con determinate caratteristiche fisiche, religiose, culturali. Ciò che ogni città dovrebbe riuscire a cogliere è, innanzitutto, il fatto che tutto questo non conduca al suo impoverimento né alla sua snaturalizzazione. All’esatto opposto, porta invece a una sua progressiva definizione in senso universale. La città non è più solo città come la si poteva intendere un tempo ma è mondo. E se ogni città si fa mondo, sarà certamente più semplice e piacevole per tutti ritrovarsi come a casa propria anche se si proviene da un’altra realtà. Lo dicono assai meglio di noi sociologi, storici e studiosi di varia natura: non è più tempo di tracciare steccati, di confinarsi in perimetri che non hanno ormai più senso nella storia attuale. Non è più tempo di orgogliosi e sterili arroccamenti su un modello di città che andava bene tempo fa ma non sposa più l’assetto attuale. Oggi la città, come opportunamente molti hanno osservato, è un laboratorio. E un laboratorio si avvale del contributo di tutti, ha la sua porta sempre spalancata. Agitare paure del diverso non solo rischia di lasciare indietro la città rispetto all’orologio del tempo, ma di farla morire, errore intollerabile e imperdonabile perché significherebbe pugnalarne la storia. Se politica deriva, come deriva, da polis, intesa dagli antichi Greci in senso inclusivo e come “Città-stato” (vedete che abbiamo già un salto dall’idea di semplice città che non dura certo da oggi ma ci è stato insegnato sin dall’antichità?), la politica odierna, e naturalmente non staremo a prestarci al gioco delle parti, deve tutta essere protesa verso questo progressivo modello di crescita universalistica della città. La città non deve guardarsi allo specchio, certo, può fare anche questo in ossequio a un suo legittimo orgoglio storico-culturale, ma se si arresta a questo è perduta. L’irruzione sulla scena, in senso positivo, di soggetti che un tempo non appartenevano a quella città e portano culture diverse da essa può aprire alla città stessa un ventaglio di nuove opportunità inimmaginabili. È una sfida che vale la pena di accettare, perché, se ben gestita, porterà a un esito di vittoria. Reciproca. Perché la città donerà ai nuovi arrivati la sua storia, e i nuovi arrivati la loro. E qualificare tutto ciò come impoverimento per una città è argomentazione che lasciamo a chi non è in grado di guardare al di là del proprio naso, così inconsistente e sconfessata dallo stesso sviluppo storico da non essere neppure meritevole di attenzione. La città autentica mette l’individuo nella condizione di esercitare in modo responsabile la propria libertà. La città, quindi, viene a essere al contempo esito e sorgente di questo utilizzo della libertà in modo consapevole e solidale. La città si erge a elemento unificante prima di tutto come idea che consente di fare convergere ogni proprio sforzo verso la realizzazione di un obiettivo comune. Se vogliamo servirci di una metafora, la città è il bersaglio e le frecce scagliate verso di esso sono gli sforzi, in termini di pensieri e azioni, che ciascuno fa per colpirlo. E avere l’idea della città significa avere non soltanto l’idea del suo paesaggio, delle sue ricchezze artistiche e naturali, ma vuol dire prima di tutto avere l’idea di un insieme armonico di individui che la vivono. Il termine città, in questo senso, si presenta utilizzabile sia, come detto pocanzi, come idea collettiva sia come elemento che contiene tutti gli individui come noi in essa inseriti. E quelli che vi verranno, considerando il discorso migratorio su cui ci si è soffermati in precedenza. Ecco che quindi l’idea di città diventa l’idea di ciascuno di noi come tutto, perché agendo, noi agiamo come contributo al tutto e siamo così concependoci noi stessi tutto. Quindi una città è una e centomila. Non completiamo la citazione pirandelliana dicendo nessuno, perché significherebbe non evidenziare l’apporto della persona nel fondarla, che è ovviamente fondamentale. Nella macroidea di città che deve essere uguale per tutti in quanto deve tendere alla convivenza e allo sviluppo solidale vanno a convergere le microidee, cioè il vissuto progettuale di ciascun suo residente. Ma poniamo attenzione a un aspetto: parlare di città come idea non equivale affatto a parlare di città ideale. O almeno non vi equivale se per città ideale dobbiamo intendere qualcosa di completamente astratto e non, dunque, frutto della concretezza progettuale di ognuno. E neppure occorre pensare che idea di città e città come idea designino lo stesso concetto. Perché, nel primo caso, idea di città fa intendere una sorta di atomizzazione delle persone non riducibile punto al concetto generale di città, fa cioè designare qualcosa di slegato, una serie di contributi che danno vita a un’entità complessiva non tenuta insieme in modo armonico ma semplicemente matematico. Va da sé che una città non sia uno più uno più un abitante, ma costituisca invece, appunto, una comunità che presenta l’armonica fusione dei vari apporti. Dei vari apporti, abbiamo detto, al di là delle volontà che animano la nostra azione. Perché, e qui ci sovviene l’apporto di una bellissima frase dell’economista austriaco Friedrick Von Hayek, la realtà è il risultato delle azioni degli uomini ma non delle loro intenzioni. Ciò significa che il nostro essere per la città, quasi parlando heideggerianamente, nel corso del tempo che ci è dato di vivere genera esiti spesso anche più ampi di quelli che con i nostri pensieri e le nostre azioni ci siamo prefissati di ottenere. Anche per questa ragione la città è sempre più degli uomini che la vivono, oltrechè una loro composizione armonica, rappresenta anche la dilatazione rispetto alle loro intenzioni e quindi la possibilità di dare, anche se inconsapevolmente, un contributo di maggiore rilevanza rispetto a quello che ci si proponeva inizialmente. E dunque la città è anche più dell’individuo che la vive proprio a partire dall’individuo stesso. In ogni individuo vi è la città, in ogni città vi è l’individuo. È un mutuo darsi dell’uno verso l’altra, ma non è solo la città a essere un tutto collettivo, lo è anche il cittadino.
Nella dimensione della città, quindi, si sovrappongono la realtà e il sogno. La città è sogno che cammina nella realtà, e realtà che si nutre di un sogno. E non vi è dubbio, perlomeno per quanto ci riguarda, che monumenti, paesaggi, case siano tutte rappresentazioni di un sogno che vari personaggi vissuti nelle varie epoche hanno trovato il coraggio e il cuore di mutare in realtà. Le due dimensioni convivono. La realtà corteggia il sogno, lo aiuta sempre ad andare oltre per potersi arricchire. E il sogno dice alla realtà che può essere sempre di più di come sia in un determinato momento. Vi è, quindi, una città che sogna mantenendo i piedi ben saldi nella realtà. E una, a essa complementare, che vivendo nella realtà non rinuncia a sognare. Si può quindi a nostro avviso ben affermare che, nel contesto di una città, sogno e realtà si corteggino. Del resto una città cresce se sa sognare, e un sogno cresce se si ha amore per la città in cui lo si vorrebbe declinare. Il sogno, dicevamo, è saldamente ancorato alla realtà. E può assumere la forma di progetti di ampio respiro (tutti, d’altra parte, lo sono perché si nutrono della grande idea della città cui si faceva riferimento) oppure di attività di più piccola entità e, in apparenza, più banali ma che o tengono vivo il sogno o ne sono la premessa per la realizzazione. Una città che sogna è una città che, quindi, si conosce sempre di più. Città e conoscenza cominciano ambedue per c. Si ama la propria città nella misura in cui se ne desidera conoscere ogni più piccola sfaccettatura. Non si deve mai dare per scontato di conoscere la città in cui si vive. Personalmente ci è accaduto di visitare una città italiana almeno quattro volte, e in ognuna di queste occasioni abbiamo scoperto di essa aspetti che ignoravamo. Si dirà che questo possa valere per una città in cui non si risieda abitualmente e che ci si rechi a visitare per finalità turistiche, ma non è così. Anche la nostra città ci è sempre, in qualche misura, sconosciuta ed esige di lasciarsi conoscere. Ogni via, ogni strada, ogni caseggiato, ogni monumento, ogni paesaggio hanno sempre qualcosa di nuovo con cui provocarci, da comunicarci. Se diamo la città in cui viviamo per scontata, in realtà, non la stiamo davvero vivendo. E questo ragionamento potrebbe essere svolto persino per le realtà di dimensioni più modeste. Ecco allora la terza c che prende per mano quelle di città e di conoscenza. Curiosità. Città, conoscenza e curiosità devono convivere armoniosamente. Anche perché la conoscenza sempre più profonda della propria città può diventare, torniamo indietro un passo a quanto si asseriva in precedenza, veicolo per la coltivazione di un nuovo sogno. Una città che si conosce è una città che sa sognare. I sogni si nutrono certamente di aspirazioni nuove, ma anche di conoscenza di quanto già vi è. La curiosità chiama il conoscere, il conoscere chiama un’idea di città sempre nuova che ci si fa per il tempo presente e si concepisce per quello futuro. Quante volte ci è capitato di dare per scontata una determinata via? “Ma l’ho già vista mille volte”, si dice. Quante volte ci è accaduto di passare per le vie del centro della nostra città come assonnati, come se le realtà che ci circondano ci avessero già detto tutto? Ecco, non ci pare questo il modo corretto di vivere la propria città. La curiosità sa cavare la ricchezza della città in cui si vive sin dalla minima pietra, sin dal minimo ciuffo d’erba, sin dal minimo cartello toponomastico.
Vi è , nella realizzazione della città, qualcosa di divino. E questo, crediamo, a prescindere dal fatto che, nel viverla, e più in generale nel vivere la propria vita, si abbia un riferimento religioso. La città di Dio evocata da grandi pensatori è comunque in qualche modo preparata, o lo può essere, già in terra. E questo perché l’evoluzione di una città, aperta per definizione, tende all’infinito. E tendere all’infinito significa uscire dall’umano per immettersi in una dimensione spirituale superiore. Un primo elemento di tutto questo è pensare alla realizzazione della città nell’ottica della convivenza con gli altri, non soltanto per il proprio benessere personale. Realizzare la città è qualcosa che ci porta fuori da noi stessi, in senso positivo, due volte: in primo luogo ci consente di condividere con altri l’idea di realizzare qualcosa che possa arricchire tutti, non soltanto, evidentemente, in senso economico, in secondo luogo ci permette di renderci utili, sentendoci davvero costruttori della città, avvertendo di poter contribuire a essa. La domanda, a questo punto, sorge spontanea: quanti di noi hanno la consapevolezza di dover essere edificatori della città in cui vivono? Perché, crediamo di averlo già evidenziato o comunque di avere implicitamente reso l’idea, si vive la città e si appartiene a essa nella misura in cui la si costruisce. Gli agenti educativi sociali, dalla famiglia alla scuola, agli oratori, dovrebbero anche assumersi il compito (qualcuno già lo fa) di sviluppare nei loro frequentatori la consapevolezza di essere edificatori della città. Della nostra città specifica, ma più in generale di una città dove ciascuno tenderà la mano all’altro e metterà il proprio talento e la propria operosità a disposizione per il benessere universale. Perché è evidente che la città di Dio, o comunque una città spiritualmente forte e di carattere solidale universale, passi per l’edificazione di ogni città specifica. In modo tale che, lo ribadiamo, ciascuno si senta nella propria città in ogni città. Va bene insegnare le varie materie scolastiche, è essenziale per formare uomini autenticamente liberi e responsabili. Ma tutto ciò si deve porre necessariamente a supporto di un impegno civico, della creazione progressiva di una città. E, lo hanno già detto in molti, non soltanto con la prospettiva del presente ma avendo bene in mente chi ci vivrà nel futuro. Non sappiamo chi la vivrà nel futuro. Ma sappiamo che qualcuno la vivrà. Non soltanto i nostri figli. Ecco quindi che il nostro impegno esce da noi stessi due volte, nello spazio e nel tempo. D’altro canto, qual senso avrebbe mai, parlando in generale, vivere l’esistenza solo per sé stessi, se non si costruisse per gli altri oltreché per noi? Questo concetto, forse, taluni di noi lo abbiamo perso per strada, siamo chiamati a recuperarlo. Per chi è credente, ciò si intende anche come una missione specifica che Dio ci ha affidato. E, per cortesia, sbarazziamoci dell’idea per cui vi siano soltanto alcuni eletti che possono cambiare le cose. Tutti concorrono, non è escluso alcuno, all’edificazione della città. Poi qualcuno compirà imprese più eclatanti ed emergerà, qualcun altro rimarrà nell’ombra, ma non cambia il concetto di fondo. Il grande artista così come il laborioso operaio realizzeranno la città autentica, dove ogni uomo brillerà tra gli altri uomini. E tutto ciò, lo abbiamo detto pocanzi, in ossequio, per chi crede, a una missione affidatagli da Dio e che egli ha accolto di buon grado intuendone non solo la rilevanza, ma l’indispensabilità. Per chi, invece, vive in una dimensione laica, vi è comunque la dimensione non meno spirituale di una solidarietà universale. È ciò che l’indimenticabile Giorgio Gaber, in un suo noto brano, afferma con grande nitidezza: credere di poter essere vivi e felici soltanto se lo sono anche gli altri. La città esige una forma di governo credibile, efficiente ed efficace. La forma di governo, come è detto anche in molta manualistica politica, non può mancare. E spediremmo nel regno delle utopie l’idea di una città che possa sorreggersi con la sovranità di tutti. Occorrono delle rappresentanze di governo che abbiano due funzioni: la prima è di orientare, secondo idealità forti e solidali, lo sviluppo della città stessa senza fare piazza pulita della sua storia ma, anzi, prendendola per mano e integrandola con il presente e il futuro, la seconda è di raccogliere in modo armonico i contributi di progettualità, pensiero e azione dei suoi cittadini e, questo è il compito più arduo, sintetizzarli in un macroprogetto di sviluppo. Senza pensare che vi siano gerarchie di importanza più o meno rilevante, vi deve essere chi è preposto all’organizzazione di un consorzio sociale e chi, invece, contribuisce alla sua vita e alla sua evoluzione con spirito propositivo e attivo pur se non organizzativo. E non sembri questa una diminutio perché, come si è cercato di dire sia pur succintamente, non lo è affatto. Un governo non potrebbe organizzare efficacemente e credibilmente lo sviluppo della città senza una cittadinanza attiva che mandasse avanti tale sviluppo, o ne creasse le condizioni, con la sua laboriosità. E, allo stesso modo, l’attività della cittadinanza rimarrebbe un insieme di contributi scollegati se una forma di Governo non li canalizzasse entro un’idea di sviluppo armonico. Il Governo rappresenta quindi l’immagine di visione progettuale e custodisce la ricchezza sincronica e diacronica di una città. Ed è per questo, come è evidente e prescindendo da discorsi di schieramento politico, che la qualità delle sue componenti e del suo svolgersi deve essere tenuta al massimo grado sotto controllo. Ecco un altro aspetto. Un Governo autentico, della città ma anche a livello più vasto, deve essere controllabile in ogni momento e non può vantare pretesa alcuna di mancanza di controllo. Sarebbe del resto un controsenso insediarsi per volere del popolo sovrano al governo della città e poi pretendere di essere totalmente avulsi dal giudizio costante dei cittadini. Ed è, purtroppo, cosa che taluni governanti stentano a comprendere o, peggio ancora, non comprendono affatto. Il Governo della città ne incarna le tradizioni e getta le basi per il domani. Ai cittadini e a chi li governa il compito di assumersi responsabilmente e nella quotidianità il compito di amare la loro città aiutandola costantemente a crescere.
La città vive incastonata tra rumori e silenzi. E, contrariamente a quanto magari taluno potrebbe ritenere, ha bisogno sia dei primi che dei secondi. Per rumori non intendiamo quelli che sono classificati sotto la dicitura inquinamento acustico ma qualcosa di ben più nobile. Sono i rumori della gente che passa, che osserva, sono quelli dei negozi, dei suoni che promanano magari da qualche esercizio commerciale, anche quelli dei bambini che si divertono. Sono rumori che fanno comprendere come una città viva, non resti mai uguale a sé stessa. Certo, quando si pensa ai rumori si pensa magari subito a qualcosa di negativo. Ma tutto questo è il contrario del negativo. È capire che una città ha voglia di crescere, di viversi, essendo anche al contempo motori di questa vita e questa crescita. Ma una città si nutre anche di silenzi, e anche in questo caso potremmo citare tanti esempi. Il silenzio di un parco, quello di una vetrina che si offre allo sguardo, di una persona che osserva un panorama, il silenzio portato dolcemente dall’oscurità. La città che vive e quella che si riposa. O che vive riposando. Fermo restando che, forse, una città non si riposa mai davvero.
Vedere la città che sorge e comincia a dare luogo a molte attività, ognuna diversa dall’altra ma tutte utili alla collettività, è certamente un’emozione forte. Una città si qualifica infatti anche per la sua laboriosità che è capacità di volersi bene e voler bene. La città viene a essere quindi una dama elegante che cammina con grande umiltà, ma anche con grande orgoglio di essere sé stessa, unica e irripetibile, tra i due estremi del chiarore e dell’oscurità. Il giorno essa si offre come promessa di realizzazione, speranza di cambiamento e di evoluzione, consapevolezza della bellezza di ciò che è, la sera raccoglie i frutti del suo essersi vissuta e, per così dire, si ricarica per un giorno nuovo. E porta con sé il contributo, prezioso ancorché a volte silenzioso cioè lontano dai clamori, di ogni abitante che la vive e la costruisce. Vi è una fascinosa e seducente circolarità del vivere della città che si dondola tra chiarore e oscurità senza mai essere uguale a sé stessa da un giorno all’altro. Di una città che, terminata la luce naturale, si affida alle mani di quelle artificiali che le consentono di continuare il suo percorso realizzativo in un altro modo. La sera la città riveste un particolare fascino. Questo perché, oltre all’elemento di ricarica per un giorno nuovo, come si è pocanzi evidenziato, essa continua a vivere in un modo differente, al contempo raccogliendo i frutti di quanto fatto durante il giorno e seminando anche la sera. Non si possono che amare monumenti e chiese avvolti da una luce artistica che permettono di vederli con un altro vestito rispetto a quello che ammiriamo di essi durante il giorno. La città è magnifica quando si riveste di oscurità consapevole, cioè riesce a rivelare anche nel buio tutto ciò di cui ha ricchezza ed è capace. E ci permette di liberarci di quella concezione negativa dell’oscurità che spesso ci trasciniamo come compagna nella nostra anima. L’oscurità è invito a vivere, non può esserne astensione. Diversamente saremmo costretti ad ammettere che una buona parte della giornata sarebbe inutile, vacua perché accarezzata dal buio e non dalla luce. E noi non lo vogliamo ammettere perché, semplicemente, non lo riteniamo vero. E non riteniamo vero che una città non si “esprima” anche quando essa entra nel regno dell’indefinibilità con la comparsa sulla scena della nebbia e della neve. La nebbia porta il mistero, la voglia di scoprire cosa ci sia oltre, è qualcosa che impegna, non che ostacola. È quel muro non materico che ci invita costantemente a scavalcarlo per capire cosa vi sia dietro, e ci fa intendere che dietro si cela un mondo ricco di fascino. Lo stesso fa la neve che ci dà il senso di materna custode di un paesaggio ricoprendolo di un bianco che lo rende indefinibile ma desideroso di essere scoperto nuovamente. Come a dire, ecco, ora io vengo e proteggo con la mia coltre bianca la bellezza del paesaggio ma poi, quando mi farò da parte, te lo offrirò in una veste nuova tutta da esplorare. Ed è un approccio, quello alla città, che mette d’accordo l’immanenza con la trascendenza, i sensi con la ragione, il presente con il futuro, il già compiuto con quanto si deve ancora compiere. Questo volume non intende assolutamente essere una descrizione chiusa delle città che si è cercato di fare attraverso versi orfani di ogni pretesa di presuntuosa completezza. Vuole essere un invito a esplorare città che vanno sempre oltre loro stesse, che non scrivono mai la parola fine sul loro essere, che sono madri e figlie delle persone che le vivono.
Una città può essere caratterizzata dalla presenza di montagne o di mare. E ciò mette in evidenza due caratteristiche sia della città stessa, sia del modo in cui la si dovrebbe vivere. Con elevazione e profondità. La montagna è il simbolo dell’elevazione, quindi dell’osare sempre di più con riferimento ai mezzi a disposizione in quel momento e a quelli che una città riesce a creare ab ovo nel corso della sua evoluzione. Perché, nel momento in cui una città cresce, cresce non soltanto in termini di risorse di cui dispone, ma anche del loro utilizzo. L’elevazione è quindi, esattamente come quella dello scalatore montano, l’osare, il voler tendere sempre di più alla cima. Il mare rappresenta invece l’altro elemento, quello della profondità, il saper scavare fino in fondo, l’approfondire, l’analizzare tutto con cura. Chi governa una città, ma anche chi la vive, non può non disporre di ambedue gli elementi. L’Italia dispone sia della montagna sia del mare, quindi è nazione in possesso sia della capacità di elevazione sia di quella di profondità, per rimanere nella metafora. Se vogliamo, però, nel mare possiamo individuare anche un altro elemento, la sua vastità. E la vastità delle sue acque suggerisce un’idea di estensione del proprio essere a ciò che gli sta all’esterno e di fronte, non solo ai suoi simili ma anche alla natura, animata o inanimata che sia. Il mare dà allora, oltreché l’idea della profondità, quella dell’abbraccio. E questi due elementi sono incarnati in ciò che costituisce l’elemento primordiale di ogni forma di vita, come già suggeriva diversi secoli fa Talete di Mileto considerato il primo esponente del pensiero filosofico occidentale, cioè l’acqua. Elevazione per la montagna, vastità e profondità per il mare, ma, per chiudere il cerchio, vorremmo evidenziare un elemento che entrambe le accomuna, ovvero la stabilità. Montagna e mare ci sono sempre. Oltre gli uomini, oltre ogni altro fenomeno della natura. E ciò dà la garanzia di una storia che si sa protrarre verso l’infinito potendosi sviluppare perché ha elementi che rimangono uguali a loro stessi. Non ci può essere dinamismo di alcun genere senza poter contare su un fattore di stabilità che lo renda possibile. I figli possono nascere perché vi è l’elemento di stabilità dei genitori che ne consente il concepimento e la nascita. Sarà anche vero, come diceva Eraclito, altro presocratico insigne, che panta rei, ovvero tutto scorre. Ma la possibilità di scorrere è permessa dall’elemento della stabilità. Eraclito, poi, peraltro, lo aveva un po’ capito perché aveva individuato nel fuoco l’elemento del perenne divenire. Il fuoco cambia, certo, ma perché è stabile nella sua essenza, nel suo esserci, se non vi fosse ogni divenire sarebbe inconcepibile. La montagna, facciamo un passo indietro, non si configura però solo come elevazione, ma anche come solidità. Non confondiamo la stabilità con la solidità. La prima rimanda a un aspetto temporale, la seconda a uno strutturale. La montagna è tendenzialmente inscalfibile, fatta come è di roccia solida e compatta. E, in termini metaforici, per la città rappresenta l’idea di una saldezza di pensiero, di voglia di svilupparsi, di certezza dei riferimenti scelti per potere favorire tale sviluppo. Proviamo a compendiare. Montagna uguale elevazione e solidità, mare uguale profondità e vastità. E queste dimensioni si chiamano tutte le une con le altre, sono interconnesse. Proprio come una città è interconnessa all’altra. Vi è chi sta tra le montagne, chi invece dove sorge il mare. Ma montagna e mare, lungo la nostra penisola, si tendono la mano perché non possono fare l’una a meno dell’altro, e viceversa. Saper andare in profondità è consentire l’elevazione, sapersi elevare è riuscire ad andare in profondità. Più si esplora la vastità, più ci si solidifica come persone e comunità, e più si è solidi in questo senso e più si può andare in vastità con i pensieri, i progetti, i desideri. Se ciascuno di noi italiani, dunque, portasse in sé l’idea della montagna e del mare, potrebbe realmente avvertire (e poi applicare nel concreto) l’idea dell’utilità, della preziosità, siamo per affermare, dell’indispensabilità della sua presenza per il suo paese non solo in termini di presenza vera e propria, ovviamente, ma sul piano della propositività, della capacità di incidere significativamente e positivamente sulla dinamica del paese in cui risiede. In altri termini, montagna e mare non dobbiamo vederli soltanto di fronte e al di fuori di noi, ma respirarli e sentirli, portarli con noi in ogni momento. Essi sono, vorremmo dire, ambasciatori di freschezza. La freschezza solida della neve e quella liquida dell’acqua del mare. Una freschezza che ci consente proprio di pulire noi stessi da ogni presunzione di avere già visto, detto, fatto, vissuto tutto e ci pone costantemente, e positivamente, in tensione. Tra noi e la città nella quale viviamo si instaura quindi un rapporto di dare e avere che ha una valenza biunivoca. La città dà e noi le diamo, questo ci autorizza a ritenere che ognuno di noi sia la città e la città sia ognuno di noi. Quando giriamo per il mondo e per altre città, portiamo in una sorta di carta d’identità la nostra città. E questo ci dà la responsabilità, in primo luogo, di viverla in modo partecipe, attivo e intenso, e in secondo luogo di saperla testimoniare a dovere. A volte, magari, ci sentiamo rivolgere la domanda “ma come si vive nella tua città?”. Solo il non viverla davvero può portare a una risposta scheletricamente manichea come si vive bene o male. Della propria città si deve anzi essere testimoni nel modo più diffuso possibile. Sarebbe, in questo caso, opportuno che, nelle aule scolastiche di ogni città, si dedicasse almeno un’ora la settimana allo studio particolare della propria città, soffermandosi su di essa in modo particolare per esplorarla in ogni sua minima sfaccettatura. La cultura è la benvenuta, sempre e di qualunque genere. Ma in mezzo a essa non può certamente mancare la conoscenza della realtà in cui si vive, ci pare davvero riduttivo il vedere soltanto la realtà lontana da noi senza conoscere a fondo quella più vicina. Tanti di noi vanno a esplorare scenari e panorami esotici, il che, lo diciamo apertamente, va benissimo e non è per nulla disdicevole, anzi. Ma, se questo significa dare per scontato il conoscere la realtà in cui si vive quotidianamente e il disinteressarsi a essa vivendola avvolti nelle spire dell’abitudine e dello scontato, allora non ci siamo. A volte siamo protesi a guardare ciò che si estende magari a un centinaio di metri da noi e non osserviamo ciò che invece ci sta “provocando” sotto il naso. Questo non dovrebbe mai accadere. Anche nelle gite scolastiche, pensiamo, non sarebbe affatto disdicevole esplorare per una volta la città in cui si risiede. Perché, si veda, si è talmente indaffarati a dover svolgere di tutto nella quotidianità che il tempo per vivere autenticamente la propria città manca completamente. Gli studenti sui banchi di scuola, i lavoratori magari anche in realtà territorialmente lontane. Un giorno del fine settimana sarebbe bellissimo se ci svestissimo dei panni delle incombenze settimanali e andassimo a respirare per qualche ora la città nella quale viviamo. Non è un discorso né di città bella né di città brutta, chè città brutte, comprendendo anche le più piccole, non ne esistono. E tantomeno è un discorso di dimensione. È certamente piacevole che alcune persone si ritrovino al mercato settimanale, al bar del paese, nella pubblica piazza per parlarsi della vita. Ma raccontarsi la propria città, raccontare le sensazioni, i ricordi, i pensieri che essa suggerisce, è dare un aspetto di completezza fresca e appagante al proprio ritrovarsi. Ci siamo mai davvero domandati, quando ci rechiamo in un bar a consumare un caffè, quale sia la storia di quel bar? Se parlassimo magari per qualche istante con il titolare del bar potrebbero saltare fuori pagine di quella storia che mai avremmo potuto conoscere. E se ci fermassimo da un calzolaio senza il puro intento di farci mettere a posto le scarpe consunte ma gli chiedessimo come sia nata la sua attività, perché proprio in quel luogo? Le ricchezze vere, credeteci, non le troverete mai in un conto in banca ma parlando con le persone, con la storia che esse portano e di cui siamo ignari. Una storia che attendono molto spesso di donarci. Fermarci a parlare con un vigile, con il sacerdote del paese non è mai tempo perso, è recuperare ciò che siamo veramente. Certo, tutto ciò richiede che nella nostra vita sparisca quella dimensione che avvelena molti di noi e si chiama fretta. Tra i mille “devo fare” e “devo andare” che ci accade di pronunciare ogni giorno non può essere assente il dover andare a conoscere un po’ della propria città. Mettersi da soli in una stanza per qualche minuto, lasciare fuori i mille impegni, tracciare con la propria mente e il proprio cuore come era la città in cui vivevamo un tempo e quella in cui invece viviamo nel tempo presente, con il suo diverso assetto, non è certamente tempo perso. Abbiamo dato per implicito un concetto che ci pare però a questo punto di dover sottolineare in modo esplicito: la città non è affatto soltanto il grande personaggio. Sappiamo bene che, quando andiamo ad Asti, ci viene in mente Vittorio Alfieri, che quando andiamo a Lecco pensiamo al Manzoni, a Recanati al Leopardi e potremmo continuare all’infinito. Certo, sono eccellenze di cui il nostro paese deve, giustamente, andare fiero e portare per il mondo con orgoglio. Ma anche personaggi che non hanno trovato, né mai troveranno, posto all’interno dei libri di storia hanno fatto la città, l’hanno resa grande, ne hanno posto le premesse per lo sviluppo. Le tante persone che lavorano nell’ombra, quelle che hanno dato aiuto al prossimo senza mai magari neppure sentirsi dire grazie. Le lavandaie e le orlatrici, le sarte, i falegnami, i calzolai, tutto profuma di creazione della città. E tutto profuma della sua vitalità. Conoscere la città è conoscere noi stessi. Sembrerebbe di dover concludere proprio con l’affermazione “conosci la città in cui vivi e conoscerai te stesso”. In ciò che essa ti ha dato e che le hai dato. In ciò che ti darà e le darai. In un abbraccio poderoso in cui ambo le parti hanno sempre, largamente, da beneficiare. Non mi resta che accostare agli auguri di buona lettura i ringraziamenti a chi mi farà l’onore di prendere in mano questo volume. Che, se fosse riuscito a trasmettere l’amore che provo e intendo promuovere per questo paese, avrà raggiunto il suo scopo.