Il vento di cristallo

di

Diletta Sposato


Diletta Sposato - Il vento di cristallo
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
14x20,5 - pp. 178 - Euro 13,00
ISBN 978-88-6587-5988

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In copertina: «Woman and dandelion» © adrenalinapura – Fotolia


Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’opera è finalista nel concorso letterario Jacques Prévert 2015


Ringraziamento

Si è sempre riconoscenti verso chi ci ha generato tuttavia, in questo caso, più che riconoscenza provo una forte gratitudine verso mia Madre la quale anche nel più profondo silenzio, mi ha aiutata a solcare le pagine di questo impetuoso mare fino ad approdare sulla riva dove ad attendermi vi erano le sue braccia aperte, a riprodurre un gesto che per Lei è sempre stato naturale anche quando il vento della vita più volte ne ha forzato, inutilmente, la chiusura.


Il vento di cristallo


A nonna Iolanda, esempio virtuoso
di donna instancabile, mamma esemplare
e nonna insuperabile.


Capitolo I

Rose è un’adolescente come è facile trovarne tante in giro, dalla corporatura normale non molto alta a volte goffa nel suo modo ancora fanciullesco di trovare il suo posto fra i grandi, capelli lunghi e lisci poiché, accuratamente e puntualmente “piastrati” utilizzando il gergo in voga oggi tra i giovani che in altri e più realistici termini sta ad indicare un uso eccessivo e a volte imprudente di un utensile elettrico che altro non fa se non ridurre i capelli in fili sottili simili agli spaghetti. Di carnagione olivastra, tipica delle donne del sud e sguardo fiero, oserei dire di sfida verso chi è difficile da dire essendo la pubertà una fase della crescita piena di tormenti, contraddizioni e soprattutto, con tante idee bellicose verso gli altri e in particolare avverso il mondo intero. Il suo nome, di chiaro richiamo francese, si deve alla solerzia di una ostetrica la quale, qualche ora dopo che venne alla luce, nel tentativo di dipanare una lotta familiare circa la scelta del nome, propose alla futura mamma una soluzione furba seppur ardita. Il nome deciso da tempo dal ramo paterno, come vuole la più rigida tradizione meridionale, era Rosa come la nonna paterna, ovviamente. A quel punto l’acuta levatrice suggerì quella che sarebbe stata la soluzione definitiva e che avrebbe fatto onore all’orgoglio troppo spesso ferito di molte neo mamme. Rose al posto di Rosa, riconducendone la ragione ad un ingentilimento nell’utilizzo dell’inflessione lessicale, in vista di nuovi e più evoluti tempi. In questo modo quello che ai più, diciamo ai poco attenti, sarebbe apparso come un semplice cambiamento dell’ultima vocale lasciando la matrice del termine intatta, in realtà si traduceva in un cambiamento radicale del nome, essendo necessario pronunciarlo con l’inflessione francese per rispettare la reale composizione della parola. E si sa come, soprattutto in un paesino del sud dell’Italia, la pronuncia sia determinante in particolare per ricondurre il giusto significato ai termini utilizzati. Tuttavia questo aspetto, seppur determinante, sembra sia stato addirittura ignorato da chi vantava la pretesa di scegliere il nome forse perché, come spesso accade, convinto di essere stato ascoltato su qualcosa che in realtà viene deciso da altri o, meglio, da “altre”.
Rose aveva un’amica o più correttamente, quella che sarebbe diventata tale con gli anni, in quanto ciò che le accomunava durante quella prima fase della loro conoscenza era la condivisione di un’aula − neppure dello stesso banco − di un Liceo classico situato nella cittadina della quale piccoli paesi come quello in cui viveva Rose facevano da cornice. Si trattava di un edificio la cui struttura sembrava la risultanza di un lavoro progettuale eseguito male, difatti a guardarlo bene, dava l’impressione non tanto vaga di un incrocio fra un fabbricato di quelli che si scorgono nelle zone industriali alla periferia di molte città e un palazzone tipico degli anni ’60, solitamente adibito a pubblici uffici. Non era munito di palestra, per le attività fisiche era stato costruito un campetto da pallavolo dietro lo stabile, adiacente la casa del guardiano e che era visibile nel suo complesso solo dalla superstrada che costeggiava l’intero complesso e che serviva da collegamento per la città e le zone limitrofe. L’ingresso principale era preceduto da un largo piazzale adibito solo o quasi esclusivamente al parcheggio delle auto dei professori e a volte, per grazia ricevuta, alla sosta temporanea − circoscritta a qualche minuto prima del suono della sirena di conclusione della giornata di scuola − di genitori o fidanzati intenti a far evitare ai loro amati la faticosa e poco elegante corsa per accaparrarsi un posto nel fatiscente autobus di linea, avvezzo ormai da tempo agli assalti di quegli studenti che non potendosi permettere un atteggiamento troppo signorile perdevano ogni inibizione pur di assicurarsi un viaggio comodo che se andava bene era costituito da un posto a sedere o al più dalla possibilità di tenersi a quelle aste verticali – la cui vernice scrostata li rendeva destinatari speciali di polvere sporcizia e tanto altro − presenti vicino le porte di entrata e uscita; altrimenti occorreva aggrapparsi alle sbarre orizzontali che delimitano lo spazio dei mezzi in questione e che consentono a chi sta in piedi una sorta di equilibrio seppur precario. Solo una piccola parte decideva di rientrare a casa servendosi delle proprie gambe. Rose abitando appena fuori città e non avendo nessun chaperon che l’attendesse fuori per condurla a casa, doveva necessariamente ripiegare sui mezzi pubblici.
Lucia questo è il nome, divenne ben presto e inconsapevolmente la presenza fissa e costante nella vita di Rose, un riferimento non richiesto né voluto tuttavia indispensabile per quella che sarebbe stata l’evoluzione e la maturazione, non solo fisica, di entrambe. Dall’aspetto curato seppur senza eccessi, Lucia rappresentava l’alter ego di Rose in tutto e per tutto. Alta, capelli mossi appena accennati sulle spalle di un colore a metà strada fra un castano ramato e un rosso tenue che nelle giornate di sole i raggi rendevano ambrati. Magra con un portamento sinuoso dovuto probabilmente alla dedizione che nei primi anni di vita aveva avuto per la ginnastica artistica. Una disciplina che se da un lato le aveva dato tanto in termini di capacità di affrontare le sfide e di determinazione nel conseguimento degli obiettivi che si prefissava, dall’altro le aveva già fatto assaporare giovanissima, il gusto amaro delle delusioni. Fu costretta ad abbandonare definitivamente questo sport, ancor prima di ottenere risultati in termini di gratificazioni, non fosse altro per i sacrifici affrontati negli anni. Un problema serio al ginocchio sinistro, dovuto ad una malformazione genetica, scoperta in seguito ai continui dolori che avvertiva ogniqualvolta lo sollecitava più del dovuto, mise Lucia di fronte ad una dura e soprattutto inaspettata realtà. Una calda mattina di fine giugno rappresentò per questa ginnasta, il crocevia nel quale si sarebbe inerpicata la sua nuova vita. Lo specialista al quale si erano rivolti i genitori di questa volitiva adolescente sentenziò con la propria diagnosi la fine di ogni speranza che ella aveva sempre riposto, di legare la propria esistenza alla disciplina che l’aveva accompagnata fino ad allora. “Per evitare più gravi e irrisolvibili problemi articolari e muscolari della zona relativa al ginocchio già fortemente danneggiato, è categoricamente sconsigliato il proseguimento della disciplina finora esercitata e di qualunque sport che comporti una continua e gravosa sollecitazione dell’intero arto sinistro”. Né le lacrime della giovane paziente né gli interrogativi, legittimi dei suoi genitori, sulla speranza di una soluzione alternativa smossero il dottore circa l’epilogo duro a cui aveva dato luogo il responso clinico. Con gli occhi gonfi di lacrime, le guance segnate dal pianto e con una fitta al petto che le impediva di prendere fiato serenamente poiché ad ogni respiro sentiva una fastidiosa sensazione di compressione, Lucia ricevette ad appena dieci anni una delle lezioni più dure o meglio per lei prive di un plausibile perché, che la vita può riservare. Le passarono velocemente dinanzi agli occhi gli anni appena trascorsi. Come in una pellicola in bianco e nero, forse perché tale rappresentazione rende meglio l’idea del tempo ormai decorso, vide raffigurato il suo più recente scorcio di vita nel quale ebbe la netta sensazione non solo di non essere la protagonista principale ma neppure una semplice comparsa. Gli attori si sa, in qualche modo lasciano il segno nei personaggi che interpretano a volte, indirizzandone anche il percorso evolutivo. Per Lucia non era così, non si sentiva la protagonista della propria esistenza o almeno, ripensando a quello che era stato, non ebbe tale percezione. Appariva piuttosto come una mera spettatrice in quella triste raffigurazione che le stava affollando la mente e turbando i pensieri. Il tutto le sembrava più che la chiusura di un capitolo esistenziale una disfatta personale. Doveva fare i conti con quel destino che avendola portata a costruire la propria esistenza attorno alla ginnastica artistica adesso le chiedeva di fare marcia indietro. Ci si affanna, ci si impegna strenuamente per raggiungere una meta e ci si scorda, forse con troppa facilità, che la vita quasi sempre prende una direzione diversa e molto spesso lontana dagli obiettivi e speranze iniziali che avevano portato a percorrerla. Neppure il gelato alla stracciatella, di cui era ghiotta e che finiva sempre troppo presto lasciandola con la sola cialda imbevuta del sapore di quel delizioso gusto, risollevò Lucia da quel senso di torpore e di angoscia che, da quando aveva lasciato dietro di sé il maestoso portone in legno dello studio medico, si sentiva addosso come un bagaglio troppo pesante da sollevare e un ricordo troppo gravoso da scrollare. Ed ecco che, cosa quasi impossibile fino al giorno prima, gettò il cono dopo averlo appena sfiorato con le labbra.
I successivi tre anni furono per Lucia il tempo ragionevole per maturare l’idea che ci sono sicuramente altri percorsi da esplorare ma soprattutto tante esperienze che una ragazza adolescente deve necessariamente fare.
Rose e Lucia condividevano la stessa aula del liceo più rinomato nella zona, non solo perché da sempre ritenuto l’indirizzo classico quello per eccellenza, capace di fornire basi solide per qualsiasi professione futura ma anche perché proprio quell’istituto aveva tenuto a battesimo studenti che in ambito professionale si erano affermati anche all’estero. Di tale e veritiera pubblicità ne aveva giovato in primis il liceo, i cui vantaggi erano percepibili in termini di quantità di iscritti cui però doveva fronteggiare ogni anno, ma anche gli stessi alunni. Si trattava però in questo secondo caso, di un prestigio non guadagnato per merito bensì riflesso dall’appartenenza ad un istituto i cui privilegi, risultavano confinati alla semplice iscrizione e frequentazione dello stesso.
Rose e Lucia non scelsero certo quell’indirizzo per le ragioni, pur allettanti, sopra esposte. Ciò che le indusse ad intraprendere un simile percorso di studi fu l’affinità che lo stesso aveva, con quella che sarebbe stata secondo l’inclinazione posseduta la loro professione futura. Rose era affascinata dalla filosofia e dal mondo complesso e impercettibile che molto spesso avvolge le menti dei filosofi e che si traduce nelle opere dei medesimi come una continua e affannosa ricerca dei perché e delle spiegazioni più recondite sull’esistenza, sull’individuo e, sull’essere nel suo complesso, inteso quale variabile che percorre un breve tratto di strada sulla terra lasciando un segno più o meno significativo del suo passaggio, in base a quanto fruttuoso o tormentato sia stato il relativo viaggio. Lucia, al contrario, faceva della concretezza e razionalità la sua ragione di vita e ciò la portava ad interessarsi degli aspetti dell’esistenza più tangibili e riscontrabili in termini di effettiva incidenza sulla condizione umana in generale. Percepire gli umori e le impressioni della gente rappresentava per lei la chiave di volta se non per la risoluzione dei problemi che potevano affliggere l’individuo quantomeno per denunciarne l’esistenza e smuovere gli animi di molti che su determinate tematiche sembravano assopiti da antichi retaggi. Tali ragioni l’avevano portata a pensare che la sua missione sarebbe stata quella di farsi portavoce di chi, voglioso di manifestare un legittimo pensiero o di capire i meccanismi più artificiosi che stanno dietro scelte di chiaro richiamo sociale, non aveva mezzi o strumenti per farlo. Ma anche e semplicemente per narrare la realtà nel suo naturale avvicendarsi, si rese ben presto conto che il futuro per lei poteva avere i contorni della carta stampata. Voleva conseguire l’abilitazione di giornalista professionista.
Gli anni delle superiori passarono in fretta e senza alcuno sforzo o impegno da parte delle ragazze, rappresentarono il banco di prova della loro amicizia o meglio di quel legame che le avrebbe unite per sempre malgrado tutto e tutti.
Fu un periodo costellato da episodi più o meno significativi alcuni dei quali, se letti alla luce degli eventi che si sarebbero poi effettivamente verificati, potevano essere sicuramente inquadrati nell’ambito di quei segnali che il destino invia e che vengono trascurati non per pigrizia o per incapacità di dare ai medesimi la giusta lettura ma perché quella specifica lettura, è impedita dalla contestualizzazione che si dà ai fatti che di volta in volta accadono. Si vive come se non si avesse la consapevolezza di un lento e inesorabile concatenarsi di aneddoti e situazioni. Nulla è casuale e tutto è eventuale. Si tratta di un susseguirsi di momenti che non sono altro che la conseguenza di scelte ponderate o semplicemente di ciò che inevitabilmente per un qualcosa di inspiegabile si è costretti ad affrontare. Ma durante la fase adolescenziale non sono certo questi i problemi che tormentano i ragazzi o queste le riflessioni che li intrigano. Ciò che può turbarli sono le emozioni di una stagione della vita che lascia spazio solo a valutazioni di tipo fanciullesco e, in sporadici casi, a profonde e talvolta audaci introspezioni. Ad ogni modo a quell’età tutto è confinato al vissuto del momento. Del resto si è ancora nel vortice dei cambiamenti fisici e di temperamento propri di una fase che apporta all’essere umano degli stravolgimenti paragonabili all’eruzione di un vulcano troppo a lungo sopito, per riuscire ad analizzarli con la giusta attenzione. Del resto non si tratta d’altro che di un terremoto emotivo, destinato a generare la fioritura della piena coscienza per ogni uomo. Ma, prima di una simile metamorfosi, la mente è ancora troppo acerba per poter accogliere riflessioni ardite sulla condizione e l’evoluzione che, inevitabilmente, coglierà e sorprenderà la vita di ogni individuo.
Due, in particolare, furono gli episodi che, durante il periodo scolastico, ebbero come indiscusse protagoniste le ancora non perfettamente tuttavia già inconsciamente amiche.
Il quinto anno delle superiori si sa, è quello più interessante. Si vede sempre più vicino il traguardo e si ha poca se non nessuna nostalgia per ciò che si lascia alle spalle. In realtà è forse l’unica esperienza nella quale si ricorda di più l’ultimo pezzo di strada che gli innumerevoli e faticosi chilometri che l’hanno preceduta. Le ragioni possono essere tante e disparate. Innanzitutto è l’anno che si conclude con l’esame di stato, segna inoltre il passaggio dallo status di studente inconsapevole alla consapevolezza − per chi si iscrive all’università − che si è solo un numero in una miriade di espressioni ognuna con risultati differenti in base alle diverse variabili che si intersecano fra loro. Per non parlare di chi decide di concludere l’esperienza di studio volgendo lo sguardo al mondo del lavoro. Beh in questo caso, l’ultimo anno rappresenta il vero trampolino di lancio verso l’ignoto o ancora la cesura definitiva con una condizione, quella di studente, che segnerà il vero cambiamento non solo nella conduzione di vita quanto nel modo di pensare e affrontare le cose. Ma è anche l’anno della famosa e tanto attesa gita. Per intenderci quella per le scuole più organizzate al di fuori dei confini nazionali e che, soprattutto, comprende il pernottamento di più giorni che si attestano di solito a non meno di una settimana. Il liceo di Rose e Lucia quell’anno aveva fatto ricadere la scelta sulla Francia e in particolare la meta sarebbe stata Parigi. Una destinazione certamente molto ambita, con i suoi irrinunciabili musei e le sue imperdibili stradine capaci di far rivivere a tutti e in epoche differenti la suggestione di una città senza tempo dove è possibile sentire le note della “Vie en Rose” anche senza che vi si sia qualcuno ad intonarla. Vi sono dei luoghi, e Parigi è uno di quelli, dove la magia dei posti e i profumi di ciò che la circonda riescono a trasportare i sensi in spazi dove solo la mente umana è in grado di costruire ciò che la naturale bellezza può semplicemente rappresentare scenicamente, senza purtroppo accompagnarla da quella carica emotiva che solo sensazioni acutamente e volutamente stuzzicate riescono ad esaltare. Naturalmente il piano organizzativo predisposto dai docenti, comprendeva anche un giro panoramico che dagli Champs Elysees, avrebbe portato gli studenti ad ammirare l’imponente Tour Eiffeil.
Rose e Lucia erano elettrizzate ed emozionate per quel viaggio che segnava l’inizio della loro emancipazione da tutto ciò che fino ad allora era stato circoscritto ad un ambito territoriale e di conoscenza piuttosto ristretto.
Munite di bagagli e piene di adrenalina in corpo, quella mattina di aprile salirono insieme ai compagni e agli altri studenti maturandi della scuola sull’autobus che superate le Alpi le avrebbe condotte verso la loro prima esperienza di libertà.
Fu proprio nella città più affascinante al mondo che iniziò a prendere piede fra le due la consapevolezza di essere più simili di quanto potessero immaginare o volere. L’episodio incriminato ebbe come scenario privilegiato il Louvre e, come testimone di rilievo, il dipinto di Leonardo da Vinci “La Vergine delle Rocce”.
Era il loro secondo giorno nella ville lumière e ancora dovevano realizzare pienamente ciò che stavano vivendo. Quella mattina iniziò, come anche la precedente, con una corpulenta colazione. Era stata riservata all’allegra scolaresca una parte dell’immensa sala dell’albergo che occupavano al mattino e alla sera per la cena. Fu un’apposita richiesta della scuola, in fase di trattative generali con i gestori dell’albergo, quella di scegliere l’opzione della mezza pensione saltando il pranzo che, per comprensibili ragioni logistiche e di tempo, si sarebbe consumato fuori. L’opulenza della colazione era percepibile appena usciti dall’ascensore che si apriva a piano terra dando come immediata visuale l’imponente tavolo in legno di ebano interamente intarsiato, dove operosamente si destreggiavano tra prenotazioni e compiti vari, gli addetti alla reception. La parte centrale di questo mobile antico, presentava una decorazione fatta da intagli e applicazioni di bronzo cesellato che scendevano sui lati delineando tralci e volute. La particolarità dell’intero albergo curato in ogni punto, ne sottolineava la grande eleganza e la sfarzosità delle forme. Chiaramente il periodo culturale a cui era ispirato il suo gusto estetico si collocava nella prima metà del Settecento e più precisamente rispecchiava lo stile ornamentale conosciuto come Rococò. Anche i divani e le poltrone sistemate all’ingresso dell’enorme hall e ricoperti da stoffe in velluto i cui colori accesi marcavano ulteriormente i motivi floreali in essi disegnati erano in perfetta sintonia con il tutto. Concludevano il quadro decorativo le tende che adagiate ai lati della vetrata che abbracciava gran parte della sala fino alla porta d’ingresso erano in seta damascata. Chiudeva la disposizione del piano la sala adibita alla consumazione dei pasti. Difatti, in fondo al tavolo della reception, in posizione diametralmente opposta al salottino, se ne scorgeva l’ingresso. La colazione, così come predisposta, comprendeva le celebri baguette ancora calde che venivano lasciate riposare volutamente integre negli appositi vassoi per dare la possibilità di assaporarne il gusto anche a chi in ritardo avendo perso il profumo tipico del pane appena sfornato poteva apprezzarne almeno la croccantezza, prima che il contatto con l’aria rendesse la mollica dura e secca. Accanto, e delicatamente adagiate in delle piccole boule di vetro, vi erano le marmellate ognuna di un colore diverso quasi a voler richiamare per senso cromatico e disposizione le striature dell’arcobaleno. Sempre disposte su questo tavolo ovale chiudevano l’esposizione i croissant rigorosamente vuoti, delle fette di pan carré e per finire un alimento tipico della tradizione culinaria francese ovvero il burro. Secondo la rigorosa usanza francese era disposto su un piattino di porcellana che aveva la sua apposita chiusura a forma concava. Presentava un colore particolare tendente ad un avorio intenso con venature più marcatamente giallastre, molto diverso da quelli che si trovano in commercio. La particolarità consisteva nella morbidezza dovuta non alla sua lontananza dal frigo che fa sudare il comune burro favorendone l’unzione bensì alla tipicità di un alimento che non ha bisogno di espedienti per essere apprezzato poiché la bontà ha solo un artificio che risiede nel sapore.
Più a lato quasi a chiudere questo semicerchio di prelibatezze vi era un tavolo rettangolare che accoglieva i liquidi, acqua minerale e gassata, spremute, caffè, succhi di frutta e il latte con accanto gli immancabili e ormai universali cereali. Assente giustificata, era la parte della colazione definita continentale. Per espressa volontà degli organizzatori, si decise che agli studenti sarebbe stato più opportuno riservare un’abitudine propriamente europea. Presumi­bilmente le ragioni risiedevano oltre che, nella necessità di rientrare in un determinato budget anche nella certezza che le usanze consolidate, soprattutto nei giovanissimi, sono troppo spesso restie a repentine modificazioni.
Rose e Lucia, come spesso accade all’interno di una stessa classe, facevano parte di due gruppetti differenti le cui fazioni si distinguevano maggiormente, una volta lontano dai banchi di scuola. L’impressione era quella di rimarcare l’appartenenza ad una squadra con i componenti della quale si aveva una forte affinità che portava alla condivisione di passioni, gusti e inclinazioni.
Anche quella mattina si ripresentò, come ormai da copione, la stessa formazione. Rose la leader del suo gruppo era seguita in ogni movimento da altre tre fedeli e devote compagne. Lucia faceva invece comunella in particolare con due ragazze le quali sembrava avessero stipulato con lei un tacito accordo. Il loro gruppo appariva meno gerarchizzato, potremmo definirlo democraticamente evoluto. Difatti, pur riconoscendo a Lucia un ruolo preminente, le due compagne non assumevano atteggiamenti inclini al servilismo. Per loro risultava naturale uniformarsi e concordare con le scelte di una persona della quale, nutrivano una profonda ammirazione. Fu dinanzi ad una tela del maestro Leonardo che Rose e Lucia assunsero, forse per la prima volta, la medesima espressione accompagnata dalla smorfia che caratterizza il viso quando si pensa senza esclamarlo,“wow che meraviglia”. Gli occhi sgranati, le mascelle allungate e la bocca semiaperta quasi a formare una piccola crepa su dei volti colmi di stupore, rendevano fedelmente le emozioni che quel capolavoro aveva suscitato in loro. Mentre tutti gli altri avevano smesso troppo presto di ammirarla e si affannavano e scalpitavano per apprezzare la Gioconda, attendendo che la fila davanti terminasse l’ispezione per arrivare a non avere nessuno che intralciasse la visuale con il quadro più famoso del Maestro umbro, le due ragazze non riuscivano ad allontanarsi da un’altra magnifica creazione realizzata da questo indiscusso genio. Si trattava della raffigurazione della “Vergine delle Rocce”. E fu davanti a tale opera d’arte che iniziò per loro, uno scambio di pensieri e sensazioni che le accompagnò tutta la vita.
Sembrava fossero state rapite e inserite in una bolla che le isolava dall’ambiente circostante. Iniziarono a commentare la tela disquisendo sul ruolo che secondo loro l’autore aveva voluto dare all’angelo seduto alla destra della Ma­donna posta al centro della tela, e che con la mano destra sostiene Gesù, quasi a volergli dare forza. Per le due ragazze quella figura di giovane ben vestito e dai tratti raffinati e femminili non è altro che la trasfigurazione dell’idea che una presenza costante accompagna la vita di ognuno anche nel caso in cui, come appare nel dipinto, destinatario della protezione è il Cristo. Commentano anche la figura della Madonna che in piedi al centro della tavola supera in altezza gli altri personaggi. Anche in questo caso giungono alla medesima conclusione interpretando la posa assunta dalla Vergine che con il braccio destro abbraccia S. Giovannino e lo ricopre con il suo mantello come un segno di protezione. Erano talmente incantate anche dal loro modo fino ad allora sconosciuto di confrontarsi, da perdere di vista il resto del gruppo che continuava, seppur in maniera disordinata, il percorso all’interno del museo. Ripresero contatto con la realtà solo dopo che una guida interessata a mostrare ai suoi visitatori il dipinto della Vergine chiese loro di spostarsi di lato per poter procedere con il commento e consentire allo stesso tempo ai turisti interessati la visione della tela in tutta la sua interezza. Fu a quel punto che la compagna di banco di Rose le chiamò sollecitandole a raggiungere il gruppo che si accingeva a lasciare il museo. Ancora inebriate dall’esperienza appena vissuta non riuscirono più a dire nulla. Si limitarono a raggiungere ognuna il proprio gruppetto come se nulla fosse successo anche se, inconsciamente, erano consapevoli di aver scoperto una comunanza di intenti che andava necessariamente esplorata e alimentata.
I giorni seguenti trascorsero velocemente, fra giri turistici, viste panoramiche e gustose abbuffate fatte di baguette con formaggi di tutti i tipi. Qualcosa era cambiato nell’atteggiamento di Rose e Lucia, il disinteresse che aveva contraddistinto da sempre la loro mancanza di rapporto lasciò lo spazio ad un diverso modo di considerarsi a vicenda. L’indifferenza fino ad allora manifestata, si tramutò per loro, nella precisa volontà di approfondire quella conoscenza anche se ciò comportava, in una prima fase, lo scrutarsi da lontano. Si erano da sempre considerate troppo diverse per ammettere all’improvviso di avere qualcosa in comune. Erano comunque consapevoli che prima o poi un’altra circostanza della vita, le avrebbe riportate a navigare le stesse acque. Quell’occasione non tardò ad arrivare. Trascorso un mese dall’esperienza francese, si presentò per gli studenti il problema di predisporre la famosa tesina. E fu proprio in tale contesto che riaffiorò nuovamente lo spirito collaborativo e di inattesa complicità delle due ragazze, ponendo il sigillo su un’amicizia che le avrebbe sorrette negli anni a venire.
Rose era forte in filosofia. Sapeva benissimo che puntando sul suo cavallo di battaglia, le difficoltà che inevitabilmente avrebbe incontrato sarebbero state più facili da superare. Piena di entusiasmo per il percorso delineato, presentò alla professoressa di italiano il suo lavoro. Fremeva nell’avere il suo beneplacito che le avrebbe consentito di mettere nero su bianco il groviglio di idee che aveva in testa e che, era riuscita solo in parte a collocare a mo’ di schema in un anonimo foglio di computisteria inserito in quei raccoglitori con gli anelli in metallo. Esageratamente sorpresa, in quanto mai dubbiosa sulla bozza di progetto presentata, nel ricevere l’assenso e i complimenti della docente, baldanzosa fece ritorno a casa convinta che quella che fu una facile conquista non era altro che il preludio di una brillante prova di maturità. Di tutt’altro tenore era lo spirito di Lucia che, nonostante il meritevole percorso di studi quinquennale, arrancava nel delineare le linee guida della propria tesina. Sembrava non riuscisse a trovare un filo logico che riuscendo a fare da collante fra i vari argomenti le consentisse di presentare un preliminare di percorso che, non solo risultasse per lei soddisfacente ma e soprattutto, che potesse incontrare l’approvazione della Prof. di italiano a cui spettava l’arduo compito di indirizzare al meglio l’operato dei suoi studenti.
Ormai Lucia era nel pallone, forse la pressione dell’esame ormai imminente, le offuscava la mente impedendole di ragionare compiutamente. Si rese conto di essere entrata in un circolo vizioso quando all’ennesimo tentativo di ottenere il via per procedere alla stesura della sua tesina la Prof. le tolse ogni speranza tuonando: “Lucia non ci siamo proprio, se continui di questo passo non sarai pronta neppure per il giorno degli scritti, devi darti una mossa oppure saremo costretti a presentare una tesina mediocre”. Queste parole ferirono la ragazza profondamente. Ciò che la scioccava non fu neppure lo sguardo attonito di chi fra i suoi compagni, pur avendo minori capacità, era riuscito a portare a casa il risultato. Il suo rammarico, probabilmente, fu quello di capire di non riuscire a gestire lo stress e la tensione che aleggiano inevitabilmente su ogni prova sia essa scolastica o della vita in genere. Ciò per una ragazza razionale come lei rappresentava un controsenso oltre che una sconfitta annunciata. Anche dal confronto con Rose emergeva qualcosa di irreale. Quest’ultima amante della filosofia e quindi di un mondo affascinante ma privo di certezze sul piano della valutazione oggettiva e dell’indagine concreta degli eventi era riuscita, senza colpo ferire, a realizzare un percorso di tesi salutato con entusiasmo dalla stessa Professoressa che le riservò solo parole di elogio. Lucia, al contrario, razionale e pragmatica amante della scrittura e con capacità di sintesi e di analisi dei testi fino ad allora eccellenti, non era stata in grado di tracciare un semplice indice sommario che le avrebbe consentito di esporre analiticamente gli argomenti proposti. Ma il fallimento che tanto la preoccupava era solo apparente. Forse rappresentava un altro tiro che il destino le aveva riservato non certo per scoraggiarla ma per consentirle di sperimentare quanto a volte ciò che erroneamente viene considerato un limite sia invece un punto di forza. Questo punto di forza non tardò ad arrivare e assunse le fattezze di un aiuto, quello proveniente da Rose.
Quest’ultima non si era più soffermata a parlare lungamente con Lucia dopo l’episodio di Parigi. Si erano limitate a scambiarsi qualche timido saluto pur sorvegliandosi di continuo e in maniera circospetta. Rose del resto avendo assistito, come tutta la classe, alla disfatta di Lucia sulla tesina non se la sentì di fare l’indifferente e, quasi mossa da una spinta inspiegabile, si diresse verso di lei. Era appena suonata la campanella che segnava la fine della giornata di scuola e Lucia si trovava vicino alla rampa di scale dell’ingresso intenta a salutare velocemente le sue amiche per intraprendere a testa china la via di casa. Quel giorno, come solitamente capitava, Rose non prese l’autobus che la conduceva nel paesino dove abitava. Quel pomeriggio lo avrebbe trascorso in città a casa di una zia che compiva gli anni e per l’occasione aveva organizzato una cena con parenti. Fu nell’istante in cui realizzò che era necessario parlare con Lucia che con lo sguardo la vedeva inoltrarsi tra la folla che copiosamente cercava di raggiungere il cancello. Tentò di chiamarla ma invano. Quando, appena varcata la soglia del cancello, era ormai convinta di aver perso il contatto visivo con la figura di Lucia, la scorse dietro l’albero che si innalzava ad un metro dall’ingresso di scuola, intenta ad accarezzare un gattino che all’ombra del maestoso arbusto cercava ristoro. Felice del mancato depistaggio si precipitò in quella direzione noncurante del fatto che il suo irruento gesto avrebbe potuto spaventare il tenero micino. Così fu, l’ignaro mammifero rizzò le orecchie stese le gambine e con un balzo tutt’altro che felino prese una rincorsa quasi dovesse partecipare ad una maratona dissolvendosi fra le sterpaglie che da quel lato lambivano parte dell’edificio scolastico. Lucia indispettita per quell’intrusione maldestra fece una smorfia di disappunto all’artefice della fuga felina e, voltandole le spalle prese a camminare speditamente. A quel punto stupita e ancora scioccata per la reazione del gatto e della sua soccorritrice, Rose cercò di raggiungere Lucia nel tentativo di spiegarle almeno la ragione di quello che sembrava un gesto insano. Appena dietro di qualche metro la chiamò inducendola a voltarsi. Ciò non fu necessario in quanto avendo rallentato l’andatura consentì alla sua inseguitrice di affiancarla nel cammino. Dopo essersi scusata per l’episodio appena verificatosi Rose chiese subito e senza mezzi termini delucidazioni in merito alla difficoltà che incontrava nel presentare una bozza di tesina. A quel punto e senza parlare Lucia si fermò fulminandola con lo sguardo tipico di chi, non solo non è tenuto a dare spiegazioni ma si lamenta dell’invadenza subita. Rose ancora una volta non aveva tenuto a freno la lingua e calibrato bene il suo carattere impulsivo e conscia della mancanza avuta, cercò immediatamente di raddrizzare il tiro rimediando all’offesa arrecata. A quel punto anche il tono della voce da inquisitorio, si fece più cordiale. Fu ricordandole l’episodio accaduto dinnanzi la tela di Leonardo che Rose prese lo spunto per fare insieme a Lucia l’analisi del perché non riusciva a rimuovere quel blocco emotivo che non le consentiva di andare avanti o meglio iniziare il lavoro della tesina. Ed ecco che Lucia ritrovata in quella conversazione l’armonia che sembrava l’avesse abbandonata iniziò ad accennare prima farfugliando e poi in maniera spedita una serie di preoccupazioni che l’affliggevano. Ma proprio quando ogni barriera comunicativa sembrava rimossa conducendo le due ragazze su un piano di piena e travolgente fiducia l’una dell’altra il suono di un clacson irruppe violentemente. Non solo le fece balzare dalla paura come accade quando si è immersi in qualcosa non curandosi del resto ma ciò che è peggio ruppe e nella maniera più brusca quella conversazione così faticosamente cercata. Era la zia di Rose che pensando di farle un favore si era decisa ad andarla a prendere. Fece in tempo salendo in macchina a proporre all’amica un’uscita pomeridiana celando dietro la scusa del desiderio di assaporare il gelato di una nota pasticceria della città, la precisa volontà di concludere il discorso involontariamente interrotto. Inaspettatamente fu Lucia questa volta ad essere risoluta proponendo subito l’ora. Probabilmente non aspettava altro ovvero, che qualcuno non solo si accorgesse del suo malessere ma che le desse la spinta giusta per superarlo.
Quel pomeriggio era particolarmente afoso ma ciò non fermò Rose dall’uscire prima del tempo e raggiungere la piazza antistante la pasticceria dove Lucia le aveva dato appuntamento. Arrivò venti minuti in anticipo nonostante la casa della zia fosse distante solo cinquecento metri. Confermando la sua fama di precisina, Lucia si materializzo alle sedici in punto. Scelsero il tavolino vicino alla fontana che dominava la piazza e consentiva di godere del refrigerio dato da qualche schizzo d’acqua che raggiungeva chi la lambiva ogniqualvolta il getto terminava il suo volteggio arcato per aria. Si misero a parlare come se fosse, per loro, la cosa più naturale al mondo. L’oggetto della conversazione fu soprattutto “il dopo” esame e cosa avrebbero fatto una volta uscite da quel mondo ovattato rappresentato dalla scuola. Lucia esternava il suo desiderio di entrare nel mondo del giornalismo che tanto la affascinava mentre Rose confermava lo smisurato interesse per la filosofia, disciplina capace di dare delle risposte ancor prima di porsi delle domande le quali il più delle volte lasciano più interrogativi di quanti ne possono dirimere ponendole. Solo verso la fine del loro incontro e senza che entrambe si preoccupassero di ricordarla venne menzionata la tesina. Quasi per caso Lucia si lasciò andare ad una sorta di auto-rimprovero quando rivolgendosi a Rose la stupì decretando la sua leggerezza nel parlare del dopo non riuscendo ad affrontare il presente. Era evidente che l’allusione era riconducibile alla sua incapacità di portare a termine e in maniera corretta la tesina. Quasi fosse alle prese con una seduta dallo psicologo, diede sfogo a tutte le sue paure e i suoi timori mentre dall’altra parte Rose, diveniva destinataria inconsapevole di uno sfogo che avrebbe redento sul piano emotivo la sua nuova amica. Lucia aveva solo necessità di liberarsi di un peso dato dall’incapacità di ascoltare sé stessa pur avendo una dote innata nel prodigarsi per gli altri. Questa volta era lei ad avere bisogno di aiuto. Sostegno che le venne dato, senza fra l’altro richiederlo, dalla persona più lontana a lei ma forse solo apparentemente. Erano giunte le diciotto e con un po’ di esitazione seppur con decisione Rose interruppe quella sorta di confessione ricordandosi che aveva promesso alla zia che l’avrebbe aiutata per la festa di compleanno. A quel punto Lucia anche un po’ imbarazzata per aver monopolizzato la conversazione e in colpa per aver raggiunto in solo due ore quella tranquillità che cercava da giorni e, grazie all’intervento di una persona che aveva sempre criticato, fece una richiesta a Rose. Le propose di accettare l’offerta di un gelato che avrebbe suggellato l’inizio del loro legame di amicizia. In realtà Rose, avendo già preso poco prima un tè freddo anche per sopportare quella interminabile conversazione, non ne avvertiva l’esigenza. Tuttavia non le sembrava corretto rifiutare e optò per un cono al limone. Lucia prese il cono alla stracciatella che non gustava da anni. Il suo fu un test. La tesina non era altro che la punta di un iceberg fatto di tanti momenti negativi che si sciolse come il cono che aveva tra le mani il quale, secondo le antiche abitudini, finiva troppo presto. Solo in quel momento si rese conto di essere uscita da quel buco nero che l’aveva inghiottita tempo fa ma che solo negli ultimi mesi non le consentiva di scorgere neppure uno spiraglio di luce.
Le ragazze si salutarono dandosi appuntamento a scuola la mattina seguente.
I giorni trascorsero in fretta portando, inevitabilmente, dei cambiamenti. Lucia presentò la tesina che venne approvata in pieno, i rapporti fra le due ragazze si rinsaldarono dando luogo ad un gruppo unico del quale loro erano le leader indiscusse ma, soprattutto, si respirava un clima sereno del quale giovava tutta la classe. Passarono indenni i giorni dello scritto e venne reso noto il calendario delle prove orali. La lettera sorteggiata indicava Lucia come la prima ad affrontare l’esame mentre Rose, lo avrebbe sostenuto qualche giorno dopo. Alla prova di Lucia era presente tutta la classe. Comportamento ritenuto da tutti indispensabile, per capire l’atteggiamento della commissione. La performance confermò la bravura di Lucia la quale ricevendo fra gli altri anche gli auguri di Rose la vide seriamente turbata. La sua era un’angoscia non legata all’aver assistito all’orale della compagna, ma una sensazione di malessere che si portava dietro probabilmente dagli scritti ma che esplose di botto quella mattina, alla vista della commissione interamente schierata. Lucia capì che non si trattava di un turbamento momentaneo e si fece promettere da Rose di chiamarla nel caso avesse ravvisato la necessità di ripetere quanto fatto o semplicemente per gestire l’ansia.
La notte che precedette la sua ultima prova fu per Rose un vero martirio. Al mattino si ripeté che se avesse passato indenne e senza brutte sorprese la giornata che stava iniziando, sarebbe stata in grado di affrontare tutto ciò che la vita le avrebbe riservato. In realtà una sorpresa la ricevette.
Prima che iniziasse la seduta, Rose vide fare capolino dalla porta del corridoio nel quale erano state disposte sedie e banchetti per la sosta di chi non voleva assistere alle performance e dei parenti, Lucia. Nonostante l’agitazione e quel malessere che non le dava tregua, Rose accolse con un caloroso sorriso quell’inaspettata presenza. Nonostante il rapporto instaurato non immaginava certo la partecipazione di Lucia alla sua prova, tutt’al più si sarebbe aspettata una telefonata a fine giornata immaginandola già ad assaporare le meritate vacanze. Il suo arrivo fu provvidenziale come la pausa chiesta dalla commissione dopo la prova di soli tre esaminandi. Fu a quel punto che Rose si alzò di scatto dalla sedia posizionata all’ingresso dell’aula mossa dalla necessità di prendere aria. All’improvviso una vampata di calore le percorse tutto il colpo salendo fin sopra il viso accompagnando il tutto da un senso di oppressione e di mancamento allo stesso tempo. Lucia capita la situazione non si fece prendere dal panico e cercò di calmare l’amica prima, facendola sedere sullo scalino della scuola le cui foglie dell’albero che ergeva accanto facevano ombra e poi, con la bottiglietta d’acqua che si trovava fra le mani bagnò un fazzoletto passandoglielo sulla fronte. Preoccupata anch’essa per la scena a cui aveva assistito, l’anziana bidella con fare materno si avvicinò alle ragazze chiedendo se avessero necessità di qualcosa. Rose rispose subito negativamente aggiungendo di voler tornare a casa. Lucia licenziò affettuosamente la signora non prima di averle chiesto la cortesia di un bicchiere d’acqua con zucchero. Rimasta sola con l’amica, decisa a non voler sostenere la prova, Lucia scosse Rose in maniera tanto brutale quanto efficace. Principalmente fu una frase che incise sull’orgoglio ancora non del tutto spento dell’incredula malcapitata. Sentendosi dire che solo i codardi non affrontano le prove della vita e che se si scappa una volta lo si farà sempre, Rose percepì nettamente il biasimo che aveva suscitato il suo comportamento in Lucia e che quello con cui avrebbe dovuto fare i conti sarebbe stato il rimpianto di chi può scegliere di cambiare in meglio la propria vita e invece decide deliberatamente di danneggiarla. Non tutti hanno la fortuna di avere la possibilità di scegliere, c’è chi purtroppo deve sottostare ad un destino avverso che decide per lui e al quale non v’è rimedio. Passò qualche secondo ancora prima che quel momento di intorpidimento lasciò la mente di Rose restituendo vigore alle sue membra come se fosse pervasa da nuova linfa vitale. Si alzò di scatto rovesciando la bottiglietta adagiata accanto ai suoi piedi diretta a sostenere quella prova che l’aveva indotta a dubitare della sua capacità di autodeterminazione. La seguiva soddisfatta e orgogliosa Lucia. Salirono la prima serie di scalini che si sentirono chiamare alle spalle. Era la bidella che ai piedi della rampa aveva il bicchiere di plastica in mano con quella miscela che da sempre, risulta la panacea rudimentale di ogni male. Per cortesia Rose bevve il suo contenuto e si diresse frettolosamente verso l’aula d’esame pronta e decisa a spiegare le ragioni del suo momentaneo allontanamento. In realtà era ancora vuota, forse ciò che per Rose fu un periodo di tempo interminabile per la commissione, risultava un lasso di tempo ragionevole per concedersi un po’ di ristoro. Non trascorse molto che comparvero i professori quasi in fila indiana. Dopo uno sguardo d’intesa con Lucia e appena sentito pronunciare il suo cognome dal Presidente, Rose si diresse verso quella sedia che avrebbe dato le spalle anche a chi quella mattina, l’aveva aiutata a ritrovare ciò di cui c’è bisogno in questi momenti, il coraggio.
Fu un orale esaltante per chi lo sostenne e per i professori che incantati dalla capacità dialettica della candidata vennero rapiti completamente dal suo eloquio tanto da limitarsi ad annuire con compiacimento venendo anticipati nelle domande dalle repentine osservazioni di Rose che padrona di sé stessa e della situazione riuscì a pilotare la sua interrogazione lasciando tutti a bocca aperta. Il “può accomodarsi” che accompagna la conclusione della prova fu seguito da un fragoroso applauso che partendo dagli ultimi banchi della classe la coinvolse tutta e non fu interrotto dal Presidente che se per imparzialità non partecipò all’applauso non fece nulla per interromperlo prima del tempo. La prova orale fu un successo per Rose che volle condividere quel momento con chi l’aveva accompagnata nell’ultimo tratto di un viaggio che non si sarebbe certo fermato nella “stazione della maturità”. Un abbraccio lungo e intenso spiegò più di mille parole la gratitudine che provava per quell’amica scoperta troppo tardi ma che le aveva regalato quella mattina, ciò che a volte tanti anni di conoscenza non danno. Una mano se tesa per aiuto non verrà ignorata perché ancor prima di tenderla ci sarà chi ti aiuterà a sollevarla. In ciò risiede il segreto di un sostegno condiviso.
Spesso, quando si attraversa un momento buio, ci si dispera nella ricerca o meglio nella pretesa di ottenere una risposta in termini di interessamento altrui. Basterebbe soffermarsi a riflettere per capire che a volte anche il raggio della propria consapevolezza può squarciare il manto nero della disperazione più di quanto un’attesa inerme non lo renda infinito allargando le maglie della rassegnazione.
Sia Rose che Lucia, seppur in momenti diversi del loro percorso scolastico, si sono trovate nella necessità di sperare in un aiuto ed entrambe, senza chiederlo, lo hanno ricevuto l’una dall’altra.
Il termine di quel ciclo di studi rappresentò per queste due amiche l’inizio di quel viaggio verso l’esplorazione di un mondo fatto di aspettative, impegni, fatica e limiti. Il successo o meno del loro cammino, non sarebbe stato certo misurato dalla sola capacità di raggiungere un obiettivo ben preciso. Conseguire la meta è fondamentale, ma lo è ancor di più la consapevolezza di come e se continuare ad inseguirla. Durante un percorso molte cose possono mutare e con esse, anche la volontà che inizialmente le aveva determinate.
L’essere umano è capace di tanti virtuosismi comportamentali. Il mettere in discussione la propria esistenza per come la si era concepita, è uno dei cambiamenti che gli riesce meglio.

[continua]


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