A Luciana, mia moglie,
e a Federico Serughi, Tenente della 4^ Cp. Falchi,
indimenticabile uomo e amico.
PREMESSA
La penisola di Milazzo un tempo era staccata dalla Sicilia e si poteva considerare come l’ottava isola dell’arcipelago delle Eolie.
Ma non era una sorella delle sette meraviglie, piuttosto una sorellastra, perché la sua anima non era vulcanica e non nascondeva fiamme nel suo seno, ma solo una storia antica di ere geologiche.
Vista dall’alto la penisola somiglia a un cavalluccio marino e il suo occhio, sulla punta del muso, risalta verde come uno smeraldo.
È il Laghetto della Portella, ormai conosciuto come la Piscina di Venere, amato, custodito e vigilato da un Poeta, che lì si è rivelato.
Cap. I
La bellezza esiste.
Per questo il Laghetto della Portella era diventato la Piscina di Venere, perché solo in quelle acque poteva bagnarsi la dea dell’amore, che già era emersa dal mare per regalare al mondo il fascino della bellezza.
L’occhio verde del Laghetto si trova sulla punta della penisola di Milazzo, sempre aperto agli umori del mare, ma è in parte riparato a nord ovest da una montagna sottomarina, la secca di Ponente, che si alza fino a otto metri dalla superficie e sulle cui spalle si rabboniscono le onde provocate dal Maestrale.
Verso sud ovest, invece, il laghetto della dea è riparato dal Libeccio dall’isolotto, chiamato “Carciofo”, perché irto di punte, e dalla testa incappucciata di un monaco divenuta roccia forse per troppa meditazione.
ÈЀ un posto privilegiato che ha bisogno almeno di due guardiani.
Uno si era autonominato “Il poeta della piscina di Venere”, ed era divenuto il più affidabile e il più intransigente custode di quel sito del cuore della penisola di Milazzo, che somiglia a un cavalluccio marino.
Aveva scritto un libro di poesie Qui divento poeta in italiano e in vernacolo milazzese.
Il “poeta” era stato un pescatore che aveva avuto come compagno un mare sconfinato e misterioso, su cui solo il silenzio era l’alfabeto dell’anima.
Ma in quel sito mitico e pittoresco era riuscito a trovare le parole giuste e il ritmo ieratico dei versi.
I pescatori sono un popolo a parte, hanno loro leggi e loro usanze, che a volte non tutti capiscono.
I pescatori respirano così tanta libertà sul mare che non hanno paura di niente e di nessuno.
Per questo c’erano pescatori che sulla costa, tra la punta della penisola di Milazzo e la punta di Capo d’Orlando, avevano ricevuto il sacro compito di preservare la terra dalla furia incontenibile delle “Cudi di rattu”, le micidiali trombe marine che infierivano sul mare e sulla terra.
Nelle nere giornate o nelle notti terribili, in cui le nubi nere si avventavano sull’acqua per succhiarla e scaraventarla poi contro gli uomini, quel pescatore prescelto andava sulla riva del mare e, sciabolando l’aria col coltello sacro dall’impugnatura d’argento, urlava al vento la sua preghiera:
“Lunedì est santu
Martedì est santu
Mercoledì est santu
Giovedì est santu
Venerdì est santu
Sabato est santu
Domenica è di Pasqua
Cuda di rattu casca!”
E il tentacolo diabolico si ritirava e si rintanava tra le nere nubi temporalesche.
Il pescatore poeta aveva trovato un altro modo per regalare alla povera terra il tesoro di versi che si erano addensati nella sua testa nelle notti illuni in attesa che un totano salisse verso la luce della lampara rimanendo impigliato nella totanara. Sarebbe rimasta solo un’arma al povero totano per esprimere il suo risentimento per la cattura, uno sputo in faccia al suo predatore.
Il poeta pescatore si era innamorato di quella porzione di mare, rimasta intrappolata sulla punta rocciosa della penisola, e, poiché sapeva che l’adorazione è sempre pericolosa, aveva scritto densi versi di stupore e meraviglia per condividere il suo amore.
Ma l’innamorato resta sempre intransigente e allora egli si era convertito anche in guardiano di quella bellezza.
La seconda guardiana invece un giorno fu trovata senza vita tra le acque del laghetto.
Era bellissima e nuda come la verità.
I suoi capezzoli emergevano appena come fiori e le nere alghe del ventre venivano mosse dai brividi del lago.
Cap. II
La bellezza non ha canoni.
È un sommovimento dell’anima e perciò non ha confini e non soggiace a definizioni, che sono sempre di per sé limitative.
La bellezza la può cogliere solo chi della propria esistenza ha una concezione spirituale.
Le altre forme di bellezza rientrano nel panorama sensibile e quindi peccano di relativismo.
Eleonora Baeli era ammantata di quel fascino che non sempre è possibile descrivere perché anche le parole hanno un loro codice.
Eleonora Baeli era un distillato di essenze che risalivano a secoli prima, quando il feudo Baeli si estendeva sulla parte finale della penisola di Milazzo fino alla Punta Messinese a ovest e alla Punta Mazza a nord est.
Si pensava che la dinastia dell’eccentrico barone di San Nicolò Francesco Baeli si fosse definitivamente estinta, e invece, dopo la diaspora degli anni ’70 verso mete esistenziali di rampolli della nobiltà siciliana, qualcuno era tornato indietro, aveva ricalcato i sentieri degli antenati e aveva cercato di recuperare il senso delle proprie radici.
Così ville ormai destinate alla demolizione erano state recuperate e lembi degli spropositati feudi erano stati riscattati da pallidi e ormai irriconoscibili rappresentanti dell’aristocrazia siciliana.
Da dove fosse spuntata fuori Eleonora Baeli non si sapeva.
Ma a un’asta per gli appartamenti del faro di Milazzo ci fu un’offerta ed Eleonora prese possesso di quel sito suggestivo dentro la storia della sua famiglia.
Eleonora Baeli aveva una pacata bellezza, che traspariva dagli occhi color nocciola, dagli zigomi alti e dalla bocca venata di sensuale malinconia.
Eleonora era una quarantenne dal passo elastico e sinuoso allo stesso tempo.
La vita non sembrava avere più segreti per lei, ma nell’animo un cruccio le dava quell’elasticità e determinazione di pensiero.
Eleonora voleva riprendere le fila intrecciate e complesse della sua famiglia o piuttosto della sua dinastia.
Nel silenzio del faro le storie della famiglia Baeli, meglio ancora del baronato di Baeli, risuonavano come echi ancestrali, e nelle notti di luna piena Eleonora percorreva i sentieri invisibili su quella rocca selvaggia e doveva letteralmente trattenersi dal mandare al cielo notturno, velato dalla luce lunare, un ululato di gioia e di disperazione.
Era un piacere vedere di tanto in tanto il sopracciglio sinistro sollevarsi nella folle inconsapevolezza della propria bellezza.
Allora la bocca si colorava di rosso purpureo e l’antico splendore di un viso nobile emergeva senza, appunto, che essa se ne rendesse conto.
Troppe domande sulla sua vita si erano formate e non tutte avevano trovato soddisfacenti risposte.
Cosa vuol dire nascere in una famiglia aristocratica, dove le convenienze erano nodi indissolubili che tarpavano ali vogliose di alzarsi in volo?
E gli altri? Chi erano? Schiavi e servi inchinati davanti all’onnipotenza del barone?
Quindi la vita non era uguale per tutti.
Cosa rendeva superiore? I meriti, il passato, la fortuna, l’avidità, la rapacità?
L’immenso feudo della sua famiglia non c’era più.
I suoi genitori, forse oppressi da sensi di colpa che il ’68 aveva scoperchiato come un nervo sensibile, erano andati via in cerca di facili meditazioni, in India, in America, persino in Patagonia.
Lei aveva visto le ingiustizie degli uomini ed era cresciuta con un nucleo di forti suggestioni spirituali.
Aveva capito che la pace e la non violenza sono difficili da conquistare sul lato prettamente umano.
La natura, lasciata a sé stessa, è violenta, c’è sempre una lotta accanto ai germogli della vita.
Così un giorno era ritornata là dove c’era ancora fuoco nelle viscere, là dove le sette sorelle erano la testimonianza di questo fuoco interno, che brucia e non ha mai requie.
Sì, forse lassù su quella rocca un po’ di pace il suo spirito l’avrebbe trovata anche se ancora non c’erano risposte certe.
Quando il sonno faticava a venire, si alzava e per sconosciuti sentieri andava su quel promontorio, che la gente chiamava “u sautu du cavaddu”.
Si chiamava come lei la fanciulla che in groppa a un cavallo si era lanciata in mare per un amore contrastato.
Troppa differenza tra lei e lui.
Quale?
E intanto i marosi attaccavano gli scogli come a chiedere ragione di quel sacrificio.
Il suo ritorno aveva creato sensazione tra i rappresentanti dell’alta borghesia di Milazzo e i rimasugli della vecchia aristocrazia.
I giornali locali non si erano lasciati scappare l’occasione di rispolverare antiche storie del baronato di Baeli.
“L’ultima discendente del barone di Baeli è tornata nella sua terra.”
“Baeli, un nome, una dinastia, una storia.”
“E ora la Fondazione Lucifero come si comporterà con Eleonora Baeli?”
Addirittura nella vicina Barcellona un cronista tirò fuori la storia dell’acquedotto di Baeli, dove un altro feudo della famiglia si era disintegrato.
Tutti la volevano nei loro salotti per esibirla come un gioiello prezioso di altri tempi.
Qualcuno aveva anche insistito in modo antipatico e addirittura intimidatorio, ma lei si era sempre negata.
Preferiva la solitudine del Laghetto della Portella, la piscina di Venere, come ora la chiamavano i turisti.
Là era possibile trovarla, scultura marmorea tra le bellezze naturali.
Là si erano incontrati lei, la musa della Portella, e il Poeta che lì si era rivelato.
Due pozzi di parole e di pensieri che facevano fatica ad affidarsi al vento di Capo Messinese.
[continua]