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Io… lui… il grande uomo dei sogni…
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Danilo Valeri - Io… lui… il grande uomo dei sogni…
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
15x21 - pp. 200 - Euro 13,00
ISBN 978-88-6587-3977
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In copertina: fotografia dell’autore
Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’opera è finalista nel concorso letterario Jacques Prévert 2013
Prefazione
Danilo Valeri racconta, con onestà e fedeltà narrativa, la storia della sua vita che rappresenta un travaglio interiore con il quale ha dovuto fare i conti e, ancor più, la sua lotta contro la malattia nervosa che ha “voluto” sconfiggere.
Il diario esistenziale risulterà un po’ crudo perché l’autore non ha voluto eliminare le verità dure, terribili e difficili da digerire: tutto ciò che leggerete è stato vissuto sulla sua pelle, tutto ciò che viene raccontato è stato superato con coraggio e tenacia, facendo appello alla voglia di vivere, anzi, alla voglia di “tornare a vivere dopo il viaggio all’inferno”.
Credo sia stato difficile ricordare il percorso, sofferto e devastante, che lo ha condotto a distruggere i sentimenti, annientare le persone che erano vicine a lui e a “divorare” anche se stesso in quel mondo contaminato dal disturbo ossessivo compulsivo, dalle finzioni, dagli errori e dalle violenze.
Lo pseudonimo con il quale chiama la sua malattia è “Andreas”, il “lato sbagliato”, e parlare della malattia in terza persona diventa un modo per esorcizzarla.
I ricordi partono dal periodo dell’infanzia quando rammenta di essere stato un “bambino buono, dolce e pauroso”, finché la malattia non lo porta, dopo aver subito alcune angherie ed esser stato “vittima” in alcuni momenti di quel periodo esistenziale, a diventare, durante l’adolescenza, una sorta di “carnefice”, a combattere con “cattiveria” e veder insinuare, dentro se stesso, la volontà di dominare sugli altri: il male inizia così a prendere possesso della sua mente e del suo corpo con disturbi ansiosi, depressione ed “intolleranza al mondo esterno” e, poi, all’epoca del ginnasio, la volontà di esercitare il controllo su se stesso e su tutto ciò che lo circonda, conducendo ad un lento ed inesorabile naufragio nel suo egoismo.
Di sicuro è convinto di avere un forte ego, una “supremazia intellettiva”, un “carisma”, una “statura da leader indiscusso” e tutto ciò diventa un armamentario pesante da portare sulle spalle.
Ben presto si avvererà ciò che non avrebbe mai immaginato di vivere: comportamenti violenti, terapie farmacologiche, psicofarmaci, alcol, assunzione di cocaina, la capacità di assecondare le compulsioni con lucida follia, giungendo all’acatisia, l’irrequietezza motoria, che diventerà un incubo devastante nella mente e nel corpo.
Il percorso costellato di sofferenze ed amarezze, simbolicamente un personale calvario, non gli impedirà di conseguire la laurea specialistica e, grazie all’aiuto psicologico del professor Battista Cassano, della clinica San Rossore di Pisa, vedrà avverarsi quello che lui definisce un “miracolo”, e troverà un forte sostegno capace di “farlo uscire dall’inferno” e da una “vita sbagliata” che poteva condurre solo all’autodistruzione.
Danilo Valeri si racconta e si mette a nudo, senza reticenze o false maschere, riportando il suo viaggio che diventa un “ritorno” dal baratro del disturbo ossessivo compulsivo: la sua onesta testimonianza è una sorta di indicazione da seguire per raggiungere l’agognata via salvifica.
L’incontro con Sara, bella ragazza tunisina, che diventerà sua moglie, è il sigillo che chiude lo scrigno esistenziale con l’ultima amara considerazione: “Il mondo giudica solo ciò che gli fa comodo giudicare”.
La trasformazione è sempre un’avventura dolorosa ma, alla fine, luminoso sarà il nuovo sguardo.
Massimiliano Del Duca
Io… lui… il grande uomo dei sogni…
“In principio era la fine.
E mi consolo qui sulla mia sedia con un sorriso;
e ridendo sento nella notte delle coltellate al mio eterno cuore malato
Perché l’alfa e l’omega sono sì l’inizio e la fine ma dello stesso alfabeto…
Così nei miei sorrisi di una vita strappata all’inferno e resa dolce dal perdono da me stesso concessomi, ricordo ancora ognuna di quelle lettere dell’alfabeto che ho attraversato per trovarmi ora dove sono…
Io credo in Dio più di quanto creda nella luce, eppure ci furono tempi in cui la violenza dominava il mio mondo, la follia lo sopprimeva.
Alla fine non andrò da Lui perché nella mia strada non c’è perdono, ma sono felice perché Lui ora è qui, e mi regala una seconda possibilità in un mondo che, forse,… potrà essere ancora il mio parco giochi
Così, come in principio ora alla fine.”
Premessa
Credo che decidere la maniera più appropriata per cominciare un libro in fondo non esista neanche.
Forse può esistere per una biografia o per quel qualcosa di simile come ciò che mi sto accingendo a scrivere: biografia, perché io non negherò mai in alcun punto del mio libro le verità più scomode riguardanti la mia vita. E le verità nella mia esistenza, tutte o quasi tutte, sono scomode. Né modificherò mai particolari, perché questo non è il mio libro o un libro per mostrarmi al mondo come qualcuno che ha compiuto un miracolo. Perché io un prodigio non sono se non di voglia di lottare. Ma questo è il libro di chi lo legge, di chi scorrendo queste parole, alla luce della vastità dei problemi che devastarono la mia vita, possa trarre spunto da un qualsiasi accadimento, da un singolo gesto o da un puro e semplice atteggiamento per superare un momento difficile, un carattere ribelle o una vera e propria malattia mentale. Forse il mio unico regalo ad un mondo che quel vorace mostro del mio ego ha troppo spesso scambiato per un paradiso privato, divorando persone, sentimenti ed alla fine, come spesso capita, anche me stesso. E sul fatto che non mentirò o ometterò, per quanto io stesso lo desideri, alcun ricordo, sensazione, dolore, rilevante della mia vita, non posso fare altro che dare la mia parola. Ma in un mondo dove la imperante regina menzogna ha spazzato via ogni parvenza di sincerità, nel quale io stesso costruii la mia vita basandomi sulla subdola arte del fingere con tutto e con tutti, oso sperare che vi sia ancora qualcuno in grado di accontentarsi anche solo di questa semplice offerta. Purtroppo non ho di più da dare e ne sono sinceramente spiacente. Credo tuttavia che nessuno meglio di me sia in grado di fornire testimonianze su sensazioni, dolori, disperazione, rabbia, odio che macera dentro. Io non cerco scusanti e non ne merito, ma di una cosa sono certo: ero solo un bambino ed un bambino buono, prima che una malattia nervosa mi portasse per strade che mai avrei immaginato di dover percorrere.
Un giorno come tanti
«Cazzo, stasera fa un freddo infernale!» dissi tra me e me uscendo di casa all’incirca alle 24:00. Pensai che i pantaloni Richmond che mi stavano così tanto bene probabilmente a causa del fatto che erano stracciati artatamente sotto i glutei fossero veramente irresistibili, ma francamente a novembre non risultavano essere proprio il massimo. D’altronde era un prezzo che pagavo volentieri al mio narcisismo e al fatto di dovermi cambiare ogni volta che rientravo a casa per poi riuscire furtivamente più tardi a dispetto del mio fidanzamento capitato forse troppo presto. Per fortuna potevo contare su genitori che mi coprivano con la mia ragazza perché, come ripetevo spesso con il mio miglior amico, «la notte a Roma è sempre molto lunga!» Montai senza troppi pensieri sulla mia Spider nuova di zecca full optionals, gentile regalo dei miei per il ventiquattresimo compleanno; guardai nel portafoglio, avevo circa seicento euro, ma la cifra era irrilevante: per “Il diavolo biondo” la notte era quasi sempre foriera più di regali che di pagamenti!
Prima… seconda… terza… in un attimo imboccai il Raccordo Anulare… e via la sesta…! Ah che sensazione strepitosa! Finalmente solo… la notte che mi avvolgeva… ma soprattutto un’altra notte giusta: donne, droghe e con un pizzico di fortuna anche un po’ di violenza e di situazioni complicate di quelle che piacevano tanto a me.
Arrivai in meno di cinque minuti sotto casa del mio migliore amico che come sempre mi aspettava davanti al solito bar, lo guardai un attimo e pensai “magari sarà un cazzo di codardo, ma è decisamente bello, quasi quanto me e procura sempre roba buona e tante ragazze e per questo in fondo gli voglio anche bene a quel gran figlio di puttana!”
Accostai davanti a lui, lasciai le sicure allo sportello e per lo slancio, nel tentativo di aprirlo, Diego quasi andò a urtare contro la portiera, allora abbassai il finestrino e, con occhio languido, gli mormorai: «Ciao bella quanto prendi?» Lui si incazzò veramente: «Meno di quello che mi ha preso tua madre ieri sera!» mi latrò seccamente. Sbottai a ridere e mi decisi ad aprirgli lo sportello: «Spero solo che tu muoia presto!» esclamò lui. Non lo presi seriamente in considerazione ma gli tirai un cazzotto allo stomaco e mentre lui ancora si contorceva io continuai a ridere. Aspettai che si fosse ripreso. «Una sigaretta cazzo!» esclamò mentre cercava ancora di riassumere la posizione eretta. Gliela diedi. Se l’era proprio guadagnata!
«Qual è il menù della notte: solito irish village ad aspettare qualche alcolizzata e matinée a seguire?»
Si accese con calma la sigaretta ed aspirò col fare di colui che la sa lunga e poi esplose: «Dovresti baciare dove cammino cazzone! Ieri notte quando mi hai mollato a quella festa sono finito a letto con una e guarda caso… la sua amica, che per inciso è una gran fica, ti aveva notato, così stasera abbiamo un appuntamento a Campo dei Fiori.»
Lo guardai con un sorriso. «Sapper Club e poi a casa tua…?» Lui ghignò: «…se ci dice culo…!»
«E quando mai non ci dice culo a noi?!» Lui si rigirò lanciandomi un sguardo gelido. «Da quando esco con te come minimo finisco a fare a botte… quindi direi mai!»
«Sei solo un ricchione del cazzo, però sei un grande… ma la roba ce l’abbiamo?»
«Certo!»
«Ma queste pippano…?»
«Non lo so e non me ne frega un cazzo… tu vedi solo di non farmi finire in centrale anche stasera!! Ormai ci conosce mezza Roma e quindi vedi di non litigare pure con i pali della luce o io me ne torno in taxi.»
Gli avrei dato volentieri un altro cazzotto, ma non era proprio il caso visto che provvedeva sempre lui ad organizzare tutto.
«Con tutte le volte che ci hanno sequestrato la macchina stavolta non sarebbe certamente né la prima né l’ultima. E poi ce la ridanno sempre dopo un paio d’ore!»
Fece un cenno di disprezzo. «Solo perché gli facciamo pena non certo perché ci pensi tu!!»
Non resistetti più alla voglia di provocarlo.
«Senti: tuo padre sarà pure imballato di soldi ma tu sei solo un macellaio arricchito!»
Non disse nulla. D’altronde probabilmente odiava molto più lui suo padre di qualsiasi altra persona al mondo e poi in definitiva tra noi insultarci era nella prassi, nulla più che un gioco.
Arrivammo a Campo dei Fiori che era appena mezzanotte e mezza. L’appuntamento era in un bar chiamato la Cuccagna che faceva angolo a piazza Navona. Mi consigliò di non bere troppo prima di vederle perché come avveniva ogni volta che uscivo con lui finiva che riuscivo a cacciarlo nei guai. Loro dovevano raggiungerci all’una, orario per il quale io ero già completamente ubriaco d’assenzio e gli stavo chiedendo una “botta di cocaina” per riprendermi. Botta che lui inevitabilmente mi negò e difatti, come aveva preventivato conoscendomi fin troppo bene successe che io cominciai con delle lamentele sommesse. Lui non era di certo un tipo che “rispettavo” come intendo io ma in fondo in qualche modo gli volevo bene e non mi andava quasi mai di litigare pesantemente con lui. Purtroppo, però, dopo un poco, di fronte al suo ostinato diniego e al mio totalmente offuscato modo di vedere il suo ingiustificato ostruzionismo, cominciai ad alzare i toni, cosa che non lo scosse minimamente, perché sapeva perfettamente che non avrei mai alzato le mani su di lui per nessun motivo. Allora io cominciai a urlare finché il buttafuori del locale non mi cominciò a fissare in modo sospettoso. Rigirarmi e urlare «E tu che cazzo ti guardi stronzo» fu un tutt’uno anche se la sua mole aggiunta allo stato in cui io mi trovavo non deponevano di certo a mio favore. Essere grande e muscoloso oltre che con le donne gli dava anche altri vantaggi specifici. Così il mio amico si buttò in mezzo e disse al buttafuori: «No, è tutto a posto usciamo subito!», poi mi prese per un braccio e mi sussurrò: «Va bene prenditi questa merda e pippatela dove vuoi, ma lontano da me… ora le aspettiamo fuori e questa è l’ultima che mi fai per stasera!»
Eravamo di nuovo al freddo e proprio mentre lui mi stava per passare la roba il mio occhio cadde su due ragazze, una mora, alta con un corpo perfetto e gli occhi verdi, l’altra molto simile ma un po’ più bassa e con un seno molto più grande, Bellissime entrambe! Senza considerare più il mio amico mi precipitai verso di loro. Ma proprio mentre mi stavo presentando il mio amico mi ricomparve come un razzo da dietro e esclamò: «Andreas, ma che intuito…! Stavo giusto per presentarti la mia amica Francesca e la sua amica Chiara!» e sottolineava molto il nome Chiara cercando di farmi capire che era quella destinata a me.
“Cazzo, proprio la seconda – pensai – è quella che mi piace di più! Stasera va alla grande!”. Fu così che accantonai l’idea della coca, almeno per quel momento.
Dopo dei brevissimi convenevoli cominciammo a incamminarci verso il Supper Club, uno dei locali per cocktail più “in” di Roma che da dove eravamo distava pochi passi. Loro camminavano davanti a noi a pochi metri di distanza e vidi la mia che si sporgeva verso l’altra e le diceva qualcosa che la fece ridacchiare.
Diego mi sussurrò: «La sgualdrina è calda!» ed io ne risi.
Ad un tratto, proprio mentre eravamo a piazza Navona loro interruppero il loro passeggiare e voltandosi verso noi domandarono con fare allusivo:
«Ci sediamo un attimo su una panchina?»
Non mi andava affatto ma dissi comunque «ok».
Ci sedemmo che eravamo già praticamente accoppiati. Loro non sembrarono affatto né sprovvedute né titubanti. Una delle due estrasse da una borsetta quello che all’apparenza sembrava nient’altro che un mattoncino marrone incellofanato. Pensai: “No cazzo, no… anche le canne no, è roba da negri!”
Francesca ci chiese: «Fumate no?!» come se avesse dato la cosa per scontata. Volevo morire. Le cose “da negri” proprio no! La guardai titubante e per un attimo ebbi la netta sensazione che lei pensasse di avere di fronte un puritano e cominciai a riflettere su cosa non si farebbe per una bella ragazza.
«Certo! Ma ti pare!»
Aspettammo che lei rollasse una canna di proporzioni enormi con delle cartine lunghe. Fumammo. Al terzo tiro già mi girava la testa non so se maggiormente per lo schifo del sapore o per i pregiudizi razziali, anche se francamente propendo decisamente più per la seconda ipotesi. Non ne potevo veramente più di quella sceneggiata misto “rasta-extracomunitari”! Era giunto il mio momento di alludere.
«Serata perfetta… se solo ci fosse dell’altro!»
A quelle parole vidi il mio amico, che a parte i pregiudizi razziali condivideva con me l’odio per le canne, scattare come una molla e guardarmi come per dire “o te ne uscivi tu o me ne uscivo io!”
Fu la ragazza che quella sera mi era stata assegnata dalla fortuna la sola a parlare.
«Qualcosa tipo…?!»
A volte come avrò modo di dire anche in seguito il male riconosce il male, non servono le parole, non serve altro che uno sguardo o una tonalità leggermente diversa. In breve, lei aveva capito che io l’avevo e io avevo capito che lei ne faceva uso.
Adesso l’unica cosa che restava da fare era decidere se andare su diretto o girarci intorno. Valutai. La situazione mi sembrava pronta, in fondo con le droghe avevano cominciato loro ed io non avrei fatto altro che alzare il tiro.
«Beh ora dopo esserci rilassati… dai… non ditemi che una bella botta di cocaina non ci starebbe bene» e mi misi a ridere.
L’altra ragazza insorse: «No, no io uso solo fumo!»
Per un attimo temetti di essermi sbagliato; ma la mia mi venne dietro.
«Beh male non ci starebbe affatto… ma dove la prendiamo?»
Feci cenno al mio amico che me ne passò circa sei o sette grammi (è molto!) con una tranquillità che a mio avviso non fece altro che eccitarla ulteriormente.
«Può bastare feci io?!» Lei sorrise. Si era molto eccitata.
La presi per mano, mi alzai e lei mi chiese: «Dove andiamo?»
«Beh, forse ora dovremo cambiare programma non trovi?!» Sorrise… era fatta!
Chiesi a Diego le chiavi della sua villa e mentre me le faceva scivolare tra le mani aggiunse: «Piano di sopra, idromassaggio e doccia ma “sgonfiala” a quella troia: è veramente bella!» Sorrisi.
«…e tu divertiti a farti le canne…!»
«Io ti raggiungo dopo, coglione!… Se vai via prima perché sei impotente allora lascia la solita finestra aperta.» E non aggiunse altro.
Andammo a passi rapidi verso la mia macchina e francamente non credo che la nostra irrequietezza fosse limitata alla sola disponibilità della droga quanto ad un’alchimia fisica che era scattata fra di noi. Sì, insomma… volevamo fare sesso.
Arrivammo.
«Vedo che ti tratti bene» mi disse indicando la mia due posti.
«E non hai ancora visto il meglio!» stavolta fu il mio turno di sorridere. Entrammo in macchina. Ormai la “preda” era acquisita, anche se per un breve lasso di tempo mi domandai quale di noi due fosse realmente la preda e chi il cacciatore. Risolsi tale dilemma pensando che probabilmente eravamo un po’ entrambi tutte e due le cose e se era così andava più che bene.
A questo punto non avevo più fretta e una volta entrati in macchina mi godevo l’attesa di un’altra bella serata con un’altra bella ragazza e cominciai a parlare del più e del meno, tanto perché l’attesa della situazione futura la rendesse più eccitata. Erano circa cinque minuti che chiacchieravamo di cose che ritengo sinceramente per noi in quel momento fossero del tutto superflue quando fu lei a sorprendermi.
«Ora basta!» fu l’ultima parola che pronunciò prima di “saltarmi letteralmente addosso” e cominciare a baciarmi. Ero abbastanza avvezzo a situazioni come quella ma stavolta era diverso. Le sue labbra, erano morbidissime e il suo collo lungo sinuoso e di un colore chiaro dorato incantevole, il suo profumo non faceva altro che rendere la situazione paradossalmente splendida.
La baciai a lungo e francamente ad un certo punto il mio impulso sessuale salì a un tale livello che mi dimenticai della coca, volevo solo portarla a casa, lei aveva cominciato a sbottonarmi i pantaloni e anche il resto dei nostri vestiti erano ormai in un caotico disordine passionale. La fermai perché non volevo che accadesse lì, era troppo bella, meritava la villa. Accesi il motore 3200 benzina, volammo fino di fronte casa che non era più tardi dell’una. Continuammo a baciarci e a toccarci anche durante il tragitto fra la macchina e la casa, non riuscivamo a staccarci tanto che aprire la porta fu quasi un’impresa. La portai immediatamente al piano di sopra, dritto nella camera da letto dei genitori di Diego che non usavano mai quella villa, specchi ovunque, letto a due piazze e mezzo, scaffali enormi e decorati in stile Luigi XIV, bagno con Jacuzzi e doccia con bagno turco a immissione. Pensavo che quel porco del padre del mio amico doveva essersene portate più di me di amanti in quel posto, altrimenti perché farsi una casa così per tenerla perennemente vuota! Era un’assurdità.
Lei guardò tutto attentamente, dall’atrio arredato con quadri di valore al piano terra alle meravigliose scale a chiocciola in mogano mirabilmente ricavate in una nicchia alla destra dell’entrata al primo piano. Finché entrando nella stanza e nel bagno che lasciavamo sempre con cura aperto perché fosse immediatamente notabile non sgranò letteralmente gli occhi. Almeno in questo era uguale alle altre. Dentro me pensai: “cara mia sarai bella e dolce quanto ti pare ma i soldi comprano tutto, soprattutto gli occhi, se poi li ha un ragazzo bello e simpatico sei fottuta.”
Così fece la solita domanda indicando il bagno: «Ma quella è una Jacuzzi?»
«Sì, se vuoi vedere il bagno prego principessa sarò lieto di essere il tuo Cicerone!» dissi io scimmiottando un triste Caronte. «Tuttavia ti suggerirei di dare un occhiata maggiore al letto!» Risi, risi io, rise Andreas (la mia malattia fatta nome). Lei non rise, adesso la faccenda cominciava a farsi veramente complicata. “Ma dove cazzo mi aveva trovato?!” cominciò a pensare. Sentivo chiaramente che la sua mente macinava, non ero più un corpo pescato, non era “caccia”, la preda che aveva preso era un po’ troppo grossa forse, o almeno forse sufficientemente grossa da farla esitare un attimo per valutare la scelta giusta da prendere.
Io li sento i pensieri, sono nato ricco e istruito, la mia mente assorbe nozioni universitarie da sempre. Ma la strada mi ha cresciuto e nella strada: io sono la strada. Sono il peggio che possa esistere, inclinazioni sbagliate, con un cervello enorme e una forza persuasiva immensa. Si sarebbe divertita anche lei, mi piaceva troppo, non volevo fosse da una sera e via, ma adesso le danze dovevo essere io a condurle.
«Ma certo, forse madame gradisce la Jacuzzi, ma certo, per una bellezza simile forse il letto è sprecato, vada per la Jacuzzi!» Dovevo farla tornare a suo agio. «Mettiti comoda sul letto e attendi un secondo solo.» Stava per parlare ma con un bacio la interruppi, poi andai in bagno e socchiusi la porta. Quando la riaprii avevo una bottiglia di champagne in mano, non mi ricordo che marca fosse ma ne tenevamo sempre una decina in bagno sotto il lavandino per l’evenienza e questa la era.
Mi fissò, ora davvero era un po’ troppo, non ce la faceva più, mi fece cenno di venire sul letto, stappai la bottiglia e feci per berla mentre ormai l’avevo raggiunta ed ero vicino a lei. Mi fermò.
«Non bere. Questa mi serve.»
Diciamo che decise di berla in modo quantomeno alternativo versandola sulla mia parte intima e mi ricordo anche che per un bel po’ non usò più la bocca per parlare. Il mio primo pensiero fu un sorriso mentale pensando alla faccia del mio amico quando avrebbe trovato le coperte fradice di champagne, il secondo pensiero riguardò lei. La conoscevo da massimo due ore e cosa stava facendo, era una ragazza seria? Per i miei criteri decisamente sì, avevo recitato troppo bene, d’altronde recitare era una parte così importante nella situazione che forse senza, neanche avrebbe avuto senso il resto. Mi ero gratificato di quello che stava facendo e lo ero di più perché avevo convinto a farlo proprio quella che reputavo una brava ragazza, per me neanche “pippava”, al massimo lo aveva visto fare. Probabilmente aveva mentito per darsi un tono. Pensai: “Sono solo burattini ed io il loro burattinaio.”
Salvo poi dover scoprire in futuro che non ero altro che il burattinaio di me stesso, ma che farci, mi sentivo Dio. Anzi proprio Dio no, ma sicuramente un dio minore.
Quando ebbe finito feci ciò che si fa per non far sentire una ragazza una troia per quello che aveva fatto e la baciai. Pensai che in fondo era “robba mia” .
«Credo la Jacuzzi sia piena e che ti meriti un bel premio.» Sorrise ma era completamente fuori.
«Prima di andare credo sia il caso di festeggiare il nostro incontro.» Detto questo tirai fuori la coca e senza che lei potesse dir nulla l’avevo già aperta e “acchittata” sul comodino. Una breve frazione di secondo e approfittando del suo silenzio ormai permanente mi infilai un “pippotto” nel naso e tirai quasi uno 0,7. Con quello che restava del grammo feci un “cicchetto” che vuol dire mettere la coca su una sigaretta dopo averla bagnata con la lingua e rassodarla riscaldandola con l’accendino per poi fumare la sigaretta.
Mi guardò allibita
«Mio Dio, ma ne usi tantissima!» Non risposi, in quel momento non mi andava, le passai il pippotto. Tentennava… ma alla fine…presa! Non l’aveva mai fatto, unico problema, ed ora non poteva tirarsi indietro, per un attimo ebbi la sensazione che se le avessi detto di gettarsi da un balcone lo avrebbe fatto.
«Per favore a me di meno!» la sua voce ora era molto insicura, io ero Dio, potevo scegliere, ma ero un Dio caritatevole, ne feci una da circa 0,3 forse anche 0,2, per neonati. E lei tirò.
Poi andammo nella Jacuzzi. Come tutte le persone che non ne avevano mai fatto uso non poteva capirne l’effetto, almeno non fino a quando la sua pelle splendida come quella di una ninfa non si sdraiò sopra di me e il contatto con l’acqua calda non le fece aprire tutti i sensi in un solo istante. Mi chiese da bere, tipico, cominciava a perdere le inibizioni e io avevo sapientemente poggiato vicino alla vasca un’altra bottiglia di Champagne e la coca. Dopo aver bevuto ebbe l’ultimo barlume di lucidità: «Ma tu non usi precauzioni?!»
Allungai la mia mano sulle sue parti intime e la stimolai per almeno due minuti senza parlare finché non sentii che cominciava a godere.
«Ah dici il profilattico? E cosa sarebbe?» La sua risposta fu laconica.
«Sbrigati o mi sento male.»
Ricordo che lo facemmo veramente a lungo e fu bellissimo, ogni volta che veniva mi chiedeva di poter pippare di nuovo, ora la sensazione la sentiva, la finimmo quasi tutta. Rammento che lei venne cinque volte. Come lo rammento? Durante i rapporti chiedevo sempre di dirmi ogni volta che una ragazza aveva un orgasmo. Non era per il dopo rapporto, credo che la mia ossessione di sentirmelo dire mi desse in qualche modo un controllo della situazione. In un modo imprecisato godevo molto di più a sentirmi dire che stava “venendo” e poterla guardare mentre godeva, che quando toccava a me essere soddisfatto. Controllo si chiama, perché fosse così lo scoprii solo anni dopo.
Ricordo perfettamente che erano circa le tre e mezza di notte e noi giacevamo esausti in accappatoio sul letto e ci baciavamo ancora quando squillò il mio cellulare.
«A quest’ora disse lei? Ma hai una ragazza?» Feci quello che mi riusciva meglio, quello che era proprio del mio stile di vita: mentii.
«No, tranquilla, sarà il mio amico.»
«Bene, perché volevo dormire con te. È casa tua no!?» Cazzata più cazzata meno!
«No, entro in casa degli altri!» Lei mi sorrise.
Mi sporsi per prendere il mio cellulare deciso a mandare a quel paese il mio amico e lessi. “Anonimo”. Cazzo!!! Anonimo alle tre e mezza… speravo solo non fosse quello che credevo, ma le speranze erano remote.
“Il Mangiapeccati?” fece una voce che neanche conoscevo. Bene! Era quello che temevo. Era il nome con cui mi chiamavano i miei amici “di strada”. Il mio lavoro, o almeno così lo chiamavo io, anche perché i soldi non contavano per me, per me contavano solo le ideologie. E le mie ideologie mi portavano in quel momento a seguire un partito nazista, se poi si può chiamare così. Alla luce di oggi direi solo una banda di squilibrati che capeggiavo e che altra voglia non avevano se non di fare a botte con qualsiasi pretesto che fosse razza, ideali o religione, che se poi erano ebrei, tanto meglio!
«Chi cazzo sei perché mi chiami con questo nome?» gli urlai contro dimenticandomi che in stanza non ero solo.
La voce dall’altra parte si fece titubante: «Compagno (così ci chiamavamo, come i nazisti), mi hanno detto di avvisarti, hanno sconfinato.» Voleva dire che qualche extracomunitario era entrato nella nostra zona; non uno solo, e non per fare due chiacchiere.
«Razza?»
«Rumeni.» Ma porca troia pensai. I peggiori, sempre ubriachi fradici, i più numerosi e i più cattivi.
«Quanti?»
«Mai visti così tanti!». Non mi fermai a pensare neanche per un attimo.
«Tra venti minuti sono lì, avvisa chi sai, il numero te lo invio per sms, fammi uno squillo da un cellulare pulito chiaro?»
«Chiaro» e attaccò.
Cominciai a vestirmi in fretta e furia dimenticando completamente la ragazza che ancora era nel letto.
«Ehi ma che stai facendo?» Ma mannaggia! Lei mi piaceva! Che potevo fare se non semplicemente mentire!
«Amore non ho avuto il tempo di dirtelo ma mia madre non sta bene di salute, è abbastanza grave e mio padre ha bisogno di una mano, perdonami non doveva accadere.» Mi credette.
«Amore, davvero mi dispiace da morire, non ti preoccupare per me chiamo un taxi e vado ma ci rivediamo!» Lo voleva davvero, ero contento.
«Ma certo! Ti faccio subito uno squillo ma tu giurami che mi chiami domani.» Io sorrisi. Lei di più.
«E come potrei non farlo!» Fece per chiamare un taxi. La fermai.
«Non ti permettere!» e lo chiamai io. Diedi un ultima botta di coca, ero “in calo”, mi serviva. Lei mi guardò dubbiosa.
«È la prima volta che la usi vero?»
«No davvero!»
Le presi il mento dolcemente con le mani: «La prima vero?»
«Sì, ma ora sono dipendente.»
Le sorrisi. «E ti avrei fatto questo?! Non è mica eroina! Tu mi piaci davvero e da oggi tu ’sta merda non la tocchi più.»
Non so perché, ma durante l’utilizzo di droghe avevo questa strana tendenza a voler preservare gli altri, credo che non riuscendo a farlo con me ciò mi scaricasse la coscienza.
Mi guardò stupita: «Tu sei un angelo!»
«E come no!» Mentre l’accompagnavo al taxi le spiegai che avrebbe potuto fare cattivi pensieri o non dormire bene quella notte, ma che non era nulla e mi feci giurare circa un miliardo di volte che non l’avrebbe toccata più. Attesi il taxi con lei che mi stringeva, neanche fossi chissà quale tesoro. Appena il taxi fu arrivato lei fece per salutarmi ma io la precedetti, aprii lo sportello ed allungai 50 euro al tassista che mi guardò esterrefatto.
«Portala dove dice e se le succede qualcosa io ora prendo la targa ti ritrovo e ti ammazzo.»
Il tassista valutò la serietà della mia minaccia, poi prese i soldi e disse: «Ehi amico stai calmo, è ok!»
Lei salì sul taxi ed io la baciai un’ultima volta.
«Domani chiamami, intesi?!» Mi piaceva davvero, avrebbe richiamato comunque, ma volevo che sapesse che la cosa interessava molto anche a me. Andò via. Mentre andavo alla mia macchina arrivò un sms: «Io domani mi attacco al telefono. Sei troppo bello per essere vero.» Risposi al volo: «Infatti non lo sono.» Tendo sempre a ricordare ciò che colpisce in positivo il mio egocentrismo. Poi frugai nella tasca e ne estrassi il mio tirapugni.
“Un angelo!” pensai e Andreas sorrise. Un sorriso così crudele da non sembrare neppure un sorriso, così asettico e gonfio di emotività che metteva paura. Non contava far male o farsene, forse neanche uccidere o essere ucciso, la legge o non la legge. Forse anche l’ideale era fittizio, ma pur sempre il “mio ideale fittizio” e io lo seguivo senza una domanda, in preda alla mia malattia, lo facevo perché lo dovevo fare. Niente emozioni, niente esitazioni, una forza invisibile mi spingeva solo a difendere il mio nome, “Il Mangiapeccati”, e il mio nome aveva sete di sangue. Come il tutto fosse nato, come la malattia avesse potuto trasformare un bambino che alle elementari subiva da tutti in una specie di “cacciatore di teste” in stile new age, non so proprio né spiegare né spiegarmelo. Ma il suo tributo lo doveva avere, anche se per tale tributo spargere sangue non era rilevante, anzi, non aveva proprio nessun senso, non era neanche cristallizzabile neppure sotto forma di pensiero.
Come potessi passare da una sensazione per quanto “drogata” di affetto a una emotività così robotica nello spazio di un secondo io proprio non so capirlo, ma di certo so che accadeva. So che io dimenticavo quasi a comando qualsiasi cosa volessi dimenticare.
Montai sulla mia macchina. Prima, seconda, terza, quarta fino alla sesta, per un attimo pensai a tutte le multe che mi arrivavano a casa… ma poi… ’sti cazzi!
Arrivai in quello che consideravamo il nostro quartier generale che erano circa le quattro di notte, forse prima o forse dopo. Difficile tenere il conto dell’orario di notte quando sei strafatto e in giro dalle sei del pomeriggio, è come se i giorni si dilatassero e francamente l’unica cosa con cui mi regolavo era il sorgere del sole. La notte ti avvolge, copre le nefandezze e non solo quelle reali, ma anche quelle che hai insite nell’anima. Ogni volta che sorgeva il sole infatti cominciava l’inquietudine, come se in qualche modo riconoscessi alla luce qualcosa di divino, come se con il suo avvento qualcuno più immenso di tutti potesse finalmente vedermi… ma soprattutto giudicarmi. Massimo un’ora dal sorgere della luce e io dovevo fuggire a casa, dormire le mie cinque sei ore, svegliarmi, telefonare alla mia ragazza come se nulla fosse accaduto, vestirmi in modo decente e correre in facoltà, il refugium peccatorum al sorgere del sole, agli occhi del mondo esterno. Nuovo giorno, nuova situazione, nuovo teatrino a esclusivo beneficio delle mie “marionette”.
Parcheggiai la macchina di fronte a un bar, bar di giorno ma di notte… chi lo sa! Era lì che dovevo aspettare. Mi accesi una sigaretta, credo la trentesima della giornata, composi un numero di telefono, lasciai partire solo uno squillo. Attesi un secondo. Sentii qualcosa che si muoveva da dentro il bar, una finestra si aprì. Mi mossi lentamente, senza alcuna fretta e mi diressi verso la finestra che si stava aprendo lentamente. Saltai dentro al bar e per la rapidità del gesto inciampai e caddi imprecando sonoramente.
Una mano nel semibuio si tese ridendo.
«Che cazzo ti ridi Cri?!» fu la mia risposta mentre rialzandomi nella penombra cominciavo a capire che il titolare di quella mano era il mio più caro amico “di strada.”
«Non rompere il cazzo – fu la sua risposta – Trova tu un posto migliore.»
Un metro e novanta di muscolosità filiforme e due spalle da nuotatore. Capelli biondissimi, rasati quasi a zero, occhi azzurri come il cielo. Avevo piacere ad avere amici bellissimi come quello.
«In questo cazzo di scantinato si può avere un Rum?» Mi indicò un tavolo dove giacevano in bella vista una bottiglia di Whisky e della coca
«Va bene Whisky?»
«No, per nulla, avevo chiesto un Rum ma porca troia non è poi così difficile!» Scrollò le spalle.
«Il bar è di quel tossico del cazzo. Ma tu sei ridotto uno schifo, ti abbiamo per caso disturbato?!» disse indicando la patta dei miei pantaloni ancora slacciata.
«No, tranquillo, mi stavo solo facendo una sega in macchina. Ma a parte tutto Cri qui cosa sta succedendo che in giro non c’è nessuno? Tu poi non dovresti essere qui, francamente mi aspettavo stessi con i ragazzi, non ha senso che tu sia qui visto che non ci dovrei essere neanche io.»
«Sono al “bivio”.» Per un attimo stavo quasi per perdere il controllo. “Il bivio” era come chiamavamo la strada che costeggiava un noto campo rom.
«I rumeni vengono dal bivio o ci hanno preso lì davanti?» Tirò un sospiro.
«Li hanno attaccati i nostri, davanti al bivio·» Non aggiunse altro, voleva che ci arrivassi io da solo.
«E per quale motivo? Perché ci deve essere un motivo, no?»
«No!»
Fui preso dalla collera. Presi la bottiglia di Whisky me ne versai un sorso. La bevvi senza proferire verbo poi la scagliai con violenza contro il muro e cominciai a urlare.
“Ma quelle piccole teste di cazzo si rendono conto che per quei rom di merda la colpa è nostra! Abbiamo un cazzo di accordo con alcuni di loro e neanche è stato facile ottenerlo. Ci lasciano fare ciò che vogliamo ma non in prossimità del loro campo. E noi gli andiamo a fare la “guerriglia urbana” nel cuore della notte attirando l’attenzione di mezzo quartiere ?! Loro non sono ebrei del cazzo, non sono rumeni ubriachi, quelli ci ammazzano!”. Era esattamente la reazione che Christian si aspettava da me. Dovette prendermi alle spalle e tapparmi la bocca con la sua mano enorme prima che il chiasso che stavo facendo si sentisse dalla strada.
«Ok ok, sono d’accordo con te ma ora hai fatto fin troppo casino.» Lo rispettavo, lui poteva toccarmi, mi rimisi a sedere. «Posso?» dissi indicando la coca.
«Sì, se non ti ci uccidi prima di andare a placare la situazione.»
Fissai il suo sguardo, era “fatto perso” anche lui. Lo mandai a quel paese e pippammo insieme. Prendemmo un’altra bottiglia di Whisky e ci versammo da bere. Ma a quel punto realizzai davvero. Cazzo!
«Ma se tu sei qui come hanno fatto!? Io non credo che abbiano preso un’iniziativa così idiota per nulla e soprattutto di testa loro, sapevano che li avremmo strigliati per bene dopo.»
Non disse nulla, era più che sufficiente.
«Ma “lui” non è qui vero? Non si vede da più di un mese.» Ancora nessuna risposta. Io mi lasciai cadere sulla sedia. Finii il mio Whisky, diedi un’altra botta.
«Perché non mi hai detto che Dimitri è tornato?» Dimitri era un russo che sfiorava quasi i due metri d’altezza, enorme, violento, cattivo, sui 45 anni. Voci dicevano discendesse da una dinastia di militari e che anche lui lo fosse stato ma che avesse fatto qualcosa di imprecisato (si parlava di qualcosa riguardante la vendita di armi) e che quindi fosse dovuto fuggire dal suo Paese. Era mio amico, prima lo era ancora di più, finché non mi resi conto che lui non era idealista, forse neanche realmente cattivo, era solo una persona che voleva sopravvivere fregando gli altri e approfittarsi di una fama che forse neanche esisteva. Già per strada metti in giro una voce, ne nascono mille nuove, russo, enorme, non avrebbe neanche avuto bisogno di sforzarsi molto per crearsi la sua.
«Semplice, prima di stanotte non lo sapevo neanche.»
«E lasciamo che quel militare pazzo si prenda i nostri ragazzi e li faccia ammazzare! Ma per la miseria quello non si muove senza un motivo, ma cosa ci sta facendo là?!» Scosse la testa.
«Non lo so, ma dicono sia fortemente ubriaco, forse stavolta va in cerca solo di guai.» Ero rassegnato.
«E come no! Va beh non lo sappiamo e in fondo è anche ininfluente. Quanto tempo abbiamo? I bambini dei campi rom escono alle sei e mezza per andare alle elementari (quei pochi che ci vanno), ma molti almeno alle elementari ci vanno. Che ore sono?» Christian fissò l’orologio.
«Abbiamo due ore, se ci dice bene.»
«Quanti sono i nostri?»
«Tredici e loro venti.» Spalancai gli occhi.
«Muoviamo il culo non c’è tempo.» Mi stavo già alzando quando lui mi tirò per la manica. Mi girai, aveva una mazza da baseball in mano. Io alzai il pantalone e gli mostrai il coltello che tenevo infilato tra calzino e scarpa (la punta mi tagliava sempre il tallone, tuttora i segni sono evidentissimi). Tenne lui la mazza. Andammo alla macchina.
Il posto non era molto distante da dove eravamo. Non credo ci mettemmo più di cinque minuti a recarci in loco ma la cosa strana fu che nessuno proferì parola per tutta la durata del viaggio, solitamente ridevamo e scherzavamo, la notte era nostra, ma non quella. Quella notte qualcosa stava pericolosamente minando le nostre certezze. Quali fossero poi realmente le nostre certezze francamente non è che ne abbia un’idea precisa, ma di sicuro avvertivamo quella strana sensazione che deve provare un bambino la prima volta che tocca l’acqua. A volte la sensazione può essere positiva, a volte di terrore, di sicuro anomala anche se viviamo per nove mesi in un liquido prima di nascere.
Arrivati, parcheggiai nel vicolo parallelo, si sentivano delle grida, alcune in italiano altre no, ma non si capiva nulla.
Solo a quel punto mi girai e gli chiesi: «Idee?» mi fissò un istante come convinto che di idee possibili non ce ne fossero molte e di praticabili, se possibile, ancora di meno.
«Non abbiamo un secondo, se siamo fortunati non ci stanno aspettando; arriviamo, io mi scateno su di loro alle spalle, a quest’ora dopo un’ora che se le danno un uomo in più è davvero tanto. Cercherò di sfondare quei porci nel più breve tempo possibile. Ma tu devi andare da Dimitri e farlo ragionare o fargli fare ciò che è venuto a fare rapidamente e poi andarsene.»
Non mi pareva un piano geniale francamente, ma non c’era tempo di discutere e comunque lui aveva seguito la situazione meglio di me. Mi limitai a sollevare una questione:
«E se ci aspettano?»
«Allora prepara tante barelle per l’ospedale!»
Scendemmo e ci recammo all’angolo della strada da dove provenivano le grida. C’era una siepe che costeggiava tutta la via, potevamo usarla per avvicinarci il più possibile e sbucare quasi dal nulla senza essere visti.
Ma la situazione era ancora peggio di come ce l’aspettavamo. Di solito una rissa non dura mai più di una mezz’ora al massimo, se no ci scappa il morto, e quello non lo vuole di certo nessuno. Ma lì andava avanti da un’ora. Ora sapevamo il motivo, il numero dei partecipanti si era addirittura ingrossato; la comitiva di “Lupetto” si era aggregata alla nostra e ora contavamo a occhio una ventina, tanti quanti loro, ma perché si erano mossi, chi li aveva chiamati, cosa c’era in ballo? Non lo sapevo, ma mi conveniva ballare in fretta. Dimitri stava sbattendo con forza un rumeno contro le recinzioni del campo nomadi, sanguinava copiosamente da un sopracciglio e sbuffava come un toro infuriato. Era molto vicino a me, molto defilato dal centro, stava andando da qualche parte e a occhio e croce cercava qualcuno nel campo nomadi. Mio Dio, era impazzito! Poi lui sarebbe scomparso, ma gli altri? Feci segno a Christian di percorrere senza farsi vedere i cespugli e attaccare anche lui. Detto fatto. Nel momento in cui mi girai lo vidi sbucare fuori puntando il più grosso e abbatterlo con una sprangata ai reni di cui si sentì un violento rimbombo. Con la mazza mai alla testa. Era prassi comune per strada, altrimenti sarebbe stata un’esecuzione. Ma per quelli dentro il campo le cose erano ben diverse, le regole se le facevano loro. Uscii allo scoperto procedendo a passi lunghi con calma verso il nostro gigante stupido. Lui non poteva vedermi, era di spalle e stava cercando ancora di divincolarsi dal rumeno che lo avvinghiava. Da vicino distinsi più nettamente gli insulti che si scambiavano, non era rumeno, era polacco. Rumeni e polacchi insieme? Ma cos’era? Il primo di aprile! Proprio mentre gli stavo ormai a non più di tre metri qualcuno mi urtò violentemente contro. Non volontariamente ma sballottato dalla lotta con qualcun altro. Lui si voltò e mi vide, sgranò gli occhi, lo conoscevo di vista. Fu solo un attimo, estrassi la mano dalla tasca con il tirapugni già pronto e gli sparai con tutta la forza che avevo un cazzotto in pieno volto. Io sì, volevo fare sangue, volevo si facesse male sul serio, serviva una dimostrazione. Sentii poco, il tirapugni è di ferro. Ma vidi chiaramente il setto nasale polverizzarsi e sentii vagamente un crepitio di denti rotti. Meno uno. Dimitri e il suo avversario si girarono concedendosi, estenuati, una piccola tregua.
«Ciao fratello, ancora non hai imparato a guardarti le spalle alla tua età?!» non credo fosse contentissimo di vedermi.
«Ah, abbiamo il mangia-peccati, quale onore, ammazziamo questi porci!» credo avesse intuito perché ero lì.
«Non sono qui per loro ma per te.» Si finse sorpreso.
«Perché mai stiamo dando una lezione a questi extracomunitari?» Nel frattempo quello che aveva alle spalle si era ripreso e allora feci ciò che non si doveva fare, ma ne avevo bisogno. Estrassi il mio coltello a serramanico che avevo nella scarpa e glielo puntai contro.
«Questo non è più un problema tuo, vai altrove stronzo!» Alzò le mani e si diresse al centro della mischia. Fu a quel punto che i miei amici si accorsero della mia presenza. Sentii urlare il mio soprannome, raddoppiarono le forze, si sarebbero fatti ammazzare per me. È incredibile come la razza umana abbia bisogno di un capo per lottare, quasi come se l’istinto di sopravvivenza a volte fosse inferiore a un carisma esterno. Mi girai nuovamente verso il gigante: «Tu sei venuto qui convincendo i miei amici di non so che cosa. Dimmi cosa cerchi o accoltello te, altrimenti grazie alle tue stronzate siamo morti comunque.»
Dal suo sguardo capii che stava valutando la situazione. Poi si convinse che facevo sul serio, d’altronde ormai rischiavo comunque.
«Ho un debito là dentro e avevo un appuntamento.»
«Che debito?»
«Di gioco. Uno di quegli zingari mi deve diecimila euro al gioco del poker. Avevo un appuntamento ma ho trovato qui i loro cani extracomunitari e allora che cazzo dovevo fare, sono corso da voi e ho chiesto aiuto. Sono dei vostri e allora è giusto così!»
«Scommetto che loro però del debito non sanno nulla, che sei venuto da un non so chi, QUI da solo e che pensavi ti avrebbero pagato? Questo lo sapevano loro?!»
Il suo sguardo fu tutto un programma, non mi serviva una risposta.
«Tu non sei dei nostri. Tu non sei neanche più mio amico. E ora dove andavi cosa pensavi di fare, bussare e entrare?» Si scostò il cappotto da russo che aveva addosso. Peggio di come pensassi perché aveva una pistola. Sapevo cosa fare, mi avvicinai a lui a circa mezzo metro.
«Da qui sarà più veloce la tua pistola o il mio coltello?» Nessuno dei due voleva un morto. Ma rischiai, il gesto lo feci prima io. Gettai il coltello. Gettò la pistola.
«E tu mezzo nano vorresti fermarmi?» Sorrisi. Andreas sorrise. Ora riavevo un quadro completo della situazione. Ora la mia malattia riesercitava il suo controllo, ora mi risentivo Dio.
«Dubito di prenderle da un mezzosangue russo.» Lui si mise in guardia.
Io la trovo solo una perdita di mobilità per strada. Lo incalzai: «Ti lascio tre colpi di bonus finto generale.»
Il primo fu un gancio destro che evitai con cura ma mi sfiorò il mento. Si imbestialì. Prese la rincorsa come un toro e mi corse incontro per abbattermi. E lo avrebbe di certo fatto. Se lui ti prendeva eri morto, ma non mi avrebbe mai preso: ero troppo veloce. Unico problema, improbabile se lo avessi fatto io. Nel frattempo dietro di me la battaglia era praticamente all’epilogo. Sentivo le voci dei miei amici che insultavano sempre con più forza i loro avversari e li invitavano a fuggire con vergogna ed io ero quasi sicuro che quelli lo stessero già facendo. Se usi le mani non dici frasi di quel tipo e loro stavano inneggiando alla resa degli altri, quindi era quasi fatta.
«Avanti hai ancora un colpo bestione vuoi che mi avvicini?» e mentre parlavo feci un passo e pregai il Signore lui facesse quello che io speravo. Pensò a come prendermi in campo aperto. Fu un istante e estrassi nuovamente il tirapugni. Dovetti saltare per arrivare alla faccia. Fu forte l’impatto ma non preciso. Colpii l’arcata sopraccigliare in modo profondo, immediatamente prese a sanguinare copiosamente, impedendogli per un attimo la vista. Fu allora che piegò la testa alla mia altezza e io presi una pietra sporca di sangue (qualcuno doveva già averla usata a mo’ di arma) che avevo già visto. Non potevo andare per il sottile colpii dritto alla tempia perché cadesse. Stavolta il colpo centrò appieno il bersaglio in modo violentissimo. Cadde. Gli balzai sopra in un attimo e cominciai a colpirlo a mani nude: ero in una sorta di lucido delirio. Continuavo, continuavo e continuavo. Forse lo avrei ucciso quando un calcio mi colpì da dietro e mi fece ruzzolare alla destra dell’orso. Mi voltai di scatto. Christian era sopra di me con la mazza in mano: «Siamo qui per evitarlo o per farlo un omicidio?» rideva. Io mi difesi: «È enorme e mi avrebbe ammazzato…» Lui lo indicò sdraiato per terra mentre gli gorgogliava sangue dalla bocca. Allora risi anch’io.
«Beh forse un po’ ho esagerato…» mi rialzai. La luce della notte andava schiarendo e Christian mi indicò un punto dove la recinzione era decisamente più bassa tanto da permettere a una persona di passare. Si distinguevano tre figure.
«E gli altri?»
«A casa!»
«Bene! Aspettami qui.» Fece per fermarmi ma proseguii verso le tre figure finché non gli fui a un metro. Una la conoscevo e feci per rivolgermi a quella. Ma con un cenno del capo mi fece capire chiaramente che non era con lui che dovevo parlare. Parlai allora con un signore sulla sessantina, magro, con i capelli bianchi e radi, mal curato ma con gli occhi schermati. Gli unici occhi che tutt’ora non saprei decifrare. Mi chiese:
«Sei tu il Mangia-peccati?» Annuii.
«Guardi io…» mi zittì.
«E tu pensi che non sappia come è andata?» io non dissi nulla. Non mi aspettavo certo una medaglia al valore ma neanche ciò che mi disse.
«La prossima volta andate a giocare a guardia e ladri altrove. Chiaro?» «Chiaro.» Tornai da Christian.
Guardai con lui il sole che saliva.
«E ora che facciamo?» Era ancora visibilmente eccitato.
«Ora c’è il sole. Io torno a casa. La prossima volta stiamo più attenti.»
«E Dimitri…?»
«Non gli faranno nulla. Almeno per stavolta. O almeno credo…comunque per stanotte… giù il sipario!»
[continua]
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