Per “mio fratello” Andrea…
Capitolo Uno
Pochi giorni a Natale
Filippo
La nostra casa non è molto grande, eppure siamo riusciti ad improntare una tavola che, se tutto va bene, accoglierà diciannove persone. La lunga apparecchiata sarà un insieme tra il nostro tavolo di due metri e dieci, con ai lati destro e sinistro una prolunga che mi ha fatto mio suocero con cavalletti di legno e assi sopra. D’altronde era l’unico modo per stare tutti seduti. Il Natale non lo festeggiamo da lunghi anni; la troviamo, mia moglie ed io, una festa per bimbi felici. Mentre noi, che la felicità la rincorriamo senza riuscire ad agguantarla, ecco che non facciamo nemmeno il presepe, né l’albero. O meglio: non facevamo.
Oggi è diverso, diciamo che con la scusa del Natale si fanno a volte tante cose che non si avrebbe voglia di iniziare, come sta capitando a noi oggi. Vi immaginate? Abbiamo preso un ulteriore giorno di ferie prima delle festività natalizie per spostare tutti i mobili, abbiamo stivato la parete con le librerie, la credenza, il divano e il mobile della zona notte. Ora sembra un immenso salone con al centro la tavola. Ed è così che deve essere: accoglienza pura.
Quante liti negli ultimi anni, troppe. Dopo l’ultima volta in seguito alla quale non ci siamo parlati per cinque lunghi giorni ci siamo giurati di non andare a dormire mai più nessuna notte senza aver prima fatto pace. Il motivo di discussione è sempre il medesimo: arrivano le mestruazioni e il sogno di avere un figlio o mille figli, sfuma.
“È colpa tua!!”
“No carino, credo sia colpa tua!”
È tutto quanto per anni ci siamo detti senza muovere mai le labbra, così, con gli occhi e i musi lunghi che ci hanno avvelenato dentro. È una tristezza sorda che ti attanaglia, ti prende da dietro e ti immobilizza, come se avessimo avuto le manette. Ci siamo inerpicati in percorsi in salita, innevati, al sole, arsi, in tutte le stagioni. Erano percorsi di crescita spirituale, evolutiva, riconoscimento del sé, insomma siamo molto preparati, ora finalmente sappiamo che desideriamo un figlio più di qualunque altra cosa. Ah!
Anna
Penso sia grazie a nuove ricerche interiori che siamo riusciti, anzi, che mio marito Filippo è riuscito, ad organizzare questo pranzo di Natale. Praticamente in pochi mesi la nostra vita si è capovolta: da coniugi con pochi parenti a famiglia allargata. Allargata al punto che non ho neppure un’idea. Sì lo so, mancano ancora due giorni, ma noi siamo già proiettati verso domani l’altro, sento già l’odore del brodo di cappone, il pasticcio al forno di tortellini è quasi pronto, e di dolce preparerò la «torta tenerina», nostra specialità. Dovremo pure, no? dico io, fare qualcosa di classico della zona in cui viviamo noi, perché mi sembra un po’ di dover organizzare un pranzo con tutti i colori del mondo, nel senso che non c‘è uno che viva nella stessa zona dell’altro, incredibile eh?! E quindi era difficile cercare di accontentare un po’ tutti; così accontento Filippo, che adora il mascarpone che faccio io.
Ieri sera non abbiamo neppure cenato, sì, un pacchetto di crackers con una sottiletta arrampicati sul lavabo della cucina, alle undici di sera, mentre Filippo mi raccontava dell’ultima mail, dove Agata aveva detto di sì, anche lei sarebbe venuta al «pranzo di gala di Babbo Natale»!
Viviamo qui in centro da quasi dieci anni. Nel nostro palazzo un tempo neanche troppo lontano, vi aveva sede il palazzo di giustizia della corte di Ferrara. La facciata vista da fuori, bianca rifinita in gesso, la abbiamo praticamente pagata noi condomini, e siccome questa è zona di centro storico il comune ha pensato bene di non farci versare l’ICI perché abbiamo contribuito al mantenimento della città, non è una cosa magnifica?
Comunque, dicevo, per lasciare ai posteri il fremito dolce-amaro di tanti fratelli-non-fratelli eppure fratelli veri come qualunque fratello-fratello, sono alcune settimane che teniamo tutto scritto. Mail che arrivano, SMS inviati o ricevuti, lettere, tutto.
Tanto a battere su questi tasti del computer sono velocissima.
Ho imparato quando ero una ragazzina usando la macchina da scrivere elettrica che mi regalò mi padre: compii appena quindici anni. Mi ricordo che la stessa estate in cui la ricevetti in regalo, i miei mi iscrissero ad un corso di dattilografia: era ideato dalla Olivetti, ed era a suon di musica. In pratica, con musiche di sottofondo tipo la «Nona» di Beethowen, o «La cavalcata delle Valchirie» di Wagner, dapprima lente poi sempre più veloci, si imparavano le posizioni dei tasti sulla macchina da scrivere. Venivano fornite, al corso, tante etichette colorate da mettere sulle lettere in modo che divenissero tutte anonime, per impararne la disposizione mentalmente, in seguito negli esercizi. Morale: come tutto ciò che si impara in tenera età rimane talmente impresso che diventa quasi un cavallo di battaglia! In questi soli due giorni che ci restano prima del grande incontro vorremmo fare ancora tante cose, troppe, e qualcuna slitterà. Vorremmo raccogliere tutto in un opuscolo con, oltre a tutta la corrispondenza, anche le foto, pezzi di stoffa di abiti del tempo, biglietti del circo a cui andarono i fratelli nelle più disparate città d’Europa, le fotocopie dei biglietti aerei quando ancora prendere un aereo era un lusso per pochi. Vorrei intitolarlo qualcosa come «l’Imperfetto».
A lui è dedicato il pranzo di Natale di questo anno, che sarà indimenticabile nel tempo dei tempi.
Di mio suocero, che chiamerò appunto «l’Imperfetto» e che ha vissuto molte vite, abbiamo già ricevuto il regalo di Natale: il pacco lo apriremo giovedì tutti insieme.
Dopo nemmeno un anno che stavamo insieme, Filippo mi parlò per la prima volta, profondamente, di suo padre. Andò via di casa che lui aveva otto anni, una notte, dopo averlo baciato sulla fronte e rimboccate le coperte.
Mio marito non si accorse di quanto si affannava nel raccontarmi che non lo aveva più visto. Né si rese conto di come gli sudavano mani e piedi mentre parlava di lui chiedendosi se fosse ancora in vita. Mi disse, con la gola stretta in una morsa, che preferiva non sapere nulla, niente di niente. E per diversi anni non ne facemmo più parola.
Poi, un giorno assolato di questa estate, abbiamo conosciuta Isabella, una terapeuta che si occupa di costellazioni famigliari. Penso si possa definire una nuova terapia di gruppo, e pur non avendone capito fino in fondo il senso, partecipammo ad una seduta. Quando è stato il suo turno, Filippo ha dovuto scegliere alcune persone, tra le componenti il gruppo di persone disposte in cerchio, che impersonassero: se stesso, sua madre, suo padre. A questo punto, la terapeuta gli ha chiesto: “Hai fratelli? Sorelle? Nel caso, cerca tra queste persone chi li potrebbe rappresentare”. Ma mio marito è rimasto zitto e la terapeuta lo ha sollecitato nuovamente nella scelta degli altri componenti la sua famiglia.
Filippo, dopo un attimo di smarrimento, con le lacrime agli occhi ha detto: “Non lo so quanti fratelli ho, non so nemmeno più se voglio saperlo, forse non voglio più nulla…”. E grossi lacrimoni bagnavano il pavimento, ad ogni goccia che cadeva per terra mi sembrava che tutta la terra ruggisse, come quando ero piccola e sentii il terremoto muovere i miei piedi nudi, sul pavimento della mia camera da letto di allora. Filippo, lo sguardo rivolto verso le sue stesse lacrime che giacevano a terra, si puliva con il dorso della mano, e tirava su con il naso, deglutendo. Isabella, in piedi di fianco a lui, disse a bassa voce: “Siamo qui per accorgerci, per amare la nostra vita e, se il destino lo consente, per andare incontro, con pace, al nostro cuore. Quindi adesso cerchi una persona che rappresenti te stesso e ti siedi dove eri seduto prima, in modo che tu possa osservare la scena «da fuori», e vediamo cosa accade”. Tutti, almeno penso, eravamo con un nodo in gola che non andava né giù verso il respiro, né su sotto forma di lacrime. Eravamo immobili, respiri lievi e tutti tesi, seduti ma non appoggiati agli schienali. La scena che stava impersonando la sua famiglia, prese a muoversi: «sua madre» aveva reclinato il capo e lì è rimasta per tutta la rappresentazione, senza animo; «suo padre» si guardava intorno come a cercare qualcuno, senza trovarlo.
Chi cercava costui, e non trovava?
Intanto Isabella, poggiando le sue mani sulla schiena di questo uomo come per volerlo sostenere gli chiese, piano: “Chi è che non trovi?”
Dopo un momento che può essere durato mezzo minuto o dieci minuti, non saprei quantificarlo, si è messo a singhiozzare. Era colmo di dolore, le sue spalle sussultavano al punto che pareva un aborigeno che danza a ritmo di un tamburo.
“Mi hanno portato via mio figlio, lo vorrei tanto riavere con me”.
Il dolore era così tangibile che adesso tutte le persone che formavano il cerchio, e certamente anche Filippo ed io, stavamo piangendo. Chi in scioltezza, chi facendo finta di tapparsi il naso, chi di pulirsi gli occhi.
Poi finalmente la terapeuta è riuscita a mettere fine a questa immensa diffusa tristezza, prendendo un ragazzo minuto dal cerchio, e porgendoglielo dinnanzi ha provato a consolarlo dicendogli: “Ecco, questo è il figlio che vorresti abbracciare, ora ascoltalo”. Poi rivolta al ragazzo appena subentrato nella rappresentazione e che poteva sembrare proprio un bimbo, gli ha chiesto di pronunciare insieme a lei:
“Mio caro padre
sono contento che tu mi abbia avuto
tu sei il padre migliore che potesse capitarmi
ed ora che ci siamo incontrati
potremo unirci in un abbraccio che durerà per sempre”.
L’uomo che era «il padre» ha stretto a sé questo ragazzo davvero come se accogliesse il più prezioso di tutti i ragazzi della terra; hanno pianto entrambi in un abbraccio che la terapeuta ha poco dopo interrotto, risoluta e dolce al tempo stesso, dicendo: «Bene, tutti a posto, a sedere in cerchio; non parleremo più di questa rappresentazione perché la coscienza, da sola, metterà a posto tutto quello che il destino acconsente. Vi voglio però leggere questa poesia, di Konrad Ferdinand Meyer, che scrisse:
“La fontana romana”
«Un getto d’acqua s’innalza,
e cadendo riempie una conca di marmo
velata dal suo tracimare
in una seconda conca più in basso.
La seconda riversa la sua ricchezza
in una terza conca
e ognuna prende e dà,
è immobile e vive»
Vedete, il profondo significato di quello che è appena accaduto, così come le parole di questa poesia, stanno nel fatto che i genitori traggono una profonda soddisfazione quando sanno, nel loro cuore, di essere accettati dai figli; quando si sentono dire che sono il genitore migliore che potesse loro capitare.
E i figli, allo stesso modo, si sentono in pace quando accettano i loro genitori così come sono».
Non ne parlammo nemmeno noi due di quello che successe quella domenica pomeriggio a Nonantola, alle costellazioni famigliari. Eppure sono certa che né io né Filippo abbiamo compreso da subito quel tipo d’insegnamento, il «messaggio». Eravamo andati alla seduta per «trovare» qualcosa che lo aiutasse a ritrovare suo padre o a comprenderne il suo allontanamento, mentre tutto ciò che accadde fu il «vedere», in quella messa in scena, che il «padre» di Filippo stava aspettando di abbracciare un figlio. Chi? O meglio, cosa significava interiormente, per noi e per la nostra vita di marito e moglie che non possono avere figli, tutto questo? Forse nulla, e non era quello il senso, ma come sempre, ogni volta che si fa qualcosa, qualsiasi cosa, con uno scopo, tutto l’effetto di ciò che accade è vanificato dall’aspettativa.
Dopo quel tipo di terapia litigammo altre volte, verso le nostre solitudini, ma forse meno adirati. Non provavo più soddisfazione nel rinfacciare qualcosa a Filippo; lo vedevo sotto una luce diversa, come se sia io che lui avessimo bisogno l’uno dell’altra proprio per non cadere nei pozzi dell’ignoto, negli abissi del dispiacere di tutto quanto accadeva.
O non accadeva.
Lui riprese così a suonare in una band rock locale, ed io mi misi ad andare con lui alle prove. Anche in casa, mentre lui riprendeva confidenza con le tastiere, io cantavo: cantavamo stonati e felici canzoni vecchie e nuove.
E magari è stato anche per quello, per la nostra voglia di fare da quel momento in poi sempre le cose assieme, che una sera ha trovato quelle lettere.
Dopo esser stato a trovare sua madre, è tornato febbricitante: più per l’accaduto che per l’aver preso freddo come invece mi ha detto lui. Per questo decidemmo di iniziare la nostra, la SUA, ricerca del padre: era giunta l’ora.