Aspromonte - Storia di un sequestro e filosofia della liberazione

di

Domenico Livoti


Domenico Livoti - Aspromonte - Storia di un sequestro e filosofia della liberazione
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
15x21 - pp. 408 - Euro 17,00
ISBN 978-88-6587-1942

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In copertina: fotografia dell’autore


L’Aspromonte, negli anni Ottanta e Novanta, divenne tristemente famoso per i sequestri di persona.
Questo libro racconta la seconda avventura del colonnello Noli e dei suoi amici, che avevano creato a Villa Arancia, in Sicilia, un affiatato gruppo d’azione contro l’imperversare della malavita al sud.
La Calabria è una regione aspra e difficile, ma è piena di miti, leggende e tesori inestimabili che riposano tra le pieghe della sua Storia millenaria.
Io ho cercato di sollevare appena lo scrigno delle dolcezze e delle asprezze di questa Regione ancora misteriosa.


Inno all’Aspromonte


Che colpa hai
se il tuo nome è Aspromonte?
Che colpa hai
se una Saba Sibilla
ha scelto le tue vette
per un’antica vendetta?
Che colpa hai
dei misfatti degli uomini,
che si nascondono poi tra i tuoi anfratti?
Tu ti sei elevato
per osservare le coste dei due mari,
ti sei elevato
per avvicinarti al cielo,
ti sei elevato
per coglier meglio i raggi di luna
che fanno la guardia ai tuoi tesori.
Dov’è la divina Persefone di Locri,
che conobbe gli Inferi e l’amore di Plutone?
Perché non torna nella Primavera
e non trionfa nell’estate aspromontana?
Profuma di gelsomino e bergamotto
la costa del mar Ionio,
e ospita le scorribande dei pescispada
la costa viola del mar Tirreno,
ma tu, monte aspro e difficile,
conosci l’acre odore della malavita,
e non basta una coltre di neve
o la pazza follia dell’estate
per godere dei privilegi delle altezze!


Aspromonte - Storia di un sequestro e filosofia della liberazione


A Luciana e ai miei figli


“La più alta forma di moralità è sentirsi
estranei in casa propria.”

W. Adorno


PREMESSA

L’Aspromonte, negli anni Ottanta e Novanta, divenne tristemente famoso per i sequestri di persona.
Questo libro racconta la seconda avventura del colonnello Noli e dei suoi amici, che avevano creato a Villa Arancia, in Sicilia, un affiatato gruppo d’azione contro l’imperversare della malavita al sud.
La Calabria è una regione aspra e difficile, ma è piena di miti, leggende e tesori inestimabili che riposano tra le pieghe della sua Storia millenaria.
Io ho cercato di sollevare appena lo scrigno delle dolcezze e delle asprezze di questa Regione ancora misteriosa.


I

Chi ama ragionare con il tempo potrebbe trovare le sue tre dimensioni in un solo secondo.
Il presente, il passato e il futuro hanno confini molto labili e fluiscono senza requie.
Siamo noi uomini a creare le soste, quando fissiamo la nostra attenzione su un unico fatto, un’unica impressione, un’unica sensazione o un unico sentimento.
Si racconta di un uomo il cui pensiero era rimasto fisso sul volto della giovane moglie, che era appena morta.
Quando accadde qualcosa che lo distrasse, si guardò allo specchio e si ritrovò vecchio e stanco, con infinite rughe sul viso.
Un pensiero lo colse allora d’un tratto: “Dunque la morte è vicina!”
E un sorriso distese i suoi lineamenti.
L’uomo è capace di cose inimmaginabili, persino di sciupare la sua quota di tempo in un unico pensiero.
Ma il tempo non si ferma mai, fluisce, scorre e ricama la sua tela sul volto del mondo.
Il barone Puntalacava aveva creato il suo paradiso nella contemplazione del passato, ma il presente tesseva le sue trame, inesorabile e imperturbabile.
La strada, che dalla dimora avita portava all’azienda baronale, si inerpicava su promontori di selvaggia bellezza, per poi inabissarsi ancora fino a sfiorare dune ammassate da marosi furiosi e incontenibili.
Infine si sarebbe riposata in un’improvvisa piana, formata in tempi non estremamente remoti dalle inondazioni di una fiumara dal temperamento capriccioso.
In un tornante oltremodo suggestivo, che portava in cima a un promontorio, Andrea Puntalacava, il giovane figlio del barone, fu costretto a una brusca frenata, perché un pulmino si era messo di traverso, apparentemente per un incidente stradale, perché il guard-rail risultava ammaccato, come pure la parte anteriore sinistra del veicolo.
Lo sportello dalla parte dell’autista era aperto e un paio di gambe spuntavano da sotto il pulmino.
Andrea, dopo la frenata, accostò il fuoristrada.
– Colonnello, un incidente! – esclamò nello stesso tempo.
Il colonnello Noli, ospite del barone, scese veloce dalla macchina e insieme ad Anna, la sua compagna, corse verso l’uomo steso per terra.
Andrea li seguì subito dopo.
L’autista stava supino sull’asfalto senza mostrare evidenti ferite, e gli occhi vigili del colonnello in un soffio registrarono ben quattro incongruenze.
La posizione dell’automezzo non corrispondeva all’idea dell’incidente stradale che tutta la scena voleva suggerire.
Un poliziotto avrebbe subito capito che dopo l’urto contro il guard-rail un’altra doveva essere la posizione del mezzo nella curva.
Il colonnello ci arrivò contemporaneamente ad altri allarmi che lo colpirono in modo spiacevole.
Si dice che l’occhio umano riesca a cogliere, in un’unica visione globale, fino a ben quattro particolari.
Per afferrarne cinque deve ricorrere a un’operazione cerebrale.
La posizione dell’uomo sull’asfalto fu l’altro particolare allarmante.
Dopo, ritornandoci su col pensiero, il colonnello riuscì a ricostruire nei minimi particolari in che cosa era consistito quel secondo allarme che lo aveva messo in guardia.
I muscoli non erano completamente rilassati e la sagoma non suggeriva un corpo proiettato sull’asfalto dopo l’urto dell’automezzo.
Il viso era rivolto verso il punto da dove sarebbero giunti loro, e le mani, le mani rivelano sempre le vere intenzioni di un essere umano.
Esse erano in tensione, aperte e pronte, vogliose di afferrare l’attimo, impazienti e riottose.
Mani di un uomo d’azione, che predilige i fatti ai pensieri, mani veloci, mani prive di scrupoli.
E poi il silenzio.
Un silenzio innaturale come è sempre quando l’uomo interviene in modo perentorio per far valere le sue ragioni.
Su un promontorio dove impera la macchia mediterranea c’è sempre una sinfonia di suoni, fruscii misteriosi, tra le ginestre e gli arbusti spinosi, frulli improvvisi di ali, stridii di insetti dalle forme fantascientifiche, e così via.
A dire il vero, in macchina, non sempre si percepiscono questi suoni, ma una volta giù dal mezzo meccanico la sinfonia esplode in tutte le sue tonalità.
Lì, in quella curva, c’era un silenzio irreale.
E, per finire, l’aria di disarmo che il pulmino presentava era il quarto particolare.
Il colonnello in seguito esploderà:
– Un maledetto colpo da dilettanti! –
L’occhio aveva recepito quella trasandatezza, le gomme addirittura sdrucite, uno straccio di targa di prova, la carrozzeria tenuta assieme da fili di ferro. Insomma un reperto da rottamaio, che doveva servire solo per la messinscena.
– Incredibile come ci sono cascato! – si lamenterà in seguito il colonnello con il barone – Ha ragione lei, non ci si può fidare del presente. E io, che di lezioni del genere ne ho avute tante, questa volta ho fatto la figura del merlo!
Guai a rilassarsi! – concluse poi.
Fatto sta che quando tutti e tre, il colonnello, Anna e Andrea, si chinarono sull’uomo, questi balzò in piedi con un’automatica in mano, mentre dall’altra parte del pulmino saltarono fuori, prendendoli alle spalle, altri due uomini incappucciati e armati di fucili a canne mozze.
Tutto si svolse in fretta e in un’esaltazione incredibile.
I due uomini immobilizzarono il colonnello e Anna con dei lacci intorno al collo, mentre Andrea veniva costretto a seguire il finto ferito per raggiungere un’auto nascosta dal tornante.
Neanche una parola fu pronunciata.
Fu invece un incrocio di fischi laceranti che arrivavano dalla sommità del promontorio, dal basso, addirittura dalla scogliera imponente battuta dal mare, dai cespugli e da dietro i pini marittimi che si elevavano di tanto in tanto con la loro chioma forgiata dal vento.
Un’altra bordata di fischi fu il segnale di spingere il pulmino fuori strada e giù lungo il pendio selvaggio.
Il colonnello e Anna, bendati com’erano in mezzo alla strada, sentirono i sobbalzi del mezzo giù per la china e l’esplosione finale.
Poi qualcuno li guidò verso il bordo interno della strada, una mano cercò la tasca della camicia del colonnello, vi ficcò dentro un foglio e tutto svanì.
Quando di nuovo ricominciarono i fruscii e le cicale rifecero sentire il loro verso, il colonnello si azzardò a parlare:
– Anna, mi senti? –
– Sì, Bruno, cosa devo fare? Posso urlare ora? –
– No, Anna, resisti ancora un po’! Avvicina la tua bocca alla mia bocca. Cercami con la testa! Io mi siedo per terra per facilitarti il compito! –
Anna cercò con il volto coperto il corpo del colonnello, gli si strusciò addosso e cercò di piazzare la benda che l’accecava all’altezza della bocca di Bruno.
Alfine ci riuscì, e con i denti, dopo alcuni sforzi e vani tentativi, la benda fu tirata via.
Fu poi la volta di Anna di eseguire lo stesso lavoro.
In giro non c’era nessuno e il fuoristrada di Andrea era ancora lì dove era stato accostato.
– Uff! Adesso pensiamo a slegarci! – imprecò il colonnello – Siamo incappati in un bel sequestro di persona, accidentaccio cane! –
Sulla jeep aveva notato alcuni strumenti da lavoro agricolo, tra cui un falcetto.
Con enormi sforzi riuscì ad aprire la portiera e ad afferrare il falcetto.
Poi lo incastrò sotto il sedile e infine con grande pazienza cominciò a segare le corde che gli attanagliavano i polsi.
Il tutto era reso più difficile dalla corda che gli circondava la gola.
Erano infatti stati incaprettati, però molto alla buona.
Lo scopo era quello di rallentare al massimo le operazioni di slegatura, ma senza recare troppo danno alle vittime.
Esse dovevano avvisare il barone dell’avvenuto sequestro, quindi era importante la loro incolumità.
Anna seguiva con apprensione le manovre di Bruno e intanto un lieve pianto le aveva bagnato gli occhi.
Un pianto in sordina, da donna abituata alle violenze della vita, ma pur sempre sensibile e sempre attonita davanti alle tragedie che gli uomini erano capaci di mettere in atto.
– Ecco fatto! – esclamò alfine il colonnello – Adesso ti libero, Anna. Poi ti permetterò di piangere sulla mia spalla.
Ormai non c’è più tempo per tentare un inseguimento. Dobbiamo tornare al palazzo, dal barone, e dargli la brutta notizia.
Aveva ragione il vecchio di temere il presente. Ma ormai dovrà uscire allo scoperto e fare meglio i suoi conti con il tempo! –
E mentre tirava fuori il biglietto con su stampigliato alla bell’e meglio “questo è un sequestro”, i denti gli spuntarono fuori, bianchi, in un ghigno crudele e disse:
– Adesso faremo vedere al barone e a questi signori come si affronta il futuro! –


II

Tutto era cominciato nel salotto di Villa Arancia, in Sicilia, durante una delle ormai famose serate d’intrattenimento che il colonnello e Anna avevano fortemente voluto.
C’erano mons. don Giuseppe, il maresciallo Foti, il papà di Anna, il braccio destro del colonnello, Francesco Lo Presti, la sua compagna Monica e pochi altri privilegiati.
Il colonnello Bruno Noli, ufficiale di carriera di prestigio della Brigata paracadutista Folgore, andato in pensione anzitempo per incomprensione e incompatibilità con i superiori, aveva voluto riprendere, in quella magnifica villa borbonica ricevuta in eredità, le sue vecchie consuetudini di ospite raffinato e mai sazio di sapere che lo avevano reso famoso e temibile nel I° rgt par. negli anni ’70.
In quelle splendide serate, a Villa Arancia, non mancavano giovani laureati del posto, tecnici, specialisti dei vari settori dell’agricoltura e del terziario avanzato e persino diafani seminaristi e giovani studenti tunisini che in Sicilia si adattavano spesso ai lavori più umili nelle campagne.
Una sera, per quegli strani voli che la conversazione prende all’improvviso, il gruppo si divise tra Parmenidei e seguaci dell’Oscuro Eraclito.
Qualcuno aveva sentenziato:
– Dopo Eraclito e Parmenide nessuno ha più detto qualcosa di valido.
In seguito tutti sono andati dietro all’Essere di Parmenide o hanno tentato le vie del divenire di Eraclito! –
Fu la classica scintilla che fece divampare un incendio.
Anna e Monica non ebbero dubbi:
– Io amo il divenire e tutto ciò che di bello e di esaltante racchiude questo verbo! – non esitò a dire Anna.
– E io non amo forse il contrasto che dietro le famose parole di Eraclido si nasconde? La vita è una lotta continua ed è bella perché si combatte. L’Essere è troppo statico, mi fa quasi paura! No, no io sono dalla parte di Eraclito! – aggiunse Monica.
La discussione si fece così accesa che dovette intervenire il papà di Anna.
– Sarà perché ho una certa età, – disse l’anziano proprietario terriero ed esperto agricoltore – ma io non sarei così netto nella formazione di due eserciti contrapposti. So che in questo modo la scelta è più facile e ci si può riflettere sulla faccia dell’avversario. L’antagonista serve sempre per meglio conoscersi e capirsi. Se io riesco a individuare i miei nemici so già qualcosa in più del mio essere! Ma io non sono più portato a vestire le armi, semmai mi si addicono i panni del mediatore, di colui che cerca la pace perché troppe guerre ha visto e ora il cuore è colmo di saggi proponimenti. In fin dei conti è questo che bisogna pretendere dai vecchi: un po’ di saggezza per capire meglio come stanno le cose a questo mondo.
Io perciò medierei le due posizioni. Troppo avventuroso Eraclito, troppo noioso Parmenide. Cercando una via di mezzo si può costruire un uomo veramente soddisfatto perché capace di cogliere qualcosa del segreto della sua creazione! –
E poi prese la parola il colonnello Noli:
– Io credo che la vita sia un viaggio tra il Nulla e l’Essere attraverso la giungla del tempo!
La caratteristica della vita umana infatti è che si svolge nel tempo: c’era una volta… c’è stato un tempo…tempo verrà… eccetera.
Don Giuseppe direbbe che il tempo è cominciato con il peccato di Adamo. E io potrei essere d’accordo nel senso che il tempo è diventato la condanna dell’uomo o una prova. Il modo in cui l’uomo vive il tempo gli assicurerà la pace nell’Essere o la perdizione nel Nulla.
Fatta questa premessa, – continuò – la mediazione di cui parla don Peppino potrebbe quindi consistere nel dare un valore al divenire, altrimenti sarebbe veramente una grande disperazione non poter dare un senso allo scorrere del tempo!
E il senso è questa possibilità, questa libertà, che ancora ha l’uomo di sciogliere i legami del mondo e potersi avviare sui sentieri dell’Essere.
Se penso che già più di duemila anni fa un uomo ha potuto parlare dell’Essere, io rimango stupito. Come ha fatto? Quali vicende ha vissuto? Quali pietre sacre ha calpestato? Quali panorami hanno visto i suoi occhi? È veramente meraviglioso!
È vero, dopo Eraclito e Parmenide ci sono stati solo vuoti balbettamenti e insensati vaneggiamenti.
Tutto era già stato detto!
Un giorno vorrei anch’io calcare i sentieri che ascoltarono muti le parole del grande Maestro! –


III

Fu così che il colonnello Noli, mentre a piedi nudi calcava le pietre, antiche di 2500 anni, che dalla Porta Marina conducevano all’acropoli di Elea, si trovò a recitare:
– L’Essere è, il non Essere non è! –
“Nel tratto che va da Punta Licosa a Capo Palinuro c’è un villaggio di pescatori, Marina d’Ascea”.
Il colonnello, che a Villa Arancia in Sicilia aveva organizzato un formidabile gruppo di opposizione a ogni modo di vivere sotterraneo, inquinante e mafioso, e la sua compagna Anna avevano volentieri seguito il consiglio di De Crescenzo e avevano imboccato la provinciale che da Casal Velino porta al villaggio.
Nel loro animo sensibile si era scolpito a lettere di fuoco un invito, come quello che ferma i passi del pellegrino sulle tombe degli eroi delle Termopili.
“Volgi i tuoi passi frettolosi, viandante del duemila, – suggeriva l’invito – per i sentieri divini che furono calcati da Parmenide, favorito degli dei, che osò violare i confini del pensiero e volare al di sopra degli ingannevoli sensi.
Togli le scarpe e sulle nude pietre del tempio conforma i tuoi piedi alle orme del Maestro.
Lassù scoprirai la saldezza dell’Essere e capirai il destino del mondo e dell’uomo!”
– Qui Parmenide insegnava a Zenone che tra l’essere e il pensare non c’è differenza! – spiegava rapito il colonnello a un’Anna dal sorriso leggermente scettico – Mai più un filosofo è stato capace di racchiudere in poche parole la potenza e la dignità di essere uomo! –
Faceva loro da guida Andrea, giovane e dinamico figlio del barone Puntalacava, che conduceva un’azienda agricola all’avanguardia nella piana di Phaestum.
Andrea si era appena laureato in Agraria a pieni voti presso l’Università cattolica di Piacenza.
Aveva respirato le brume della Padania e osservato avidamente le innumerevoli aziende agricole della zona.
Aveva percorso le vie del centro di Piacenza con la rituale candela accesa in testa, quando era ancora una tremebonda matricola, e aveva fatto l’amore con una dolce ragazza del nord che l’adorava come se fosse un dio del sud emerso dalle limpide acque del Tirreno meridionale.
In effetti Andrea aveva un fisico di tutto rispetto, addirittura dai colleghi era chiamato “il terzo bronzo di Riace”, e aggiungevano ghignando “quello che si è spaventato dell’enorme pubblicità ed è riuscito a scappare dal Museo di Reggio Calabria”.
Oltre a essere stato uno dei migliori studenti dell’Università, Andrea aveva gareggiato a livello nazionale e internazionale nelle gare di fondo, 5.000 e 10.000 metri, e in quelle di cross.
La sua falcata era leggera e potente, e tra le marcite della piana di Piacenza o lungo i sentieri che si intersecavano nei pressi degli argini del Po, la sua figura saettante era divenuta familiare, e più di una mano si era alzata a salutarlo dall’alto di un trattore.
Anche Laura studiava Agraria a Piacenza.
La passione per questa Facoltà le era venuta esplorando le montagne che circondavano come giganti buoni il suo paese.
Si elevavano improvvisamente verso il cielo come se volessero dare un ultimo sguardo al sole che tramontava troppo presto dietro la linea frastagliata di altri monti lontano. A pochi eletti concedevano la stessa voluttà di lanciare gli occhi sempre più al di là, al di sopra dei mari di nuvole che a volte si stendevano pigri appena sotto le loro cime.
Gli eletti erano coloro che amavano il silenzio assoluto delle vette, il bianco abbacinante dei ghiacciai e l’orrido che si nascondeva a ogni passo.
Lì, sulla vetta, un uomo avrebbe capito qualcosa in più della natura umana e del mondo che lo accoglie.
Lì, nei regni del sublime, l’audace si sarebbe immerso nell’azzurro vivo di un cielo più vicino e i raggi del sole per primo lo avrebbero inondato all’alba per poi infiltrarsi tra le pieghe delle valli alla ricerca della piantina più nascosta o dei fili invisibili dei sentimenti al di là del vetro di una finestra.
La montagna ha un suo fascino particolare ed è soffusa come di mistero.
Mai completamente penetrabile, mai completamente alla mercè dell’uomo.
Sovrasta i sogni degli uomini e si erge a baluardo dell’inviolabilità della natura.
Ed è imprevedibile.
Chi ama la montagna non può non aver provato la sensazione di essere preda di una forza superiore che a ogni istante potrebbe stritolarlo.
Le nuvole si sfilacciano a volte come se fossero dipanate da mani invisibili di giganti impazziti oppure si addensano all’improvviso veloci come il pensiero.
I panorami si nascondono e l’animo viene risucchiato dentro dalla nebbia repentina che ti avvolge e non ti fa nemmeno vedere il punto dove posare ormai l’incerto piede.
E la furia del vento tra gli anfiteatri ciclopici a volte ti schiaccia al suolo o tenta di regalarti l’ultima pazzia del volo.
O la vertigine traditrice ti svuota la testa e ti vela lo sguardo mentre la malìa dell’abisso ti ipnotizza e vorresti affidarti ad esso come all’ultima consolazione.
Ah, la montagna!
L’estasi dell’ascesa, la compatta potenza del granito che si innalza alla conquista del cielo e ti sfida con i suoi muscoli gonfi di arrivare lungo le sue vie impossibili all’esaltazione della cima!
Quando Andrea si inerpicò con Laura su per i sentieri delle Alpi Retiche non poté fare a meno di tentare un confronto con la vastità, l’imprevedibilità e la forza del mare.
L’annichilimento che si prova ad andar su una barca solitaria verso l’orizzonte Andrea lo paragonò a quello smarrimento che il suo spirito sensibile percepì quando dal trivio Fuentes si inoltrò nella Valchiavenna.
Si ricordò Andrea di quel vago senso di profanazione sul mare e si sentì spiato, incuneandosi nella valle, da mille occhi che lo frugavano fin nei più recessi angoli del suo essere.
Dapprima gli mancò il profilo dell’orizzonte che concedeva pace e respiro.
Poi nei giorni appresso gli mancò la palla di fuoco del sole che si adagiava sulla superficie del mare inondandolo di dolce luce rosata.
Il tramonto nella valle lo fece trasalire nei rintocchi delle campane che si rincorrevano su per i boschi e per i declivi rocciosi.
Il cielo lo cercò in alto e confuse spesso le stelle con le luci dei paesini arroccati tra le balze delle montagne.
Chiavenna si offrì al giovane inizialmente con questo miscuglio di sensazioni.
Vide case sfidare l’erta salita dei monti, vide un fiume lottare tra i massi erratici e morene gigantesche, vide uomini dal passo deciso andar per le vie col volto in su, avvezzi com’erano a cercar per i sentieri spesso invisibili un segno di vita che rompesse il silenzio immortale della montagna.
Imparò a raccogliere meglio i torrenti del suo cuore al riparo di una parete di granito.
Imparò che la montagna, oltre a forgiare fisicamente e spiritualmente un tipo di uomo, interviene anche sulle corde vocali creando voci profonde e basse o tenori cristallini come ruscelli perché di essa si possa cantare come si deve nei cori alpini.
Imparò ad amare la maestà di un faggio centenario e il verde smeraldino dei prati.
Imparò a trovare, all’ombra degli abeti o nella discreta penombra delle felci o nella calda accoglienza del muschio, quei fiabeschi ombrelli profumati che spuntano d’incanto dalla terra.
Imparò a rimanere in silenzio davanti alla sagoma di un porcino e provò anch’egli quel senso di disagio quando alfine la mano impaziente lo sottraeva dal suo magico alveo.
Ma soprattutto imparò a ritmare il suo respiro sulle infinite scalinate, opera di mitologici ciclopi, verso paesini nascosti nel verde e nel silenzio della montagna.
Fu così che scoprì l’amore per le corse di montagna e ogni venerdì sera lui e Laura lasciavano Piacenza, avvolta nella bruma padana, per inoltrarsi nella Valchiavenna, dove Andrea si allenava sui percorsi montani, e la sua figura cominciava a essere amata da un ambiente pieno di riserbo e di suggestioni.
Quando nei sogni si formano nuovi panorami fantasiosi come scenario ad atti e parole indecifrabili; quando cominci a confondere i visi delle persone e non ti ricordi più se esse vivono al tuo paese d’origine o in quello d’elezione; quando non fai più fatica a cogliere il senso di una battuta in dialetto; quando quella sensazione di smarrimento iniziale si converte in un sospiro di protezione e di conforto; quando gli abissi ti attirano per un lancio col parapendio, e le “gande” ti stimolano ad esplorarle per scoprire rifugi confortevoli per un attimo di intimità con la tua ragazza; quando il rosso fuoco di un faggio in autunno ti suggerisce gli stessi pensieri di un tramonto mediterraneo, allora capisci che il mondo non è fatto per il nord, per il sud, per l’est o per l’ovest, ma è fatto per l’uomo, che è lì che ti aspetta, che ha voglia pure della tua umanità, e scopri volti allora che ti sorridono e bocche che si aprono per svelarti i loro segreti.
E non esiste mare, montagna, pianura, ma solo l’uomo con i suoi sogni, le sue paure, le sue certezze, le sue incomprensioni.
La scoperta di Andrea fu quella della femminilità di Laura che gli sgombrò l’animo da tutte le remore sessuali del maschio meridionale e che gli si affidò e rivelò con tutta la fiducia e la dolcezza di un adorante agnellino.
Fu come se Andrea di questa parte femminile del mondo non avesse mai capito niente.
Riprovò le stesse sensazioni di smarrimento di quando si era inoltrato per la prima volta nella valle.
La donna è veramente un altro pianeta.
Come il mare e la montagna anch’essa non è mai interamente conoscibile e prevedibile.
In un sol colpo si aprirono davanti a lui spazi infiniti, lì tra le montagne, con quella donna che era nata all’ombra di esse.
Si sentì addosso l’eccitazione dell’esploratore condita con un minimo di paura e di esitazione.
E si buttò a capofitto nella nuova impresa.
Scoprì che la donna non conosce vie di mezzo, ama gli estremismi perché forse ha paura della mediocrità e del solito tran tran.
Le donne devono per forza odiare il giusto mezzo di Aristotele!
La donna ama le esaltazioni, è quella che vuole provare sempre tutto, e non desta meraviglia se nei vari campi essa ha raggiunto eccelsi risultati.
Questa smania la divora dentro e la costringe alle più alte manifestazioni dello spirito o alle più abiette deformazioni della carne.
La serenità non è di casa in un corpo di donna, tranne in un solo periodo, quello della maternità, nel quale è come se il mondo intero con i suoi misteri penetri dentro di lei invogliandola a ripiegarsi su se stessa e finalmente a riposare serena.
Andrea dapprima fu spaventato dall’imprevedibile vitalità di Laura, alcune volte ne rimase sconvolto e l’animo vacillava e correva giù giù verso i lidi conosciuti per sedersi in riva al mare e confidare a esso le sue perlpessità.
“L’uomo cammina sulla terra e quando è stanco si riposa nelle sue viscere!” cantava un poeta argentino.
Poi bastava un attimo di profonda dolcezza e lo spirito si innalzava di nuovo e sedeva sulla cima di una vetta inviolata ebbro di vertigine.
A poco a poco riprese le redini della sua spiritualità che attendeva nell’alveo del suo animo.


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