A mia moglie, Luciana,
e ai miei figli, Anna, Francesca e Alfonso
LA COLLINA
E lassù c’è la collina
coi suoi strani rimbombi sotto il passo
e l’aria satura di sensualità.
Certo c’erano templi su di essa
di antiche e verginali deità.
Certo lassù si gridaron vaticini
e si segnarono i destini di città.
Il vento grattava i suoi umori
sulle nere spine delle agavi
e colmava il paniere dei colori
di quando al cielo urlavi che mi amavi.
Lassù passarono eserciti
per conquistare la sicula Artemisia.
Di notte tuonavano i sentieri
dei baldanzosi passi dei guerrieri.
Raccontami, papà, le storie,
quali furono i lutti e le glorie
di quegli antichi e misteriosi siti,
quali furono i segreti, quali i riti!
Lassù se ne sta la collina
salda e fiera sopra il suo torrente,
tra le fenditure nere cornacchie
giocano ancora con i suoi tesori.
I
Gli ulivi saraceni potevano elevarsi nella notte come mostri preistorici che vigilavano sull’integrità della collina.
Oppure come compagni silenti, custodi di un’anima solitaria, che lassù sul colle andava a rifugiarsi dopo le battaglie della quotidianità.
Oppure come fantasmi irrequieti che alzavano al cielo i loro rami per una muta supplica di pace e di perdono.
Dipendeva dall’umore, che travolgeva e impazzava come vento furioso tra le trame di un’esistenza non sempre comprensibile.
Lei era sola, non aveva nessuno.
La bellezza danzava ancora sul suo viso, ma cominciava a lasciare segni di stanchezza, iniziava ad aprire vie nuove che portavano chissà dove.
C’era come una ferita antica nel suo cuore, che trovava un po’ di sollievo solo quando i suoi occhi percorrevano l’orizzonte a scovare le isole nascoste dalla foschia.
Un amore lontano nel tempo continuava a tormentarla piacevolmente persino nei sogni.
Era una di quelle storie che segnano così tanto l’animo, che non basta sedersi sulla sponda del mare, con la risacca pigra e dolente, per cancellarla dalla sabbia dei ricordi.
Una storia dolce e penetrante che aveva permesso di capire e di capirsi, di accettare e di accettarsi, di piacere e di piacersi.
Un itinerario sentimentale che bastava da solo a dare un senso a una vita e a rendere grazie di questo dono al cielo.
C’era un ulivo sulla collina che lei aveva eletto a rifugio privilegiato.
Addossata al suo tronco enorme e contorto riusciva a percepire i battiti di una terra arcaica che anelava di ritornare al mare, forse per un rinnovamento radicale.
Aveva fatto potare gli ulivi secondo le nuove indicazioni, ma non come si usa nella provincia di Bari, dove i rami più alti sono stati costretti a piegarsi in giù e gli alberi sembrano tanti spettri vaganti per la piana pugliese in cerca di anime solitarie.
I grandi tronchi erano stati ridotti, nella loro legnosa immensità, in modo tale che i nuovi virgulti potevano diventare rami raggiungibili dalle mani dei raccoglitori.
Sulla breve piana collinare gli ulivi sembravano ora dei bonsai di una famiglia di giovani Ciclopi.
Lei amava il suo giardino degli ulivi.
Desiderava che il suo tempo venisse scandito dal ciclo vitale degli ulivi.
Così si trovava ad adorare la zagara, quando essa fioriva dopo la Pasqua, e spiava la sua miracolosa formazione e infiorescenza giorno dopo giorno.
Si preoccupava che i grandi tronchi non venissero soffocati dai giovani germogli che spuntavano alla loro base.
Voleva che i rami respirassero a pieni polmoni l’aria che arrivava dal mare ed era sempre lì, sulla linea dei cipressi, a controllare che la sua collina venisse riparata dalle folate minacciose e malsane dello Scirocco, che avanzava come un esercito potente lungo l’ampio letto del torrente.
Qualche cacciatore aveva tagliato dei cipressi per crearsi un passaggio e da quel varco il vento entrava e scrollava le cime degli ulivi come anime dannate.
Per la raccolta delle olive si faceva aiutare da un vecchio contadino, che era rimasto da solo nella sua casa di campagna, sparsa tra i mandorli, i peschi e i nespoli.
I suoi figli erano andati via, la moglie non c’era più e lui aveva raccolto in sé l’anima segreta di quella collina.
Lui conosceva i ritmi delle stagioni e quegli antichi “trucchi” per far rendere di più una pianta.
Lui parlava con gli alberi, ma soprattutto sapeva ascoltarli.
Se gemevano per il freddo lui lo percepiva.
Se gli spuntoni li soffocavano, lui era capace di cogliere la mancanza d’aria che opprimeva le piante.
Se l’aridità prosciugava le radici, egli era il sacerdote che raccoglieva le preghiere e le silenziose grida di supplica.
Succedeva così che le piante, che avevano con lui un dialogo intimo, si ritrovavano con i rami colmi di frutti che cascavano verso il suolo come un’offerta a quell’uomo, che sapeva ascoltare, e alla sua “padrona” che stava imparando.
Lei in effetti se ne stava rispettosa in disparte, quando il vecchio celebrava questi riti con gli alberi, e osservava.
Non si stancava mai di osservare.
Raccoglieva nella sua mente ricettiva ogni briciola di saggezza che il vecchio lasciava cadere con noncuranza in ogni operazione agricola che stava svolgendo.
Lassù sulla collina le lucciole disegnavano di notte le scie luminescenti della sua esistenza.
II
A pochi chilometri dalla collina c’era l’Istituto Statale Alberghiero presso il quale la proprietaria della collina insegnava.
Aveva le classi terminali e ogni anno era impegnata negli Esami di Stato.
Insegnava Italiano e Storia con uno stile davvero inimitabile.
Conosceva le storie personali di ogni singolo alunno e sapeva come rendere interessanti gli avvenimenti storici e i capolavori letterari che offriva ai suoi alunni.
La sua era una vera e propria offerta, portava in dono come un’antica sacerdotessa pagana i prodotti della mente umana affinché i giovani calici si riempissero di quella eterea saggezza fatta di parole, racconti ed eventi.
Non era comunque così ottusa o fuori dal contesto per non capire quali trame occulte correvano tra i suoi alunni ormai quasi ventenni.
Intuiva le malsane influenze di alcuni e le incertezze croniche di altri. Le delusioni esistenziali e i successi cercati con troppa ostinazione.
Insomma la sua professione andava avanti tra le normali procedure, i trionfi di eventi organizzati per allenare l’immaginazione e le inevitabili sconfitte, quando una storia si perdeva tra i meandri dell’indifferenza, della scarsa volontà o peggio della ricerca di vita facile al di fuori delle regole.
Così non si sorprese quando in Primavera le pervenne una lettera anonima.
“La Spada Salvatore non deve passare!”
Nel cuore di un’insegnante di Letteratura Italiana non poteva non risuonare il famoso veto che fermò i passi di don Abbondio sulle rive del lago di Como.
Le venne istintivamente da sorridere per l’ardita analogia fatta dalla sua mente.
Poi rilesse quelle parole e sentì che una gelida irritazione le stava salendo fino agli occhi, che si chiusero in una posa di sfida mortale.
– Stai bene? Cos’è successo? Cattive notizie? –
Si trovava nell’elegante bar della scuola dove gli alunni prendevano confidenza con una probabile attività futura.
Imparavano a preparare caffè, spremute, altre bevande calde, e a servirle poi ai tavolini.
Era un momento di relax, durante il quale si ravvivavano le conoscenze e si svolgevano quei lavori che spesso l’insegnante si deve portare a casa.
Lei alzò gli occhi dalla lettera e guardò il suo collega.
– No, no! Sto bene! Un momento di stanchezza, forse! Sai, vengo dalla V A TSR! –
– Ah, ho capito! Allora ti lascio in pace! Dopo una lezione in quella classe bisogna ricaricare le pile! –
– Già, proprio così! Ogni anno è sempre peggio! Non so dove arriveremo! –
Rilesse quella frase stampigliata su un foglio anonimo.
“La Spada Salvatore non deve passare!”
Era una frase scritta in corsivo, non come in genere i messaggi anonimi minacciosi che sono un collage di lettere ritagliate da giornali e riviste per non avere la possibilità di risalire alla fonte.
La grafia era semplice e ordinata, quasi un esercizio di bella grafia.
Le consonanti stavano in piedi e le vocali si capivano molto bene, non c’era da confondersi sulle “a” e sulle “e” come capita normalmente in un corsivo.
E poi c’erano le virgolette e il punto esclamativo all’interno delle virgolette conclusive.
Questo indicava una buona conoscenza della lingua e dei suoi effetti.
Lei osservava quella frase con un interesse professionale.
Come se dovesse dare una valutazione a quella frase che risaltava sul foglio di carta immacolato, forse un foglio da stampante.
L’autore aveva volutamente ignorato la tecnologia?
Aveva scelto la scrittura manuale, forse in omaggio a una professoressa che ancora amava la scrittura pura, quella fatta con la penna, che disegnava su un foglio bianco tutta una storia, usando segni che l’uomo aveva inventato tanto tempo fa.
Una penna che si muoveva sul foglio comandata da una psiche che preferiva una “a” rotonda, una “t” appena tagliata da un segnetto orizzontale, una “p” incompleta e che si perdeva, si fondeva con la vocale che seguiva, una “n” appena abbozzata come l’andamento di una serpe che si muove sulla sabbia.
Un piccolo quadro, una composizione che aveva il filo diretto con l’anima. Così che sarebbe stato possibile tracciarne la storia interiore.
Che anima possedeva chi aveva scritto quella frase?
Poi la sua attenzione passò a delineare un giovane, uno studente che si stava apprestando ad affrontare gli Esami di Stato per ottenere il Diploma di Tecnico dei Servizi Ristorativi.
La Spada!
Un ragazzo timido, chiuso in se stesso, che rivolgeva verso di lei sguardi che sembravano sempre delle richieste di aiuto.
Conosceva la sua storia.
Il padre possedeva un Ristorante-Pizzeria in un palazzo antico a picco sul torrente, che sfiorava anche la sua collina.
Era una storia interessante quella della famiglia La Spada.
Il capo famiglia aveva il titolo di marchese ed era stato proprietario di feudi, che col tempo si erano polverizzati o erano stati persi al gioco.
Era il destino di tutti coloro che in Sicilia avevano un titolo nobiliare.
La mancanza di iniziativa era stato il segno distintivo di tutti i rampolli delle famiglie aristocratiche del sud.
Negli anni Sessanta si erano sparpagliati per il mondo intero alla ricerca di un’anima che non c’era più.
Poi alcuni erano ritornati alle macerie dei loro castelli o dei loro palazzi e nella vecchiaia si erano riciclati per poter sopravvivere con un minimo di decoro.
Così il Palazzo sul torrente era diventato una pizzeria e il signor Marchese prendeva le ordinazioni ai tavoli.
I locali del palazzo erano stati restaurati e l’enorme cortile nelle calde serate estive si riempiva di una clientela eterogenea che apprezzava l’eccentricità di avere per maître un marchese.
Inoltre nelle sale del palazzo si organizzavano matrimoni signorili con tutto lo sfarzo di cui le cerimonie nuziali avevano necessità di esporre, affinché gli sguardi della gente semplice del paese si beassero di quel lusso sciorinato a mani piene da commercianti facoltosi, da professionisti affermati e da politici sulla cresta dell’onda.
La scalinata veniva illuminata da una moltitudine di ceri e di torce a vento, mentre un nugolo di camerieri in vestito da cerimonia accoglievano gli invitati e li avviavano ai tavoli biancovestiti degli aperitivi e degli antipasti che la ricca cucina siciliana sapeva inventare.
Su quel palazzo antiche storie si raccontavano, di cui la più conosciuta era quella dell’esistenza di un tunnel che collegava il palazzo alla strada statale.
Si diceva che dentro ci fosse un tesoro che sarebbe toccato a chi avesse superato prove di coraggio.
Il marchese era un tipo segaligno, dagli occhi neri, da antico rapace, ma ormai sottolineati da pesanti borse che facevano sospettare duri compromessi per poter tenere sempre viva quell’attività che aveva intrapreso.
Il naso era leggermente aquilino e la bocca stanca, ma pronta ad atteggiarsi a qualsiasi variazione richiesta dal momento contingente.
I suoi modi tra i tavoli erano indolenti, ma nello stesso tempo precisi e veloci come a sottolineare l’inevitabile distacco che voleva tenere da tutta quella umanità di cui però non poteva più fare a meno.
Quali pensieri gli passavano per la mente, mentre posava i suoi occhi sul rozzo commerciante arricchito o sull’avvocato che con ogni mezzo si era creato una nicchia quasi intoccabile, o sul direttore di banca che conosceva fatti e misfatti di tutti i suoi correntisti e azionisti?
La professoressa si era recata da sola in quel palazzo, divenuto ormai ristorante e pizzeria, e osservava il marchese e la marchesa che raccoglievano le ordinazioni nel grande e suggestivo cortile che si apriva a picco sul maestoso e sempre minaccioso torrente.
Cercò di individuare tra i camerieri il figlio del marchese, ma non lo vide.
Notò invece la deferenza, improvvisamente comparsa nell’atteggiamento del marchese, nei pressi di un tavolo da dove provenivano grasse sghignazzate dopo grevi battute in dialetto.
Le sembrò di riconoscere un giudice molto chiacchierato.
Il marchese si sforzava di sorridere alle battute degli uomini e cercava di rivolgere la sua attenzione alle gentili, condiscendenti signore.
– Marchese, mi raccomando! Dica in cucina che voglio una pizza coi fiocchi, senza le sue “cose”! Ah! Ah! Ah! –
– No, no! Io invece voglio una bella bistecca al sangue! Ah! Ah! Ah! A me il rosso non dispiace! Il giudice è troppo schizzinoso! –
– Ah! Ah! Bella la battuta, giudice! La pizza senza le sue “cose”! “Marchese”, “cose”!
Ah! Ah! Sempre voglia di scherzare, lei! Riferisco subito in cucina! Con permesso! –
E il marchese si allontanava dal tavolo, ma gli occhi nascondevano un’ombra.
La prof. lanciò uno sguardo alla sua collina, dall’altra parte del torrente.
Doveva piantare nuovi cipressi sull’orlo della costa che scendeva a precipizio nel torrente.
Qualche albero lo aveva dovuto far abbattere per vecchiaia, ma qualche altro cipresso era stato rovinato forse dai cacciatori che salivano in collina per i conigli, che scorrazzavano sulla breve piana in mezzo agli ulivi e ai pochi vigneti rimasti.
Era mai possibile che in quel paese ci fosse tutta una serie di intrighi e di ragnatele mafiose che avviluppavano tutto il settore economico e condizionavano pesantemente i rapporti sociali, come sosteneva un suo collega?
Tutti lo ritenevano un paranoico che vedeva intrallazzi dappertutto.
Un povero isolato che, a detta di tutti, era roso dall’invidia e dalla gelosia.
Sosteneva che nessuno in quella città poteva lavorare se non era immanicato con qualcuno che aveva potere.
Vedeva intrighi e sotterfugi in ogni settore della vita cittadina.
– Tu pensi che si possa fare il sindaco in questa città senza scendere a pesanti compromessi con la delinquenza locale? Oppure pensi che il nostro preside sia un santo perché riesce a organizzare eventi e a recuperare contributi per l’andamento della scuola? Se è così, sei un’ingenua! E tutti i nostri colleghi sono degli schiavetti che per quattro soldi in più di incentivo si muovono come marionette! Tu non hai mai avuto pressioni? –
Possibile che si continui a stare in un posto senza vedere i fili delle mine e i reticolati che vengono stesi tutt’attorno alla tua esistenza apparentemente serena?
Certo non le sfuggiva lo scarso senso civico della varia umanità che la circondava.
La mancanza di educazione, l’egoismo portato all’estremo, la noncuranza dei doveri sociali, il menefreghismo, la filosofia del “tanto non è mio, ci pensino gli altri”, lo sfruttamento senza ritegno e senza prospettive delle risorse naturali e così via discorrendo.
A scuola e in classe certi atteggiamenti si riuscivano ancora a tenere a bada, ma appena si allentava la presa c’era lo “scatascio” generale.
Quell’intimidazione, perché tale era, aveva spalancato tutto un nuovo mondo davanti a lei, e lo spettacolo non era certo piacevole.
Lo scambio di favori, fino a quel momento, lo aveva ritenuto una forma sofisticata della gentilezza e apertura delle genti del sud.
Una specie di nobile patina, un filosofico distacco dal vile interesse immediato.
E invece ora cominciava a pensare che era una cappa pesante che non permetteva all’animo di respirare sereno e libero.
C’era sempre un momento in cui ti sarebbe stato detto:
– Ti ricordi quel favore che ti ho fatto? Ci sarebbe una cosa da sistemare! Me lo puoi fare un piacere? –
E se per caso il tuo lavoro ti concede anche solo una minima parte di potere, tu capisci che puoi essere usato da qualcuno che quel potere ti ha concesso e ti concede di utilizzare.
Ora cominciava a capire perché quel povero geometra si era impoverito ed era stato costretto a emigrare al nord, mentre quell’altro si era improvvisamente affermato e arricchito.
Perché una pratica trovava la corsìa preferenziale e veleggiava sicura e tranquilla verso una veloce soluzione, mentre quell’altra si era insabbiata su una secca insidiosa e senza vie d’uscita.
Perché un’attività prosperava e un’altra invece moriva asfissiata.
Perché tutti andavano in quel Centro di Benessere o in quel particolare Studio notarile, dentistico o di analisi cliniche.
Persino perché una farmacia facesse affari d’oro e l’altra invece rimanesse senza clientela.
Chi maneggiava le fila?
Su quel piazzale all’ombra del palazzo c’erano zone scure e zone di luce e quel particolare tavolo attirava tutta la prepotenza che un faro potesse emanare.
Era il baricentro, l’occhio del ciclone, la formula magica, la soluzione di un rebus, la quadratura di un cerchio.
La prof. aprì la bocca sconcertata.
La tenebra si stava dissolvendo e una luce, pur malsana, le stava facendo intravvedere nuove preoccupanti sfaccettature.
Era il regno di Ahriman in contrapposizione ad Ahura-mazda?
Era Satana in tutto il suo fulgore?
Era il Caos che si contrapponeva al Cosmos?
O era più semplicemente la vita con le sue contraddizioni, che andava vissuta con una continua serie di scelte che ti portavano ad aprire siti di positività o di negatività?
Le venne un’improvvisa voglia di andare a rifugiarsi in collina, di appoggiare la schiena al suo ulivo saraceno prediletto e acquisire da esso la forza di affrontare quel dilemma che le era stato proposto con quella frase stampigliata in corsivo su un foglio anonimo.
Ora capiva che non c’era bisogno di ritagliare lettere da un giornale.
Tutto doveva essere come era bene che fosse.
Lei aveva un potere e doveva farlo andare per il verso giusto.
Perché così doveva essere.
Si richiedeva un favore da lei.
Perché?
Di cosa aveva bisogno lei?
Si staccò dal grande tronco d’ulivo, che le trasmetteva una grande forza di volontà, e andò ad affacciarsi, oltre la linea dei cipressi, sul torrente circostante che s’inerpicava come un grosso serpente verso l’interno, in mezzo alle colline e poi ai monti rivestiti di boschi.
Al di là il palazzo si ergeva possente e ormai intimidatorio.
Non erano più i tempi dei ruderi, di quando ragazzina, insieme ai suoi cugini, si era intrufolata tra quelle macerie alla ricerca del favoloso tunnel.
Ora rifulgeva e splendeva.
Il signore era tornato a regnare sul suo feudo.
Ma forse doveva dividere il potere con altri che rimanevano nell’ombra perché ad essa erano condannati.
Alla prof. venne da sorridere amaramente quando un pensiero le traversò la mente.
Il suo collega isolato le aveva detto una volta che una nuova forma di feudalesimo gravava sulla Sicilia.
Ma mentre un tempo la schiavitù era dei corpi e si poteva anche combattere, per liberarsi dai legami che attanagliavano la carne, ora c’era una schiavitù dell’anima da cui non ci si poteva liberare.
Il denaro girava, il benessere imperversava, le auto correvano, le case luccicavano, ma pochi avevano voglia di sorridere perché l’animo non respirava libero.
Bisognava lasciare tutto e andare via.
Un suo compagno d’Università aveva preferito trasferirsi al nord perché non sopportava che per amore del quieto vivere il Tizio pagasse il pizzo, il Caio desse posti di lavoro a chi era comandato di assegnarli, che Sempronio dormisse sulla sua gru per paura che gliela facessero saltare perché non aveva ceduto alle pressioni e ai ricatti.
Un professionista affermato si era lamentato perché qualcuno si era intrufolato nella sua villa al mare e gli aveva rubato l’argenteria e alcuni ricordi.
Si era rivolto a chi di dovere perché pagava regolarmente per non avere fastidi e il giovane sprovveduto, che aveva commesso il fattaccio, era stato sequestrato, torturato e incaprettato, dopo avergli mozzato le mani.
Guai ai cani sciolti!
Il suo collega aveva notato come alcuni insegnanti di quinta cercassero sempre di far parte delle commissioni d’esame.
Era lì che c’era il potere.
Un diploma faceva sempre comodo e poteva aprire svariate porte.
Carta canta!
E tutto tornò a Salvatore La Spada.
Lei aveva potere?
Sì, la prova di Italiano era troppo importante, influiva su tutto l’andamento dell’esame di Stato.
E il colloquio ben guidato poteva portare a certi sicuri risultati.
Lei nel Consiglio di Classe ci sapeva fare, conosceva benissimo i suoi studenti, si destreggiava con abilità tra le varie norme e moduli nel rispetto dei canoni di qualità, sapeva verbalizzare con arte affinché un punto all’ordine del giorno figurasse con più risalto rispetto ad altri.
Era questo il suo potere?
Forse sì, ma non ci aveva mai fatto caso.
I suoi studenti per lei erano innanzitutto delle persone e spesso dei casi umani.
La Letteratura e la Storia si frammischiavano alla Psicologia, alla Filosofia e persino alla Religione.
Conosceva la fame di cultura di un Istituto Professionale e riusciva a far capire come alcune discipline contribuissero alla formazione di un’anima libera.
Quella sera, nei locali del Palazzo, era successa una cosa incredibile.
Era come se avesse indossato degli occhiali speciali e avesse così potuto intravvedere le ragnatele.
Ora era in grado di capire come i suoi studenti fossero già stati presi dall’ingranaggio della città e poteva indagare su quali spezzoni di potere gravassero su quelle personalità in via di formazione.
Tutto ritornava a La Spada.
Perché non doveva “passare”!
Come se ci fosse un divieto di transito.
Era stato dato un ordine e lei doveva ubbidire.
Le era pervenuto, come si diceva ormai, “u’ pizzinu”, e lei doveva capire l’inesorabilità di quel gesto.
Sul suo bel volto maturo comparve un sorriso di sfida.
Lei ubbidiva a se stessa e ai dettami che aveva scelto nel condurre la sua esistenza.
Forse per questo era rimasta sola dopo quel lontano innamoramento?
Forse!
Ma ormai la sua vita correva libera tra il lavoro, la sua collina di ulivi saraceni e le sue meditazioni.
Non avrebbe permesso a nessuno di rompere quell’equilibrio.
Avrebbe lottato anche con le unghie per avere l’assoluto controllo del suo territorio.
Certo, ogni tanto amava sconfinare, ad esempio, sulle rive di un mare ancora pulito e incontaminato, o su particolari paesaggi dell’interno dove risuonava un antico e melodico dialetto gallico.
Ma soprattutto le piaceva “viaggiare” con le sue letture e le sue creazioni.
Il suo “territorio” si espandeva così all’infinito.
Ed era bello, come diceva il Poeta, provare ogni tanto ad annegarvi.
A scuola aveva più volte illustrato la sua teoria del “territorio”.
“Quanto più spazio intorno a me riesco a conoscere e in un certo modo a dominare e tanto più la mia mente, la mia coscienza, la mia anima si espandono!”
Durante l’adolescenza avviene questo meccanismo psicologico.
Ci sono dei ragazzi che cominciano a rifugiarsi nelle alcove dei bar e tutta la loro esplorazione del territorio è lì, non si sviluppa, rimane invischiata nei vapori delle prime birre e nei fumi delle sigarette.
Altri, più spigliati, percorrono le vie dell’esplorazione del piacere facendo la corte alle ragazze e cercando di raggiungerle nei loro segreti, senza però toccare il loro cuore.
Altri si lanciano nella provocazione, tentano di sconvolgere ritmi e regole per vedere l’effetto che fa.
E poi ci sono alcuni, secondo la prof. privilegiati, che cominciano a percorrere i sentieri del mondo che li circonda.
Così imparano a nuotare, cominciano a mettersi una maschera per vedere cosa c’è sotto il mare, oppure salgono sulle cime dei colli e delle montagne che contornano il paese, scoprono sorgenti, laghi, torrenti, boschi.
Il territorio si espande e così pure l’immaginazione.
“Dimmi quanto territorio intorno a te conosci e ti dirò chi sei, quali sono i tuoi problemi e come sarà la tua vita!”
La Spada, ad esempio, era considerato da tutti uno “sfigato” perché era timido, balbettava davanti alle ragazze e se ne stava nel suo cantuccio in classe.
Però la sua voglia di esplorare si era rivolta verso il passato.
Amava indagare sulla storia del suo paese e di quelli circostanti.
La prof. lo stava seguendo nella stesura della sua tesina d’esame, con la quale si sarebbe aperto il Colloquio.
E rimase piacevolmente sconcertata quando lesse gli appunti di La Spada che volevano legare tra di loro Storia, Tradizioni, Leggende e curiosità enogastronomiche.
Il ragazzo aveva esplorato quelle campagne, che si estendevano ai lati del grande torrente, ne aveva colto l’antichità, la nobiltà e i segreti, e poi era andato a cercare quei pochi documenti che si sforzavano di cucire assieme una storia davvero appassionante e nello stesso tempo dolorosa di quei luoghi.
Lei lo sapeva, le donne non amano la Storia, preferiscono indagare e ragionare sul futuro, ma ancora di più esse sono capaci di vivere meglio nel presente.
Lo vivono e lo soffrono così intensamente che non c’è spazio per altro.
Ma quegli appunti, che parlavano anche della sua collina, la avevano commossa profondamente e le era venuta voglia di correre indietro nel tempo per capire e così amare ancora di più il suo giardino degli ulivi.
Anche il suo territorio si sarebbe così espanso ancora di più e nello stesso tempo avrebbe contribuito a dare al suo allievo un certo potere, il potere affascinante della ricerca, per rendere più saldo il suo spirito.
Fu così che La Spada fu invitato dalla professoressa nella sua casa in collina per cercare di dare una parvenza cronologica alle scarne notizie che lo studente stava raccogliendo sulle storie e le leggende che erano nate in quei luoghi.
– È vero che già nel neolitico, prima della guerra di Troia, esisteva sulle colline attorno all’odierna Rodì un villaggio megalitico siculo-sicano che si chiamava Longane?—
– Già, e pare che la stessa Longane sia stata messa a ferro e fuoco dai Siracusani passando di notte per questa collina denominata Torace! –
– E quando nacque Artemisia nella piana accanto al fiume Patrì o Platì, protetta da questa collina? Si dice che fu fondata dal re Artenomo, giunto dall’Asia e approdato a Milae, l’odierna Milazzo, e che la chiamò così dal nome della sposa o forse della figlia! –
– Si racconta che Artemisia approfittasse del canale navigabile che il fiume formava nell’ultimo suo tratto fin davanti ai due promontori delle Rocche di Marro e di Trebisonda. Allora la piana che si vede ora doveva essere solo una breve striscia di terra davanti alle due colline! –
– Trebisonda! Sarà vero che era una regina arrivata dall’Oriente? Pare che si sia fatta costruire un palazzo proprio là dove ora c’è Portosalvo! E pare che si servisse dei benefici delle acque termali della Fonte di Venere! –
– Quante storie appassionanti! Sembra che il mondo così si espanda all’infinito! – esclamava allora il giovane studente – Proprio come dice lei, professoressa! –
Quando si mettevano a ricostruire il passato di quelle plaghe antiche, si univa a loro anche il vecchio contadino che aiutava la professoressa a coltivare il suo “giardino degli ulivi”.
– Ma allora il mare arrivava veramente a lambire queste rocche? – si chiedeva ogni tanto il ragazzo preso dal vortice della Storia.
– Mi ricordo che da bambino, proprio lì sul fiume, vicino alla vecchia chiesa di Portosalvo, mi hanno fatto vedere delle grandi maniglie dove, si diceva, attraccavano le navi! – rammentava allora il vecchio.
Poi gli occhi si chiudevano sotto l’urgenza di quegli sprazzi di luce nella storia millenaria di quella collina e il silenzio si espandeva attorno a loro come un immenso mantello carico di complicità e di mistero.
– A proposito, La Spada! – interruppe poi la prof. – Tuo padre come sta? L’ho visto preoccupato l’altra sera, quando sono stata nel vostro ristorante lassù al Palazzo! – aggiunse indicando il palazzo al di là del grande torrente.
– C’è qualcosa che non va, in effetti! Ma non dice niente a nessuno! Non vede l’ora che io mi diplomi e che intesti il locale a mio nome! C’è qualcuno che gli deve mettere addosso pressione, non so! – disse poi con fare dubbioso il ragazzo.
Lei e il vecchio contadino si guardarono furtivamente, ma non dissero niente.
Quando il ragazzo se ne andò, don Giuseppe non poté fare a meno di dire:
– Sento “ciauru di camurrie”! –
[continua]