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In copertina: composizione digitale di “Something is in the way” di Ingo Zadravec
a pag. 28: “Something is in the way” di Ingo Zadravec
a pag. 67 “Man running with candles from rays of darkness” di Ingo Zadravec
Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’opera è segnalata nel concorso letterario J. Prévert 2009
PREFAZIONE
Il romanzo “Il male antico” di Daniela Servidati sembra possedere un sentore di maledizione, emanare un quid di oscuro ed impenetrabile. D’altronde la sua narrazione dimostra che nel cammino della sofferenza ci si impregna della sua essenza satanica e, nella dimensione del dolore, non si giunge al cielo ma all’inferno. La sofferenza separa, allontana dalla sostanza stessa della vita, conduce alla vertigine immane.
Di sicuro, Daniela Servidati offre una prova della sua capacità narrativa e riesce ad alimentare, con costante ispirazione, il dipanarsi di una storia tremendamente “maudit” e segnata da un alone di follia. L’intera storia viene riportata dalla voce narrante di Annibale, il custode del cimitero del paese di Lombroso, teatro della vicenda, luogo avvolto dal torpore e dove tutto scorre sempre nello stesso modo.
A quel tempo, Annibale lavorava come giardiniere nella villa di Fausto De Monte e, all’improvviso, come fosse l’inevitabile segno del destino, era arrivato a Lombroso, un pittore dal nome Saturno, capelli lunghi e barba incolta, occhi grigi e, sul viso, i segni di una vita sofferta e difficile: nessuno sapeva da dove venisse quell’uomo misterioso, non aveva nessun amico e mai nessuno si recava a fargli visita. Raramente andava vicino al fiume a dipingere ma, di solito, passeggiava di notte per le strade e si fermava in qualche bar. Un uomo impenetrabile che “amava sopra ogni altra cosa non parlare di sé”: gli esseri umani che hanno molto da dimenticare sono coloro che hanno molto sofferto. L’idea era confermata.
Nel tranquillo paese viveva anche Fausto De Monte. Anche lui era un pittore e, nell’atelier della sua lussuosa villa, era solito dare ricevimenti con persone altolocate o dedicarsi alla vita mondana senza dimenticare di “vendere i suoi quadri”. Era un uomo determinato, freddo ed indifferente, capace solo di amare se stesso e non lasciava spazio ai sentimenti: con quel suo sorriso sornione, gli piaceva farsi chiamare “artista” e, sopra ogni altra cosa, “farsi invidiare”.
Un giorno di maggio, durante l’esposizione che Fausto De Monte aveva organizzato per vendere “a suo modo” la collezione delle ultime opere, casualmente, i due pittori si erano incontrati.
La figura di Saturno iniziava a penetrare nella vita di Fausto De Monte e la prima avvisaglia era il fatto che Sofia, la figlia adottiva, ragazzina bella e triste, s’era invaghita di Saturno, in una relazione folle ed irreale. Le ulteriori conseguenze sarebbero state ancor più imprevedibili.
Da quel momento, tutto era cambiato. Fausto De Monte sembrava vittima d’una malattia sconosciuta, di una oscura ossessione d’un uomo torturato dall’interno, quasi a consumarsi lentamente. E, poi, ancor più, quando aveva visto i quadri che dipingeva Saturno, autentica esplosione di colori e forme, pervasi da una passione travolgente e capaci di emanare una forza selvaggia, opere che andavano dritte al cuore: lui, al contrario, non possedeva la genialità d’artista.
Eppure anche Saturno era un uomo che doveva fare i conti con un “male antico” insediato nell’anima e gli “sguardi feroci” e ossessivi di tutte le figure delle donne che dipingeva erano sempre gli stessi: riconducevano, inesorabilmente, sempre ad una lacerante condizione esistenziale, incarnavano il simbolo d’un vivere tremendo che divorava l’anima e segnava l’intero cammino d’un uomo.
Daniela Servidati affascina con una scrittura vibrante ed efficace, è magistrale nella narrazione che segue ritmi incalzanti e lascia con il fiato sospeso sempre in attesa d’una nuova rivelazione, d’un ennesimo evento che possa fare luce dove pare esista solo l’oscurità impenetrabile. Con una paradossale esasperazione, Daniela Servidati riesce a dare sostanza a ciò che è “invisibile”, a rendere palpabile l’idea che alcune persone “siano destinate a portarsi dentro un male oscuro”: un “sottile antico male” che inizia lentamente e poi sprigiona tutta la sua potenza demoniaca fino a corrodere, a divorare ogni spiraglio di ragione, fino a condurre alla follia. A volte, l’arte diventa l’unica via per la salvazione e, “dipingere”, diventa l’estremo tentativo, l’ultima possibilità concessa per “non affogare nel tormento straziante e dilaniante”.
Daniela Servidati rende viva e pulsante la drammatica dicotomia tra i due artisti, da un lato Saturno, artista “solitario e indefinibile”, ma pervaso da una genialità che esprime una lacerante esistenza e, dall’altro lato, Fausto De Monte, con i suoi “quadri dipinti bene” ma senza anima: la presa d’atto della devastante verità fa franare la vita di un uomo che vuole definirsi “artista”, il demone dell’invidia divora la mente ed il corpo, fino a condurlo ad un lento sprofondamento nella sua rovina.
La peculiarità di Daniela Servidati è l’attenzione estrema ad una scrittura che indaga nel profondo dell’essere umano, che scandaglia il tormento interiore, le contraddizioni, le fragilità e la dannazione.
Le sue parole riescono a penetrare con un bisturi psicologico nelle zone più segrete dei protagonisti di questo romanzo e inchiodano alla resa dei conti con le ambiguità, la genialità e i paradossi dell’umana natura.
Massimo Barile
Il male antico
Capitolo 1
Sono passati tanti anni. Ventitré per essere precisi. Questo è un paese tranquillo, un posto dove non succede mai niente. Forse è per questo che ancora si parla di qualcosa che accadde nel gennaio del 1985. Sembra incredibile ma quelli che c’erano come c’ero io ne discutono ancora come se fosse successo l’altro ieri. Gli altri, quelli che se lo sono sentiti raccontare, conoscono la storia anche loro a memoria, come se ci fossero stati. Il bar del Grigio non c’è più, adesso lo gestisce una famiglia che l’ha tutto rimodernato, ci ha messo il televisore al plasma per le partite e il lotto. Però quei quattro o cinque superstiti della vecchia generazione come me ci vanno ancora tutti i pomeriggi a farsi un bianchino; così, quando i commenti sulle partite sono esauriti e quei soliti quattro o cinque sono seduti al tavolo a giocare a carte salta fuori una volta sì e una no la storia dei due pittori. Io me ne sono sempre stato in silenzio quando tutti alzavano la voce per dire la propria; quello che pensavo io preferivo tenermelo per me. Non mi sembrava che la gente potesse capire il mio punto di vista. Ho avuto l’impressione per tutta la vita che il mio punto di vista fosse sempre troppo lontano da quello degli altri.
Io faccio il custode al cimitero. Da trent’anni. Prima ero giardiniere. Ogni giorno passo davanti alla tomba del pittore per un saluto, tolgo le erbacce e le cambio il cero. Nessuno se ne è mai preso cura sin dal gennaio del 1985. La lapide è stata spezzata a metà da qualche vandalo, balordo o chissà; il terreno si è ingobbito sopra il tumulo in modo che tutto pare un po’ obliquo, pendente. La fotografia è così appannata e ingiallita che si indovinavano a malapena le fattezze dell’uomo ritratto ma il nome è ancora bello nitido. La crepa lo sfregia solo un po’ proprio dove finisce la lettera U. Gli porto qualche fiore fresco un paio di volte a settimana, qualche volta lo prendo in prestito da una delle altre tombe; spero che nessuno se la prenda troppo a male per questo. Dicevano tutti che era diventato matto. Io allargavo le braccia e sospiravo; come facevo a spiegare loro che quella che chiamavano follia era molto più vicino a loro di quanto credessero? Non potevo, così stavo zitto e mi facevo gli affari miei. Oggi è l’anniversario, il 21 gennaio 2008. Anche se è trascorso molto tempo questo giorno mi ha lasciato un vago senso di inquietudine e malinconia. Mi ritorna tutto in mente così nitido, come se continuasse a succedere, come se non fosse un evento morto nel passato ma un continuo divenire, una memoria che esiste senza tempo. Come se fosse qualcosa di più che il semplice ricordo di un testimone.
Capitolo 2
Quando Saturno arrivò qui in paese la sua presenza fece molto clamore. Era un tipo strano, uno che non assomigliava a nessuno degli abitanti di un paese tranquillo dove non succedeva mai niente. Capelli lunghi, barba incolta e un’aria da cane randagio. Da dove provenisse nessuno lo sapeva. Lui ne faceva un gran mistero. Diceva: “Fra Giove e Nettuno.” Si sapeva solo che aveva viaggiato molto senza mai fermarsi a lungo nello stesso luogo e che era un pittore. Si diceva che avesse avuto molte amanti, che la sua fama di attaccabrighe gli aveva procurato molti nemici e che c’era qualcosa di poco pulito nel suo passato. Ciò era quello che si vociferava, per lo più illazioni, supposizioni della gente che, essendo completamente all’oscuro da informazioni, aveva cucito un’immagine torbida addosso al pittore misterioso.
Saturno aveva all’incirca quarant’anni quando venne ad abitare qui a Lombroso. I suoi occhi grigi vagavano intorno con una curiosità particolare, non erano mai fermi, sembrava incapace di concentrarsi, tutto gli scorreva dentro per poi fuggire immediatamente lontano, chissà dove. Il suo viso abbronzato portava i segni di una vita difficile che aveva il sapore della solitudine, di passioni violente e grandi turbamenti.
Viveva in un cascinale appena fuori dal paese, collegato da una via sterrata alla strada provinciale. Abitava al secondo piano, in un appartamento dalle piccole persiane verdi. L’intonaco della casa era quasi completamente scrostato, sotto di lui c’erano le vecchie stalle, ormai vuote. Viveva con due gatti, uno nero ed uno rosso. Dato che Saturno non aveva amici nessuno bussava mai alla sua porta. C’erano solo poche occasioni per incontrarlo; quando usciva e andava a sedersi al fiume per dipingere o quando rincasava al mattino presto dopo una notte passata in giro o a bere in qualche bar. Gli piaceva passeggiare la notte per le strade in solitudine, fumando. Io ho sempre sofferto d’insonnia quindi lo vedevo quasi ogni notte, seduto al buio sulla panchina di legno fuori nel mio giardino. Una volta Saturno se ne accorse e si fermò. Vedevo la sua sigaretta brillare nella notte e la sua figura illuminata dalla luce gialla del lampione. Accennò un saluto con la mano e io feci lo stesso e mi sembrò naturale non dire nulla. Ogni notte ci salutavamo in silenzio; era un’amicizia muta in cui mi immagino capissimo uno dell’altro più di quanto mille parole avrebbero potuto spiegare.
Non si sapeva come si guadagnasse da vivere perché non esponeva mai i suoi quadri né li vendeva. La gente era insospettita da tutta questa segretezza. In un piccolo paese come questo dove tutti sanno vita morte e miracoli di chiunque, la gente è convinta di avere il diritto di conoscere il suo prossimo e se non ci riesce, se vede nebbia ha paura. Chi si nasconde ha qualche scheletro di troppo nell’armadio. Questo dicevano di lui. Saturno non ebbe mai amici, era troppo strano e forse era proprio per questo che aveva scelto di stare a Lombroso. Un luogo che sembrava lontano da tutto il resto. Saturno voleva essere lasciato in pace e sapeva bene che non c’era miglior modo che apparire sinistro agli occhi della gente per essere lasciato solo.
Saturno amava sopra ogni cosa non parlare di sé.
Capitolo 3
Lombroso è un paese di periferia come tanti, con poche centinaia di abitanti, incastrato fra le campagne, avvolto dalle brume d’inverno e sommerso dalle onde d’afa d’estate; un posto dove si parla della città come fosse un altro continente. Qui ci viene a vivere chi ci scappa dalla città, chi cerca l’aria buona e la vita tranquilla. Un’isola di quiete, questa è Lombroso, abbastanza confortevole perché chi ci nasce difficilmente se ne allontana.
Fausto De Monte ci era nato qui e ci aveva trascorso l’intera vita, qui si era sposato e con sua moglie Alba aveva adottato una figlia; loro di figli non erano riusciti ad averne. Anche De Monte era un pittore. Un genere di pittore molto diverso da Saturno però, molto più mondano. Viveva in una grande villa bianca, circondata da un giardino curato e da un cancello molto alto. Casa sua era frequentata da quella gente che i paesani chiamavano “i sciùr”, i ricchi; il sindaco, il dentista, l’antiquario, l’avvocato e le rispettive consorti e quell’imprenditore che aveva le aziende a Milano. Io facevo il giardiniere per lui in quegli anni. De Monte era un uomo con lo sguardo fermo, il sorriso sornione, un uomo molto controllato e fiero, animato da una grande determinazione. Aveva circa quarantacinque anni, si vestiva con eleganza, guidava un’auto sportiva, giocava a golf. Gli piaceva farsi invidiare, farsi chiamare l’artista. Qualche volta si fermava con me in giardino a controllare le sue piante, mentre potavo una siepe o piantavo le verdure nell’orto, così capitava di scambiare qualche battuta con lui. Parlavamo di politica, di sport. Di arte mai. Non sapeva nemmeno che io me ne intendevo un po’, che ero un appassionato. Mi piaceva lasciare che la gente mi vedesse come mi vedeva; il giardiniere gentile, quello di poche parole.
De Monte si era sposato giovane, un po’ come tutti a quei tempi ma aveva già un discreto successo allora. Proveniva da una famiglia molto benestante. Aveva studiato all’accademia delle belle arti con maestri di tutto rispetto, nomi con la maiuscola. Nel suo studio facevano bella mostra di sé i suoi diplomi, i riconoscimenti, i premi vinti, le fotografie e gli articoli di giornale in cui compariva al fianco di questo o quel gran signore. Al piano superiore della villa si era fatto costruire un atelier di quasi cento metri quadri, la stanza del re. In quello si ritirava anche per giornate intere completamente solo e in silenzio. Non amava il rumore, non gli piaceva nemmeno la musica quando doveva lavorare. De Monte era altrettanto taciturno in casa propria quanto era socievole e ciarliero in compagnia. Nella sua villa si tenevano ricevimenti quasi ogni settimana e di solito era anche un’ottima occasione per piazzare sul mercato dei suoi amici acquirenti le nuove tele appena dipinte.
Io ho lavorato nella sua villa per parecchi anni, quando ci penso mi prende ancora una certa nostalgia. Adesso quella casa è stata venduta a un gioielliere, ma tutti continuano a chiamarla villa De Monte, o “la villa del massacro.”
Capitolo 4
Tutto cominciò un giorno di maggio. C’era un bel sole acceso fuori, avevo piantato le rose e i boccioli freschi occhieggiavano lungo il perimetro del giardino. De Monte aveva organizzato un’esposizione delle sue tele nel salone della villa e mi aveva chiesto di aiutare come cameriere. Gli invitati arrivavano sulle loro auto costose, bevevano spumante e chiacchieravano della crisi economica, delle imprese della Ferrari e delle imminenti vacanze estive.
Nel sottofondo uno swing accompagnava lo spumante nelle gole e le chiacchiere nell’aria. Io mi occupavo di servire tartine e stuzzichini con il vestito della domenica, come si diceva ai miei tempi, e osservavo la gente. De Monte si aggiustava il fazzoletto intorno al collo e si mostrava loquace, allegro. La signora Alba, sua moglie cercava tenacemente di evitare la compagnia invece; si affaccendava con frenesia fra la cucina e la sala con il pretesto di darmi una mano nonostante le mie preghiere di non preoccuparsene. Non era a suo agio in quelle circostanze mondane; il suo viso magro si tendeva sul collo sottile, si muoveva irrequieta, tormentandosi i capelli, l’abito, la collana; sorrideva nervosamente agli invitati, poi si scusava, si infilava in cucina di soppiatto e finiva per abbandonarsi su una sedia, esausta. In un angolo appartato Sofia, la loro figlia di sedici anni era intenta a sondare le profondità del soffitto, la fronte insofferente, le braccia insolentemente incrociate sul petto.
Le tele della nuova collezione circondavano gli invitati, ammiccavano con occhio di tempera e labbra di acrilico al miglior corteggiatore. Fausto De Monte accompagnava i suoi invitati teneramente per il gomito, in direzione di questo o di quel lavoro e ne descriveva i toni e la composizione con il suo tiepido timbro nasale; “Questa è una tela molto speciale, capisci la ricerca del colore perfetto, della combinazione, dell’armonia…”
Poi tornava a sviare la conversazione per guidare il suo interlocutore nella direzione che desiderava “A proposito mio caro, ti devo mostrare il mio ultimo dipinto che si accoppia d’incanto con quello che hai già nel tuo studio…” “I miei quadri sono finiti quando il mio pubblico li apprezza” l’ho sentito più volte proclamare davanti all’ammirazione dei suo acquirenti. Ammetto di non essere mai stato un ammiratore dell’arte di De Monte. Le sue erano delle belle composizioni, eseguite con perizia tecnica e stile ma troppo delicate per i miei gusti. Io sono un romantico, mi piace quando un quadro mi rapisce e mi sconvolge, quando il soggetto mi turba, mi prende a pugni. Mi piacciono quei quadri che la maggior parte della gente non appenderebbe mai ai muri della propria casa. De Monte dipingeva la bellezza e lo faceva bene, quello che gli mancava era la disperazione, quella che fa i capolavori dei grandi maestri di ogni tempo.
Gli affari andavano molto bene ad ogni modo e quel giorno era riuscito a vendere quasi tutte le opere della sua ultima collezione.
La porta d’ingresso era aperta sul giardino, l’aria di maggio precocemente calda e tinta di arancio nell’ora del tramonto entrava a disegnare luce sul pavimento di marmo.
Fu allora che fece il suo ingresso un uomo che non figurava nella lista degli invitati. Un tizio dalla lunga barba nera. De Monte si accorse del nuovo venuto e si irrigidì impercettibilmente. Osservavo l’intruso gironzolare fra le tele con quell’aria indecifrabile appesa sul volto scuro. Anche Alba lo vide e, sfuggendo agile alle moine della moglie del sindaco, lo avvicinò con un bicchiere di spumante. Gli disse qualcosa e lui rispose in un modo galante con un mezzo inchino che la fece arrossire.
“Posso permettermi di offrirle un bicchiere?” gli proponeva la signora Alba.
“Non si rifiuta mai una cortesia.” Aveva risposto Saturno, garbato come era solo con le donne.
La signora Alba allora aveva guardato in direzione di suo marito che li stava osservando ed era arrossita.
“Se è interessato a qualcuno dei quadri posso presentarle mio marito.” Si era affrettata ad avanzare, per levarsi l’imbarazzo. E Saturno aveva lanciato il guanto della sfida, più con noncuranza che intenzione: “Mi perdoni Signora ma l’unica opera d’arte che vedo in questa stanza siete voi. Dunque temo sarebbe inappropriato informare suo marito.” Lo vidi prenderle la mano e baciargliela, poi di nuovo con un lieve inchino congedarsi prima che Fausto potesse raggiungerli per le presentazioni. Quando mi affacciai all’esterno del giardino Saturno era scomparso oltre gli alberi del viale d’ingresso. Il sole ormai liquefatto oltre la linea dell’orizzonte.
[continua]
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