A tutti i fan di Freddie Mercury
CAPITOLO 1
Nella tarda serata del 24 novembre del 1991 una giovane coppia di inglesi con la loro figlia quindicenne sta rientrando a casa.
La strada statale che congiunge Firenze a Siena è completamente avvolta da una nebbia fittissima.
La famiglia deve recarsi a Greve in Chianti, cittadina situata nelle campagne fra le due province di Firenze e Siena, dove da dieci anni la coppia ha eletto residenza per dedicarsi all’attività di viticoltori.
Laureati entrambi in agraria e innamorati delle colline toscane, che avevano visitato durante la loro luna di miele in Italia, pochi anni dopo la nascita della loro figlia avevano deciso di lasciare l’Inghilterra e di stabilirsi fra quelle colline a coltivare la vite per produrre il vino.
***
Improvvisamente un grosso autocarro, proveniente dalla corsia opposta, sbanda, sfonda il guard-rail e invade la loro corsia di marcia.
L’auto con a bordo la famiglia inglese viene urtata in pieno.
Si forma un’enorme coda di auto.
Si sentono urla di paura ed il richiamo dei soccorsi.
Fra gli automobilisti coinvolti nell’incidente c‘è anche un sacerdote che, frenando bruscamente per evitare di tamponare l’auto che gli viaggiava davanti, ha sbattuto violentemente la testa sul volante della propria auto.
Nonostante ciò, il religioso scende dalla propria auto e sorreggendosi la testa con una mano si precipita correndo verso l’auto della famiglia inglese.
Quando arriva davanti all’auto stanno arrivando anche i soccorsi, ma il sacerdote tenta disperatamente di aprire per primo la portiera dell’auto, dove, fra le lamiere, sono intrappolate due persone.
Con un forte strattone riesce a farcela per constatare, immediatamente, che purtroppo per gli occupanti non c‘è più niente da fare.
Sono morti entrambi sul colpo durante l’urto violentissimo con il grosso camion.
Mentre alza gli occhi al cielo e fa il Segno della Croce sui due cadaveri, sente un flebile lamento.
Si sporge come meglio può all’interno dell’abitacolo e vede una ragazzina accovacciata sul tappetino dell’auto ed incastrata fra i sedili anteriori e quello posteriore dell’autovettura, o meglio di quello che ne è rimasto.
La fanciulla si chiama Rosemary Smith, ha quindici anni, è nata a Londra il 18 settembre 1976 e risiede a Greve in Chianti con i suoi genitori, Karl e Sarah Smith, due agrari proprietari dell’azienda vinicola The Heaven (Il Paradiso), morti sul colpo nell’incidente sulla Statale Firenze – Siena avvolta nella nebbia.
Le ferite riportate dalla ragazzina non sono gravi.
Trasportata immediatamente al Centro Traumatologico dell’Ospedale Careggi a Firenze, le vengono riscontrate molte contusioni ed una frattura al polso sinistro.
Ma la ragazza è sotto shock e subito i sanitari ritengono necessario somministrarle dei calmanti per farla dormire, con la speranza che, al suo risveglio, riesca ad affrontare meglio la tragica verità che l’aspetta.
Il sacerdote che l’ha accompagnata fino all’ospedale, salendo con lei sull’ambulanza, la sta osservando seduto accanto al suo lettino di ospedale.
La fanciulla è molto carina.
Ha capelli neri e lunghi, labbra carnose e la carnagione rosea.
Al sacerdote pare di ricordare di avere visto i suoi occhi quando l’ha soccorsa: se non ricorda male erano grigi, tendenti al celeste.
E poi era anche piuttosto alta per la sua età.
Insomma una fanciulla davvero bella.
Mentre la osserva dormire, il prete cerca di prepararsi un discorso giusto e consolante da poter dire alla ragazza quando dovrà comunicarle la triste realtà dei fatti.
Non ha intenzione di farle il solito discorso da prete, pregandola di affidarsi alla fede, che dovrebbe aiutare a superare ogni tragedia umana.
La ragazza ha perso i suoi genitori e potrebbe anche ribellarsi, non trovando la capacità di rassegnarsi cristianamente alla volontà divina.
Avrebbe dovuto parlarle da uomo, più che da prete.
Poi quando la ragazza avesse dato libero sfogo alla sua disperazione, avrebbe cercato di confortarla anche con la fede.
***
Quando Rosemary si sveglia viene colpita dalla presenza di un sacerdote che indossa una lunga tonaca nera e che, seduto su una seggiola accanto al suo letto, la guarda e le sorride.
La prima cosa che il suo cervello riesce ad elaborare è di domandarsi se sta per morire, prima ancora di capire perché si trova in ospedale.
Il sacerdote le prende la mano e si presenta, cercando di trovare le parole giuste per apparire alla ragazza più come un amico che come un prete.
Dopo averle detto che lui è padre Gianmarco Tonini, sacerdote della Chiesa della Santissima Annunziata di Firenze, cerca di spiegarle che lei si trova in ospedale perché è stata coinvolta in un brutto incidente d’auto insieme ai suoi genitori, che purtroppo nel violentissimo urto sono…
Ma non fa in tempo a terminare la frase che la ragazza di colpo si ricorda tutto e rammenta i corpi esanimi dei suoi genitori accasciati sui sedili anteriori della loro auto.
Urla al cielo la sua disperazione e la sua rabbia, piange tutte le sue lacrime mentre il sacerdote prega in silenzio che Dio misericordioso abbia pietà di questa sfortunata fanciulla.
Poi di colpo smette di piangere e pronuncia solo alcune parole in perfetto italiano: “Adesso sono sola al mondo.”
***
Karl e Sarah Smith si erano conosciuti a Londra ai tempi del college.
Karl Smith era un giovane e promettente studente in agraria, che si era stabilito a Londra agli inizi degli anni sessanta insieme ai suoi genitori.
Erano di origine irlandese.
I suoi genitori purtroppo erano morti pochi anni dopo la sua laurea.
Sarah Harvey Smith era londinese di nascita.
I suoi genitori avevano gestito un famoso ristorante nella zona di Piccadilly Circus fino all’età della pensione.
Successivamente si erano ritirati a Brighton, sul mare, dove erano deceduti alcuni anni prima.
Rosemary pertanto non aveva altri parenti prossimi.
L’unico parente di cui aveva memoria era un cugino della madre che abitava in Scozia.
L’aveva incontrato solo un paio di volte in vita sua e in occasione dei funerali dei suoi nonni materni.
Era un tipo noioso e sprezzante che per tutto il tempo non aveva fatto che ripetere: “Gli inglesi non producono vino.”
***
Durante la degenza in ospedale non passò un solo giorno che Rosemary non ricevesse la visita e il conforto di padre Gianmarco.
Il sacerdote si era preoccupato di fornire alla ragazza tutto ciò di cui aveva bisogno: dalla biancheria di ricambio al cibo.
Insisteva nel portarle delle pietanze appetitose, cucinate dalla sua perpetua Camilla, per convincere la ragazza a mangiare qualcosa, visto che rifiutava sempre il cibo dell’ospedale.
“Tu non sei sola.” diceva padre Gianmarco alla ragazza quando vedeva i suoi bellissimi occhi grigi velarsi di tristezza e riempirsi di lacrime “Se Dio ha voluto che mi trovassi su quella Statale a quell’ora precisa, sicuramente c‘è una ragione.”
Rosemary lo guardava incredula.
Sì, in effetti erano parole di grande conforto, pensava la ragazza, ma nello stesso tempo si chiedeva come avrebbe fatto, una volta uscita dall’ospedale, a vivere da sola in un casolare sperduto sulle colline fra viti e botti di vino.
***
La canonica attigua alla Chiesa della Santissima Annunziata, nel cuore di Firenze, occupava tutto il lato est della struttura, arrivando fino ai limiti dell’arcata medievale che segnava il confine fra piazza della Santissima Annunziata, dove la splendida chiesa offre la sua maestosa entrata, e via della Colonna, una via adiacente che conduce verso piazza della Signoria passando dai giardini di piazza d’Azeglio, una delle piazze più grandi di Firenze.
La cucina della canonica, in perfetto stile rustico fiorentino e recentemente restaurata grazie alla generosità dei parrocchiani, era ampia e luminosa.
Il pavimento in cotto toscano lucido e pulitissimo si addiceva perfettamente ai mobili in legno in stile Arte Povera che gli artigiani di Reggello, località situata sulle colline adiacenti a Firenze, avevano donato al sacerdote in occasione della celebrazione dei vent’anni del suo sacerdozio; la tavola, anch’essa in castagno rustico, era accompagnata da delle sedie di legno impagliate secondo l’antica tradizione dei cestinai e fiascai fiorentini che con la paglia umida sapevano fasciare e ricoprire le sedie creando dei disegni ad intreccio che erano autentici capolavori.
Le due finestre, che davano luce alla stanza, si affacciavano su un cortiletto retrostante la chiesa dove padre Gianmarco coltivava un orticello e dove era posizionata una grande uccelliera che ospitava cinque colombe bianchissime.
Ai vetri erano appese una coppia di graziose tendine in mussola gialla sulle quali Camilla, la perpetua, aveva ricamato il Giglio di Firenze, simbolo storico della Città dell’Arno.
Ci aveva impiegato un paio di mesi buoni per ricamarle, lamentandosi in continuazione che le sue mani non erano più quelle di una volta per via dell’artrosi e che i suoi occhi si stavano spegnendo ogni giorno di più come i moccoli delle candele; ma era riuscita a ricamarle davvero bene.
Quando Rosemary entrò per la prima volta in quella canonica si rese immediatamente conto che padre Gianmarco le aveva detto la verità: non era più sola al mondo.
***
Il giorno in cui Rosemary si diplomò al Liceo Classico Giacomo Leopardi, cinque anni dopo essere entrata a far parte della famiglia di padre Gianmarco, Camilla era andata dal parrucchiere e si era fatta tagliare i capelli.
Aveva scelto un parrucchiere del centro, uno di quelli di grido, e con fare deciso gli aveva ordinato di tagliarle i capelli alla moda e di farle la permanente, così che potessero rimanere soffici e vaporosi a lungo.
Era veramente un giorno speciale se Camilla aveva preso quella decisione.
Rosemary l’aveva presa spesso in giro facendole notare, affettuosamente, che se si fosse tagliata i capelli, eliminando così quella crocchia a forma di cipolla che portava raccolta sulla nuca, avrebbe assunto un aspetto più giovanile.
Del resto Camilla era ancora una bella donna malgrado i suoi sessant’anni suonati.
Era alta e dritta come un cero, aveva una corporatura robusta e forte e avrebbe potuto vantarsi tranquillamente di avere ancora i seni floridi perché era la verità; i suoi capelli erano di un bel grigio argento e il suo viso, dove spiccavano due grandi occhi neri, luminosi e furbi, era ancora fresco e colorito.
Quando Rosemary la stuzzicava, Camilla si lasciava andare ai suoi ricordi di gioventù e si riempiva di orgoglio ripensando con piacere a quando era una giovane ragazza ed i giovanotti, che si radunavano sul Ponte Vecchio a fare combriccola, si giravano tutti al suo passaggio.
Rosemary aveva avuto spesso la tentazione di chiederle perché non si era mai sposata e soprattutto com‘è che era finita a fare la perpetua a padre Eusebio, il parroco che aveva preceduto padre Gianmarco e che era morto di vecchiaia molti anni prima.
Ma non glielo aveva mai chiesto.
Se Camilla, ancorché una donna molto bella, non aveva preso marito, significava che aveva avuto i suoi motivi.
Insomma, con i capelli tagliati e acconciati, Camilla dimostrava dieci anni di meno.
Anche padre Gianmarco se ne era accorto e le aveva rivolto i suoi complimenti osservando che, da un po’ di tempo a quella parte, l’unico in casa che stava invecchiando ed imbruttendo era solo lui, a parte Celestino, il vecchio campanaro, sordo come le campane che aveva suonato per una vita, prima che le mettessero ad elettricità, e che attualmente più che a fare il campanaro e il sacrestano riusciva solo a togliere i moccoli ormai consunti dai candelabri votivi.
Ma il giorno della festa per il diploma di Rosemary era bellissimo anche lui: tutto ingiacchettato ed incravattato sembrava un milord.
E Camilla come si pavoneggiava fra tutte quelle tonache lunghe e nere che padre Gianmarco aveva invitato in canonica per mangiare un boccone e bere una goccetto alla salute della su’ bimba che si era diplomata a pieni voti!
Rosemary era euforica.
Voleva tanto bene a padre Gianmarco, il suo secondo padre, a Camilla ed al vecchio Celestino che, a volte, era davvero convinta che il buon Dio avesse voluto fare con lei uno scambio: mi prendo i tuoi genitori e ti do questa nuova famiglia.
Tutta la famiglia e gli invitati mangiarono a quattro palmenti le squisitezze che Camilla aveva cucinato con grande amore.
Si era sbizzarrita nei suoi piatti forti, tipici della tradizione della città: la ribollita, la trippa e per finire un bel dolce co’ pinoli.
***
Le vacanze più belle sono sempre quelle che arrivano dopo il diploma di maturità.
Forse sarà perché quando si hanno vent’anni si è convinti che tutto il mondo stia ai tuoi piedi e che tu possa godertelo fino in fondo, o forse più semplicemente perché, passata la faticata degli esami, si apprezza di più quel periodo di riposo.
Padre Gianmarco come regalo per il diploma aveva offerto a Rosemary un’opportunità grandiosa.
Se fosse voluta ritornare per un periodo di vacanza a Londra, la città dove era nata, sarebbe stato felicissimo di accompagnarla.
Ma Rosemary aveva declinato la gentile offerta.
Non gliene importava nulla di ritornare a Londra.
L’ultima volta che era andata a Londra l’aveva fatto con i suoi genitori, circa sei mesi prima dell’incidente, ed era convinta che rivedere quei luoghi le avrebbe apportato solamente tristezza.
E poi vuoi mettere quanto è più interessante andare a pescare con padre Gianmarco e Paola, la sua amica del cuore, a Bocca d’Arno, vicino a Pisa?
Con un po’ di fortuna, vi si può fare una pescata grandiosa con la quale Camilla avrebbe cucinato un’ottima frittura.
***
E dopo le vacanze l’Università: Rosemary non aveva alcun dubbio, si sarebbe iscritta alla Facoltà di Architettura.
Amava l’arte, era brava nel disegno, ed in quale altro posto del mondo avrebbe potuto trovarsi, se non a Firenze, per realizzare il suo sogno?
E pensare che Paola ce l’aveva messa tutta per convincerla ad iscriversi alla Facoltà di Giurisprudenza insieme con lei, ma Rosemary era stata irremovibile.
Non riusciva neppure ad immaginare alla sua vita passandola a lambiccarsi fra codici, leggi e regolamenti.
Decisamente il suo domani era fare l’architetto.
Ne era sicura.
D’altronde per Paola la scelta di diventare avvocato non si può dire che era stata obbligata, ma certo più che logica.
Paola Gori, fiorentina doc, era figlia di un noto avvocato di Firenze che aveva il suo studio davanti alla Chiesa di Santa Croce.
Anche suo nonno era stato un famoso avvocato.
Insomma, una tradizione di famiglia destinata a tramandarsi di generazione in generazione.
Ma la scelta di due diverse facoltà universitarie non avrebbe significato per le due ragazze non essere più amiche.
Paola era l’unica amica con la quale Rosemary si sentiva a suo agio, perché era stata l’unica che aveva capito che Rosemary era una ragazza che, appena ventenne, aveva già vissuto due vite distinte.
Paola sperava sempre che il destino riservasse anche una terza vita alla sua amica; una vita piena di amore come quella che stava vivendo attualmente ma che nello stesso tempo le consentisse di staccarsi da padre Gianmarco, Camilla e Celestino e dall’ambiente della Chiesa della Santissima Annunziata.
Che cosa avrebbe fatto, un domani, Rosemary quando anche queste tre persone le sarebbero venute a mancare?
E così Paola, che le voleva bene, si impegnava assiduamente perché Rosemary conoscesse altre persone, frequentasse anche altri ambienti.
Ma non riusciva mai troppo nel suo intento.
Rosemary usciva volentieri anche con altri amici; ma, alla fine, il suo punto di riferimento rimaneva comunque la bellissima Chiesa della Santissima Annunziata e le persone che abitavano nella sua canonica.
***
Quando Rosemary si laureò in Architettura padre Gianmarco si avvicinava alla sessantina, la buona Camilla li aveva superati da un pezzo ed il vecchio Celestino era sull’ottantina, e non riusciva più a togliere nemmeno i moccoli dai candelieri senza far colare la cera sul pavimento di marmo lucido della chiesa, perché gli tremavano le mani.
Ma il giorno che Rosemary discusse la tesi di laurea sembravano tre giovani genitori ansiosi.
Camilla aveva superato se stessa.
Aveva acquistato per l’occasione un magnifico tailleur in un negozio del centro, in via dei Calzaiuoli.
L’aveva pagato un occhio della testa perché era un abito firmato.
Era un Valentino originale.
Appena acquistato corse come un fulmine in camera sua e lo indossò.
Poi chiamò Rosemary per avere il suo parere.
Aveva avuto l’impressione che le commesse del negozio, due donne tutte rifatte dalla testa ai piedi, l’avessero convinta che l’abito le stava bene solo per farglielo acquistare.
Le sarebbe bastato vedere lo sguardo grigio-celeste di Rosemary per sapere se veramente aveva fatto un buon acquisto.
Rosemary la osservò attentamente seduta sul canapè in fondo al letto e i suoi occhi grigi prima si illuminarono e poi si riempirono di lacrime.
Camilla poteva dormire fra due guanciali: aveva speso, ma l’abito le stava a pennello.
Anche padre Gianmarco quel giorno decise di dare una rinfrescata al suo look sacerdotale.
Si tolse la tonaca nera e lunga ed indossò un completo da uomo grigio scuro.
Si sistemò il collare talare sopra la camicia e appuntò sul colletto della giacca la Croce di Cristo; anche lui era molto elegante.
E al vecchio Celestino avevano comprato anche un bel cappello di feltro blu che, unito al suo abito buono, quello della domenica, gli conferiva un’aria molto signorile.
Rosemary discusse una tesi che aveva il seguente titolo: “Studio architettonico e strutturale di un centro polivalente con attigue residenze per anziani, da edificarsi sulle colline del Chianti”, precisamente in Greve in Chianti, località Podere Il Paradiso, di sua proprietà.
CAPITOLO 2
L’uomo scese dal letto e si avvolse un asciugamano bianco intorno ai fianchi.
Si diresse verso la porta finestra che si affacciava sul viale del Poggio Imperiale.
Un autobus carico di turisti giapponesi passò proprio in quel momento procedendo lentamente per la salita che conduce anche al Collegio del Poggio Imperiale, ormai appartenente al patrimonio artistico della città, ma che in passato era stato uno dei collegi femminili più prestigiosi d’Italia.
Gran parte delle nobildonne italiane avevano ricevuto la propria educazione al Collegio del Poggio Imperiale e fra queste anche Maria Josè di Savoia, l’ultima Regina d’Italia.
Ma l’uomo che guardava fuori dalla finestra aveva acquistato la sua lussuosa dimora in quella via non per questo motivo.
Nella villa vicina alla sua abitava un famoso regista fiorentino, amante come lui di tutto ciò che può definirsi bello della vita e naturalmente anche dell’arte.
Aveva visto due opere teatrali che portavano la sua firma di regista qualche anno prima alla Scala di Milano: Romeo e Giulietta e Otello, entrambe scritte dal famoso drammaturgo inglese William Shakespeare; e non aveva potuto non rimanere estasiato dalla bravura del regista, che aveva saputo rappresentare l’amore, la passione, la gelosia, la vita e la morte come nessun altro aveva saputo fare.
E poi quell’anziano regista l’affascinava come uomo: aveva i capelli scuri ingentiliti da qualche filo argentato, gli occhi chiari e portava una curatissima barba che gli incorniciava il mento.
Sicuramente da giovane doveva essere stato un uomo molto seducente perché lo era anche da anziano.
“Credo che sia ora che ti alzi, che ti vesta e che tu esca dalla mia casa, mio caro!” esclamò l’uomo voltandosi verso il letto e osservando, con una nota di disappunto nello sguardo, l’amico che continuava a stropicciarsi voluttuosamente fra le sue lenzuola di seta.
“Per lo meno dimmi se ti è piaciuto” rispose l’altro con voce impastata “e se ci rivedremo ancora.”
“Sì, caro, mi è piaciuto, sei stato grande.” ammise laconicamente l’uomo mentre si accendeva una sigaretta “Ma adesso per favore vestiti e vai via.”
***
Frederick Curmery era nato il 5 settembre del 1964 a Londra.
Figlio di un diplomatico inglese, aveva trascorso tutta la sua gioventù nella capitale britannica risiedendo nel quartiere di Kensington.
Dopo essersi laureato in Architettura aveva viaggiato per molti anni visitando le principali capitali europee: Parigi, Vienna, Roma, Amsterdam, Madrid, ed in ognuna di esse aveva seguito uno dei tanti corsi di specializzazione che vantava il prestigio di annoverare sul suo curriculum.
Agli inizi degli anni ’90 era arrivato a Firenze per seguire un congresso il cui tema era: “Il restauro e la ristrutturazione delle cattedrali rinascimentali”.
Si era immediatamente distinto nel capoluogo toscano per il suo talento, per il suo perfezionismo e per una sorta di sesto senso verso tutto ciò che riguarda l’arte, la pittura, la scultura e l’antiquariato, che lo indirizzava verso le soluzioni più azzeccate.
La città inoltre l’aveva attratto fin dal primo momento in cui vi aveva messo piede.
Soprattutto era rimasto affascinato dall’atmosfera rinascimentale di Firenze, che permeava ogni angolo della città, dalle vie, alle piazze, ai vicoli; e poi era rimasto estasiato anche dallo stile architettonico più recente, quello degli anni trenta e quaranta, nel quale l’uso costante della pietra levigata rendeva incantevoli le facciate, i balconi e i cornicioni degli imponenti palazzi borghesi del centro.
E poi Firenze era ricca di negozi e di vetrine dove troneggiavano le creazioni dei più grandi stilisti italiani, ma anche delle piccole botteghe artigianali dei cappellai, dei guantai e degli orafi.
Il tutto, nell’insieme, conferiva a Firenze un’aria rilassante, quasi goliardica, e un uomo perspicace come Frederick capì subito che alle belle arti avrebbe potuto unire anche la bella vita.
Ed infatti iniziò subito a frequentare gli ambienti più esclusivi, sia quelli indicati per divertirsi in modo raffinato, sia quelli legati agli aspetti artistici della città.
Poco tempo dopo dal suo arrivo entrò anche a far parte del Consiglio di Amministrazione del Maggio Musicale Fiorentino.
Oltre ad essere un estimatore d’arte era, infatti, anche un grande appassionato di musica lirica.
E per suggellare un patto con la città, decise subito di acquistare una dimora lussuosa in una delle sue vie più eleganti, viale del Poggio Imperiale, e quindi di trovarsi un appartamento da affittare in pieno centro dove poter metter su uno studio di architettura e restauro come lo intendeva lui.
E visto che i soldi erano sempre stati l’ultimo problema della sua vita, trovò immediatamente la sistemazione che faceva al caso suo: uno splendido appartamento al terzo piano di un edificio in stile rinascimentale risalente al XVI secolo in via De’ Servi, a due passi da piazza della Signoria e da Santa Maria del Fiore, il duomo della Città di Firenze.
Nel frattempo si mise immediatamente all’opera per convincere il proprietario a venderglielo e, dopo esserci riuscito, trasformò l’ambiente più che in uno studio di designer in un vero e proprio gioiello, dove lui ed i suoi collaboratori potevano lavorare indisturbati, circondati da mobili e suppellettili che erano degli autentici tesori d’arte.
***
Frederick Curmery era gay.
O meglio, era bisessuale.
Gli piacevano sia le donne sia gli uomini e considerava questa particolarità della sua vita intima non una diversità, ma bensì un privilegio.
Riuscire ad amare e ad essere amati da entrambi i sessi non è certo una cosa da tutti.
Aveva collezionato una serie infinita di amanti, soprattutto negli anni londinesi.
Aveva finito quasi per innamorarsi di una donna, una volta, ma quando la fanciulla in questione gli aveva prospettato l’idea di sposarsi e di mettere su famiglia, si era sentito disgustato da tale proposta.
Non aveva mai avuto pregiudizi o particolari convincimenti sugli eventi della vita, ma di una cosa era sempre stato certo: sposarsi e avere figli erano sicuramente due concetti che non gli appartenevano.
E così, visto che sessualmente parlando non vedeva la differenza, aveva finito per frequentare soprattutto uomini; che, ammaliati dal suo modo di fare cortese e al tempo stesso rude, finivano nel suo letto senza neanche accorgersene e spesso si innamoravano di lui.
Quando lui si accorgeva che la faccenda stava diventando troppo seria, mollava subito l’amante di turno, si concedeva una pausa di riflessione, per poi portarsi a letto il prossimo che gli piaceva.
Ed era proprio quello che era successo la sera prima.
Non era uscito con l’intenzione di rimorchiare, ma quel tipo alto e biondo che aveva incontrato in quel locale non gli aveva staccato gli occhi di dosso per un solo attimo.
Il passo successivo era stato breve e soprattutto scontato.
***
Si guardò compiaciuto allo specchio lisciandosi i folti baffi neri che gli incorniciavano le labbra carnose.
Sorrise beffardo alla sua immagine e cominciò a radersi con cura; poi si pettinò i capelli neri e cortissimi, rimuginando fra sé che l’orgasmo avuto quella notte sul subito l’aveva stravolto dal piacere, ma quasi contemporaneamente gli aveva lasciato dentro un senso di profondo vuoto.
Gli era già successo un paio di volte, recentemente, di provare questa strana e arida sensazione dopo aver fatto sesso con un uomo.
Si chiese se stava invecchiando e poi, tagliando corto mentalmente, fece spallucce e si diresse verso l’armadio guardaroba, spalancandolo.
Ne tirò fuori un elegante vestito di vigogna color corda, una camicia di pura seta color crema, tutto rigorosamente firmato Armani, e scelse una cravatta fra le centinaia che aveva a disposizione: gialla oro con dei piccolissimi pois blu; agganciò la catenella del Rolex da taschino in oro bianco e platino alla cintura dei pantaloni.
Aprì l’anta dell’armadio destinata ai cappelli e prese un Borsalino color crema.
Poi scese al piano inferiore.
Si ricordò che, se voleva mettere qualcosa sotto i denti, avrebbe dovuto occuparsene personalmente.
Il giovedì era il giorno libero della sua governante: la vecchia e dolce Zaira.
Ed era per questo che, se gli andava, l’architetto sceglieva proprio la sera del mercoledì per portarsi a letto in casa sua i suoi amanti.
Una volta Zaira era arrivata per prendere servizio, alle otto di mattina, e l’amante di turno si era cincischiato per un’ora buona prima di decidersi a togliersi dalle scatole.
I due si erano incontrati nell’ingresso principale: l’amante che scendeva dalla camera da letto, Zaira che saliva per iniziare a fare le pulizie.
La donna si era fatta il Segno della Croce, come se avesse incontrato Satana in persona.
Frederick aveva assistito alla scena guardando in basso appoggiato alla ringhiera del ballatoio delle scale e ridacchiando maliziosamente.
Quando finalmente l’amante era uscito, era scoppiato in una fragorosa risata; Zaira aveva alzato gli occhi, sbirciandolo di traverso perché anche quella mattina l’asciugamano che si era avvolto ai fianchi era appena sufficiente per tappargli le vergogne.
Anche se ormai aveva imparato a non farci più molto caso, ogni volta che Zaira vedeva il suo padrone gironzolare seminudo per la casa provava un po’ di imbarazzo; e dire che avrebbe potuto essere tranquillamente suo figlio.
Ma Zaira, benché anziana, non era rincoglionita e sapeva ancora distinguere bene il bello dal brutto.
Frederick era un bell’uomo.
Non era altissimo, forse sul metro e settantacinque circa, ma aveva il fisico di un ballerino: spalle ampie, vita stretta, muscoli guizzanti ed un torace armonioso e senza un filo di grasso in più, coperto da una fitta peluria nera e lucente.
Lui, quella volta, aveva continuato a ridere gioiosamente per poi esclamare: “Bella la mia Zaira!”
Ed infatti era proprio bella la sua Zaira ed anche molto buona.
Frederick le voleva molto bene.
Senza quella donna, che si prendeva cura di lui, si sarebbe sentito perso.
E poi Zaira era vedova e non aveva nessun’altra occupazione che prendersi cura del suo padrone.
Ma l’incidente di quella mattina non avrebbe dovuto ripetersi mai più.
Frederick si era reso conto che Zaira era rimasta turbata dalla vista di quel tipo, che scendeva dalla sua camera da letto con ancora gli occhi languidi dal piacere, e non voleva assolutamente che la sua governante si sentisse a disagio in casa sua.
Così, per ovviare, quando voleva portarsi a letto qualcuno lo faceva il mercoledì sera.
***
Scese in cucina, aprì la credenza e prese la confezione del suo tè inglese preferito: l’Earl Grey.
Ne teneva sempre una considerevole scorta che acquistava quando si recava a Londra per visitare i suoi anziani genitori.
Sull’argomento tè Frederick non ammetteva repliche.
Il miglior tè del mondo è quello inglese, e l’Earl Grey era senz’altro il migliore.
Sapeva che si poteva tranquillamente trovare in commercio anche a Firenze, ma lui non era certo il tipo che andava a farsi la spesa nei supermercati, e Zaira, d’altro lato, non lo sapeva riconoscere e tanto meno sapeva pronunciare il nome della marca in inglese.
Mentre sorseggiava la sua tazza di tè iniziò ad organizzarsi mentalmente in vista dell’appuntamento al quale avrebbe dovuto recarsi quella mattina.
L’Amministrazione Comunale e la Sovrintendenza ai Beni Culturali gli avevano affidato l’incarico di ristrutturare e restaurare l’altare maggiore ed il presbiterio della Chiesa della Santissima Annunziata, che da tempo si erano danneggiati a causa di alcuni cedimenti del terreno sottostante.
L’appuntamento con il sacerdote, certo padre Gianmarco Tonini, gli era stato fissato per le undici.
***
Quando padre Gianmarco, la sera a cena, aveva annunciato alla famiglia che, il giorno dopo, il famoso architetto inglese, ormai fiorentino d’adozione, Mr. Frederick Curmery, sarebbe arrivato alla chiesa per analizzare i lavori di restauro della navata centrale, era raggiante.
Gli ci erano voluti due anni per riuscire ad ottenere il finanziamento occorrente da parte degli organi competenti.
Aveva salito e sceso le scale di Palazzo Vecchio, la sede del Municipio Fiorentino, almeno un migliaio di volte.
Aveva parlato con tutti gli Assessori del Comune, con i tecnici e con tutti coloro che avrebbero potuto aiutarlo.
E finalmente il grande giorno era arrivato.
Camilla, mentre serviva il minestrone di verdura, lo ascoltava senza controbattere, ma dal suo sguardo si poteva chiaramente intuire che avrebbe preferito avere un vecchio maniscalco fra i piedi piuttosto che quel famoso architetto.
L’aveva visto una sola volta nel quartiere di San Frediano, dove era nata.
Era andata a trovare la sua vecchia amica Assunta e lui stava dando istruzioni agli operai che stavano ristrutturando un antico palazzo dall’altra parte della strada.
L’aveva sentito blaterare come un matto in un italiano quasi perfetto, caratterizzato impercettibilmente dall’accento inglese, e aveva notato che gesticolava nervosamente con le mani e che batteva anche i piedi per terra quando voleva che gli altri facessero come voleva lui.
Per il resto era un bell’uomo.
Anche Camilla se ne era accorta.
Ma c’era un ma.
La sua amica Assunta le aveva confidato che un suo nipote le aveva a sua volta riferito che, anche se nessuno se ne era mai accorto, quell’uomo era… Insomma, era un finocchio, sputò fuori la vecchia Assunta, che non riusciva a farsi venire in mente quella parola inglese che andava di moda oggi e con la quale si definivano quelli lì, cioè i finocchi.
Camilla, che era più giovane di un anno di Assunta e per questo sicuramente più emancipata, era subito accorsa in suo aiuto facendole notare che non si dice finocchi ma che la parola giusta è: gay.
Assunta l’aveva guardata di traverso: o finocchio o gay, la sostanza è sempre la stessa.
E chi vuol capir, capisca, aveva pensato.
[continua]