Opere di

Emilio LaBianca

__Con questo racconto ha vinto il settimo premio all’edizione 2007 del Premio Marguerite Yourcenar 2007


Un mucchio di giornali

Da questa finestra si gode una vista unica, irripetibile: una grande strada delimitata da edifici d’epoca, a sinistra il robusto e fiero volume di Castel Sant’Angelo che sembra gettare la vista ed immergersi in un placido e biondo fiume; sulla destra, stagliata in un cielo più terso del solito, la imponente e slanciata sagoma di quella cupola simbolo di un qualcosa che solo la più profonda fede ha potuto concretizzare con un segno terreno. Due braccia di interminabili colonne abbracciano uno spazio che una volta si gremiva di fedeli e che oggi, causa tragici episodi, langue in un deserto di lignee barriere che comprimono ed incanalano lunghe e pazienti file che si snodano lungo un percorso prestabilito sciamando come laboriose ma distratte formiche. Nel mezzo un obelisco che, come Giano bifronte, con una parte sembra scrutare chiunque si approssima attraverso il largo viale, con l’altra, guardando l’immensa facciata, sembra trasferire a qualcuno che dietro di essa si cela, il conto esatto di quanti entreranno nel suo sacro ventre.
E proprio ai piedi di questo è stata allestita da qualche giorno una sorta di sala parto dotata di tutti i comfort, camuffata all’esterno come una capanna con il suo centro fiocamente illuminato come una mangiatoia e con due imperterriti guardiani uno da un lato, uno dall’altro.
Quel lungo, largo ed anche un po’ anonimo viale sembra aver sostituito quella miriade di viottoli, sentieri, camminamenti lungo i quali chiunque, in un tempo molto lontano, poteva incamminarsi spontaneamente per raggiungere la meta tanto desiderata, celando nel profondo di se stesso questo profondo desiderio.
Un fascio luminoso prodotto da un potente riflettore simile a quelli che si usano per illuminare la scena di un qualsiasi film è stato posto in un lato, neanche troppo nascosto, per indicare, arrivando a quella minima infinità del cielo che la sua inane forza può squarciare, la direzione da seguire a chi ancora non conosce la strada,.
Di fronte a tutto ciò, in alto, alle spalle di questa finestra, mille occhi artificiali ed artificiosi sono puntati verso quella che vogliono mistificare nella loro ipocrita falsa religiosità come divina culla. Questi occhi coperti da tende poste l’una accanto l’altra e di forma tale da apparire come un bivacco dal quale partirà l’assalto mediatico, scrutano, spiano, inquadrano, zumano tutto ciò che cade sotto il loro obiettivo: una madre che trascina un recalcitrante pargolo come un pastore può fare con una restia pecora o un contadino con un testardo mulo; un frettoloso passante che con insolita energia schiva uno, due, tre automezzi che sembrano ignorarlo come farebbe un mandriano nel mezzo di un branco impazzito; un capannello di ciarliere persone che sovrappongono le loro voci l’una all’altra e che con movimenti e mosse che accompagnano le voci, sembrano imitare uno starnazzante gruppo di galline od oche.
Tutto ciò ai margini di quel lungo oceanico ed ossessionante fiume in piena che si accalca già da diversi giorni.
Mancava ancora diverso tempo, parecchi giorni a quel rituale evento e già, in un angolo ben curato ed in vista della cucina, si cominciava ad ammucchiare un discreto numero di quotidiani ripiegati con cura come se fossero stati acquistati in quel momento o che non fossero mai stati aperti e letti. Più il tempo passava, più questa pila cresceva.
Che strano, ogni giornale aveva sempre rappresentato un eterno dissidio fra la nonna ed il nonno: lui ogni mattina lo leggeva con una sacralità che si riserva di solito ad un testo sacro, lo trattava con delicatezza e metodicità di gesti fino all’ultima pagina per poi abbandonarlo in maniera distratta ovunque capitasse. Raramente lo ricomponeva e lo ripiegava, ma lo abbandonava su un tavolo, su una sedia, qualche volta sul letto, era come se tutto ciò che in esso era scritto fosse stato travasato nella sua mente e quelle pagine fossero diventate degli anonimi fogli, senza scritte, senza immagini, senza interesse, senza nulla. Eppure quelle volte che noi nipoti ricevevamo il prezioso incarico di andarlo a comprare, dovevamo trattarlo con ogni cura, non dovevamo minimamente sfogliarlo, dovevamo recapitarglielo come se fosse uscito lì per lì dalla tipografia. Riuscivamo a mala pena a sbirciare le notizie in prima pagina che a quell’età, per noi, erano le più noiose le meno interessanti. Quella maniera sciatta di abbandonarlo ovunque capitasse irritava soprattutto la nonna che, dopo aver urlato i soliti rimbrotti, le solite lamentele verso il nonno, lo prendeva, lo trattava come carta straccia e lo gettava nel contenitore della spazzatura, solo qualche volta lo conservava per avvolgere qualcosa, ma mai un indumento, un cibo o qualcosa che potesse venire a contatto con il corpo. Diceva che quelle scritte erano fatte con il piombo o qualche altro materiale intensamente nocivo. Spesso nei posti usati come ripostiglio trovavamo piccoli involti di giornale contenenti chiodi, viti, qualche piccolo utensile, ma la cosa più strana erano quegli appallottolamenti che venivano infilati dentro le scarpe per tenerle in forma. Nei momenti in cui riuscivamo a dialogare facevamo presente alla nonna che così facendo i piedi, una volta calzate le scarpe, venivano a contatto con la parte in cui il giornale poteva aver lasciato dei residui nocivi e lei di tutta risposta, con la sua logica, ci diceva che per questo motivo era necessario indossare delle calze o dei calzini.
E’ per questo che quando vedevamo la nonna cominciare ad aver cura di tutti quei fogli, raccoglierli, riunirli, ripiegarli, riporli sapevamo che si stava avvicinando quel rituale che si ripeteva ogni anno.
Quel mucchio che ogni giorno cresceva sempre di più rappresentava per noi una ambita preda. Sapevamo che ad un giorno prestabilito, ad una data prefissata il nonno ci avrebbe invitato a prendere ogni foglio di ciascun giornale e procedere ad una operazione ben precisa. Finalmente potevamo dar sfogo alla nostra vendetta, ogni foglio veniva ben disteso fra le due mani e poi con puerile sadismo spiegazzato e appallottolato con le stesse. Più il foglio si impiccoliva si contorceva in mille pieghe, più l’operazione raggiungeva il suo scopo. Questi fogli così trasformati venivano dal nonno accuratamente scelti e selezionati, qualcuno veniva ancor più ristretto, qualcuno allungato od allargato, tutti messi in un determinato posto per essere trattati con una strana sostanza densa e trasparente che man mano li irrigidiva e li rendeva più resistenti e compatti. Alle nostre richieste di sapere di cosa si trattasse lui ci rispondeva che era un segreto, un miscuglio che aveva inventato lui. Che strano ogni volta che in quel periodo andavamo in casa di un amico vedevamo una bacinella, un barattolo o qualche altro contenitore pieno di quella sostanza. Forse il nonno, pensavamo, la avrà venduta ai vicini, ai conoscenti senza svelarne la formula! Quando tutti quei fogli avevano assunto la consistenza desiderata, il nonno iniziava la sua composizione: in un angolo ben visibile del salotto e qualche volta anche dello spazioso ingresso in modo che fosse visibile a chiunque si fosse affacciato alla nostra porta, poneva un solido basamento più o meno alto secondo quello che gli passava per la mente, attaccava questi informi agglomerati di quello che all’origine era stato un banale giornale e dalle sue sapienti mani, aiutandosi con chiodini e martello, cominciava a prender forma un insieme di scoscese montagne ora più corrugate ora più lisce ma tutte perfettamente continue come se il foglio originario fosse stato unico e completo.
E’ sempre presente il ricordo della prima volta che vedendo quell’ammasso di rughe, di canaloni e di dolci declivi, quasi disilluso e piangente, dissi al nonno che le montagne non potevano essere di quel colore, imbrattate di residui di scritte, di lettere e spezzoni di immagini, e lui con un sorrisetto ironico mi disse di aver pazienza, ogni cosa al momento giusto.
Sapevamo quindi che dopo aver sistemato tutto quello che rappresentava lo scheletro di quella imponente catena montuosa lui sarebbe passato all’operazione più artistica e delicata. Mescolando una serie di colori che corrispondessero il più possibile a quelli delle montagne, cominciava ad investire quell’ammasso con spruzzi lanciati dalle setole di un ben robusto ed elastico pennello. Sotto i nostri occhi pieni di meraviglia ed incanto quelle montagne pian piano indossavano l’abito voluto, qualcuna molto arida e spoglia, un’altra con tracce di verde, un’altra ancora con un effetto di chiaroscuro che l’avvicinava ad un canalone o ad un dirupo e nei punti dove l’operazione non aveva completamente raggiunto il suo scopo, il nonno, con sapienti tocchi di pennello, riportava tutto a quello che aveva in mente. Il nostro compito in quel momento era solo quello di esprimere i nostri desideri: chi voleva quel punto più scuro, chi più verde, chi non ci voleva alcun colore. Sembrava che il nonno ascoltasse tutti i nostri consigli, i nostri suggerimenti, che esaudisse ogni nostra richiesta, in realtà lui faceva finta, sapeva che alla fine l’opera la avrebbe realizzata come la vedeva lui, era così facile farci creder che quell’angolo, quel pezzo di tenera e finta pietra era come ognuno di noi lo aveva voluto.
Tutto veniva fatto decantare per qualche giorno, nel frattempo ognuno si dedicava a raccogliere qualsiasi materiale fosse adatto allo scopo: si andava nel piccolo giardino vicino casa o più o meno lontano, si sceglieva un determinato quantitativo di brecciolino di adatto diametro, quindi si prendevano alcuni piccoli ramoscelli di pianticine e poi con molta cura e religiosità si sceglieva un piccolo quantitativo di paglia.
Si passava così alla fase successiva, le montagne cominciavano a rivestirsi di alberi ed erba nei punti più opportuni, si formavano finti ruscelli con fili di erba artificiale color argento, si disegnavano sentieri e camminamenti lasciando adeguati spazi fra le piccole pietre raccolte nei giardini, comparivano pozze d’acqua e piccoli laghetti prendendo a prestito specchi da tutti i componenti femminili della famiglia.
Il paesaggio era completo ora aveva bisogno di anima, di qualcosa che desse l’illusione che esso viveva, che pulsava, che in esso si svolgeva la vita di tutti i giorni anche se ogni personaggio, in cuor suo, sapeva che si avvicinava un evento particolare. Lo si capiva dall’andamento e dall’espressione dell’immancabile pastorello, dal gesto di un boscaiolo, dal maglio sollevato di un modesto fabbro, dalla direzione dello sguardo di una donna di ritorno da una fontana con la spalla carica di una colma anfora , da un cane che sembrava aver interrotto il suo latrare perché attratto da qualcosa che sfuggiva al suo istinto. Solo un ingobbito asino continuava nel suo lento procedere per nulla distratto da ciò che lo circondava. Chi voleva posizionare quel personaggio in un determinato luogo, chi lo voleva riparato in un piccolo anfratto, chi desiderava la pecorella nell’atto di abbeverarsi al lato di un ruscello, chi in riva al laghetto. Tutti sapevamo che alla fine sarebbe stato il nonno a trovare ad ognuno la posizione più consona.
Ognuno sapeva che l’atto conclusivo di quel rito avveniva nel pieno della notte, in un atmosfera nella quale ogni luogo, ogni personaggio assumeva un aspetto particolare e per questo con una certa trepidazione si attendeva l’atto finale, il posizionamento di una interminabile catena di piccole luci, delle forme più varie, quella che ricoperta da un concavo piatto tentava di assumere la forma di un piccolo lampione, l’altra che nascosta in un angolo di roccia illuminava una grotta che sembrava non avere fine, quella lunga serie di minuscole lanterne che appese alle casette di sughero indicavano il percorso di una ipotetica via. Una luce in quel punto che sembrava troppo oscuro, un’altra in quel punto senza un perché, anzi perché ci stava bene.
Alla fine un lungo velo color blu con tante piccole forme argentee veniva steso al disopra di tutto ed in un punto ben preciso, a perpendicolo su una piccola costruzione senza muri e senza porta, risplendeva una luce più intensa di tutte con la sua argentea coda.
Si chiudevano tutte le imposte, la stanza, quell’angolo erano completamente al buio e ad un cenno di assenso da parte di tutti il nonno manipolava un piccolo interruttore. L’emozione che attanagliava ognuno nascondeva tutti quei piccoli difetti che nei giorni successivi sarebbero stati eliminati per rendere la scena più perfetta possibile con l’aggiunta dell’immancabile neve fatta di soffice farina o di profumato talco. Qualcuno di noi avrebbe voluto dello zucchero a velo, ma la nonna lo ha sempre severamente proibito!
Dopo alcuni anni il rituale si ripete, le mani che così abilmente conformano lo stesso paesaggio anche se con alcune varianti e con materiali differenti non sono più quelle del nonno, le riconosco sono quelle di mio padre, le stelle in cielo non sono più un disegno sono tante piccole luci incastonate in un telo di plastica che contiene al suo interno un intricato intreccio di fili.
Passano altri anni il rituale si ripete, le mani che così abilmente conformano lo stesso paesaggio anche se con altre varianti e con materiali sempre più artificiosi e tecnicamente raffinati non sono più quelle né del nonno né di mio padre, non ho bisogno di riconoscerle sono le mie, le stelle in cielo non sono più né un disegno né tante piccole luci incastonate in un telo di plastica che contiene al suo interno un intricato intreccio di fili, ma fanno parte di un intero meccanismo capace di mettersi in funzione con la sola pressione di un pulsante su un minuscolo telecomando.
Ho un sussulto, non è possibile che tutto ciò che ho visto da quella finestra abbia così imbarbarito l’oggetto dei miei ricordi, che quei personaggi, quegli animali che ho sempre amato si siano trasformati in un orda famelica bisognosa solo di farsi vedere, desiderosa solo di “esserci”. Un freddo e livido brivido mi scorre lungo la schiena, mi alzo spalanco le imposte e lì nel mezzo di quella piazza attraversata da lignee barriere, ai piedi di quell’obelisco dal gianesco sguardo intravedo, ancora non completata, la sagoma di una capanna dalle antiche forme che vista da quassù, ancorché dilatata nelle dimensioni, sembra quella che mio nonno, mio padre ed io stesso abbiamo sempre posto ogni anno nel mezzo della nostra rappresentazione.
Ormai è mattino e gli operai che per tutta la notte hanno scaricato, innalzato, incastonato materiali su materiali alla luce di improvvisati riflettori ed al suono di gracchianti radioline, stereo ed altro, lanciandosi urla e disposizioni senza nulla di umano, ritorneranno solamente all’inizio della serata per completare la loro opera.


Con questo racconto ha vinto il dodicesimo premio all’edizione 2006 del Premio Marguerite Yourcenar.


L’artigiano dei sogni

Tutte le mattine percorrevo il viale che, tagliando in due partiquell’isola di verde, conduceva direttamente dalla stazione della Metropolitana al cuore pulsante della Città: un breve intervallo pieno di pensieri e riflessioni fra due caotici poli che non lasciavano alcuna possibilità di concentrazione.
Sarei rimasto in quella Città per due mesi, forse di più; questi erano i tempi d’impegno che il lavoro m’imponeva.
I primi giorni non lo notai, ero troppo attratto da tutto ciò che di quella città cadeva sotto il mio sguardo, ma ben presto la mia attenzione fu colpita da un uomo che, seduto su una panchina, scrutava con puntigliosa attenzione il cielo che ci sovrastava come se seguisse con sguardo attento il movimento di qualcosa che da lì attirava la sua curiosità.
Distrattamente o spinto da un riflesso condizionato anche io più di una volta avevo volto il mio sguardo in alto senza che riuscissi a scorgere nulla se non il cielo che in quel periodo appariva di solito sempre uguale: terso e spumeggiato qua e là da qualche bianca nuvola trasportata chissà dove da un vento leggero e fresco.
Il modo di scrutare il cielo da parte di quell’uomo appariva troppo razionale e preciso per poter essere concepito come una banale e casuale abitudine, lui doveva avere un obiettivo calcolato, profondo, preciso, non certo frutto di casualità. Alcune volte incrociavo il suo sguardo e proprio allora capivo di trovarmi davanti ad un essere perfettamente conscio delle sue azioni, anzi dotato, forse, di una non comune capacità intellettiva, non poteva certamente appartenere a quella categoria di persone la cui mente ha perso qualsiasi cognizione della realtà e vaga in un mondo tutto suo fra sogni ed incubi che nessuno può comprendere. Sicuramente al termine dei miei impegni sarei partito portando dentro di me quell’inquieta ed insoddisfatta curiosità, ma fu lui, proprio lui, un giorno, a cogliere il mio stato d’animo e ad offrirmi la possibilità di capire ciò che faceva. M’invitò a fermarmi un attimo e si dichiarò disponibile a raccontare tutto ciò che avrei voluto sapere se e quando avessi avuto del tempo per ascoltarlo. Non potevo perdere quell’occasione e così decisi di sacrificare alcune ore del tempo libero di una delle giornate non lavorative per conoscere quello che in quel momento mi appariva come un piccolo o grande segreto.
Ero finalmente seduto sulla panchina accanto a quell’uomo il quale mi chiese improvvisamente e senza alcun preambolo «Sogni mai? Sogni spesso? Che tipo di sogni fai?». Con un certo imbarazzo balbettai la prima cosa che mi venne in mente e lui prevedendo il mio disagio e la mia sorpresa continuò:
«Nulla è così concreto ed allo stesso tempo effimero e sfuggente come un sogno, lo puoi ricordare la mattina quando ti svegli, lo puoi percepire ma non concretizzare quando cerchi di capire cosa hai sognato, eppure i sogni occupano quasi la metà della nostra vita, perché dunque non renderli importanti, non immortalarli come facciamo per un viaggio, per un avvenimento attraverso le fotografie? Perché nessuno possiede un albo dei propri sogni? Sarebbe anche il mezzo per esorcizzare quelli che molti chiamano brutti sogni, altri incubi».
Non riuscivo a comprendere quale attinenza potevano avere i sogni con quello che io volevo sapere da quell’uomo.
«I sogni – proseguì – sono come quelle nuvole che sovrastano le nostre teste – in quel momento riconobbi lo stesso sguardo, gli stessi movimenti che ogni mattina attiravano la mia attenzione, e con l’indice puntato verso il cielo – individua una di quelle nuvole, guardala un attimo, chiudi gli occhi per qualche istante, riguardala nuovamente e dimmi se ti appare come prima».
Ebbi qualche esitazione nello scegliere una delle tante bianche e spumeggianti nuvole che sembravano rincorrersi nel cielo, chiusi gli occhi, li riaprii dopo alcuni istanti e con somma sorpresa stentai a ritrovarla subito, non era più come prima, qualche cosa era cambiato nel suo stato, nella sua forma, nella sua consistenza.
Notando la mia sorpresa accennò un sorriso e: «I sogni, anche se credi di ricordarli non hanno mai contorni netti e precisi, di loro ti sfuggono l’inizio, la fine, molte fasi intermedie, li puoi raccontare ma sempre in maniera incompleta, evanescente e quello che più turba è che dopo qualche ora, essi svaniscono del tutto dalla tua mente, di essi non ricordi più nulla, soprattutto di quelli più belli. Svaniscono e si disperdono proprio come quelle nuvole ». Non mi chiese più nulla e cominciò a raccontare la sua vita, la vita dei suoi sogni ma soprattutto dei sogni degli altri. Sin da piccolo era attirato da quel senso d’impalpabilità e d’evanescenza che caratterizza questo nostro misterioso fenomeno che è il sogno, già da piccolo aveva sempre provato tristezza, nostalgia, disillusione per la fragile esistenza di una storia, vissuta in prima persona, e mai percepita concretamente, difficile da raccontare, spesso anche da spiegare, e già da ragazzo si era sempre chiesto se anche gli altri provassero quello che provava lui. E così avvenne che a tutti gli amici, le amiche, i compagni di scuola che si avvicendarono nella sua giovanile esistenza cominciasse a chiedere, prima con una certa timidezza poi con più consumata audacia se la notte prima avessero sognato e cosa avevano sognato. Cominciò così a tentare in qualche modo di materializzare quei sogni: ogni sogno che gli veniva raccontato, per quanto rammentabile, lo traduceva in uno schizzo, in un disegno; lui possedeva una grande, precoce capacità rappresentativa. Di tutti questi disegni ne realizzava due copie, una la regalava al sognatore, una la teneva per sé e la riponeva in un album in una sorta di diario dei sogni; lo cominciarono a chiamare il ragazzo dei sogni. Nonostante gli sforzi ed i buoni risultati non era mai soddisfatto, tutto era troppo evanescente o troppo concreto, tutto era troppo dipendente o dalla sua soggettività o da quella della persona che raccontava il sogno, ma soprattutto non riusciva a rendere quel continuo evolversi e disgregarsi della forma del sogno, quell’impalpabilità che lo rendeva così diverso dalla realtà ed allo stesso tempo così vicino. Era troppo condizionato dalla materia con cui cercava di dare forma alla rappresentazione e soprattutto non sopportava la staticità e quel modo di fermare il sogno con una scena o una fase.
Era una giornata di primavera e girovagava solo, sempre in preda alla sua ossessione tra i baracconi di una piccola giostra, quando rimase affascinato dalle movenze di un rivenditore di zucchero filato, più questi avvolgeva materia intorno a quel minuscolo ed esile bastoncino più quell’ammasso quasi inconsistente assumeva forme svariate, sempre differenti, si chiedeva come quell’impalpabile materia potesse avere un espressione così incisiva nella sua caduca ed effimera consistenza. Tutto quello rappresentava forse per lui la più logica soluzione alla sua insoddisfatta impotenza rappresentativa, non poteva certo lavorare con lo zucchero filato, ma quella visione gli aveva aperto la possibilità di ricercare nuove tecniche, nuovi materiali e questo lo indusse a pensare che poteva ben meritarsi in quel momento un piccolo peccato di gola! La sua mente cominciò a galoppare cercando di mettere in fila una serie di possibili metodi di composizione paragonabili a quel dolce elemento, metodi che dessero la sensazione della sua fluttuazione, metodi che ricalcassero quel suo continuo mutare, e pose un punto fermo su quello che doveva essere un assioma inamovibile; qualsiasi materiale avesse deciso di usare questo doveva essere bianco, ovattato, imprendibile, sfuggevole mai statico, sempre in continua evoluzione formale. Ben presto si trovò a rovistare fra le cose dimenticate da tempo e quelle ancora in uso, provò con l’ovatta che quantunque leggera e resa vivibile con l’aria di un piccolo ventilatore non gli parve troppo adatta allo scopo, provò con delle piume dopo averle trafugate da un vecchio cuscino e deposte in un contenitore agitato nel suo interno sempre dall’aria di quelle piccole eliche, provò con la schiuma prodotta da una serie di piccole e profumate saponette agitata continuamente con un piccolo mestolo, alla fine decise di usarla per un bagno ristoratore; da questa passò alla chiara dell’uovo che freneticamente sbattuta assumeva una consistenza quasi pari allo zucchero filato ed anche qui, non soddisfatto, decise di preparare delle gustose meringhe. Era alquanto scoraggiato, tutti i tentativi, tutti i materiali non riuscivano a rendere quello che lui aveva potenzialmente e chiaramente in mente.
In quel periodo, ancora ragazzo, dormiva nella stanza adibita a soggiorno nella quale trovava posto un divano letto che tutte le sere veniva allungato e preparato come suo giaciglio. In quella stanza inoltre troneggiava l’immancabile televisore per cui fino ad una certa ora tutti i suoi familiari s’intrattenevano in quel posto dando sfogo nello stesso tempo alle loro più svariate manie ed abitudini adatte al sacrale momento: chi sorseggiava un insostituibile bicchiere di liquore, chi una bibita, chi sgranocchiava qualcosa, chi, purtroppo, non poteva fare a meno della sigaretta.
E fu proprio quest’insopportabile abitudine che lui aveva sempre detestato non per altro perché lasciava una scia di fastidioso olezzo in quella stanza, fu proprio questa ad innescare una nuova forse decisiva soluzione ai suoi tentativi.
Nei momenti in cui il sonno sembrava soggiogare l’attenzione per la futilità di ciò che proveniva da quel piccolo schermo, nei momenti in cui egli fluttuava fra una semirealtà ovattata ed un appisolarsi momentaneo, il suo sguardo vagava intorno a quelle spire di fumo che continuamente cambiavano forma, girovagavano, si spostavano rapidamente al più piccolo movimento d’aria per poi disperdersi e svanire per sempre e che sembravano ipnotizzarlo.
Quei movimenti, mai razionali, quelle forme definite e definibili solo dall’immaginazione di chi le seguiva con attenzione gli parvero poter concretizzare quello che lui intendeva e pensava sulla natura dei sogni. Doveva assolutamente verificare questa possibilità e così per un certo periodo scese ad un compromesso con se stesso: la sera quando tutti i familiari erano andati a dormire radunava i mozziconi di sigaretta che facevano bella mostra di sé negli ingialliti portacenere e provava, vincendo con forza il disgusto verso quel vizio, a riprodurre quelle spiralate forme. Doveva, però imprigionarle in qualche modo, doveva far sì che le stesse continuassero ad esistere, mantenendo però quell’affascinante senso d’incoerenza e quell’elegante modo di fluttuare, doveva lasciare loro la libertà e la possibilità di muoversi e direzionarsi a piacimento quantunque guidate da un disegno ben preciso. L’unica maniera era di imprigionare questo fumo in un contenitore, in un volume trasparente. La soluzione più ovvia fu quella di ricorrere ad una normale bottiglia soffiando dentro di essa quella sostanza. La prova ebbe un certo successo, l’effetto era quello che desiderava, ma ancora non poteva controllare e variare il movimento, non poteva dare ad esso una sua personalità una sua identità. Non vi era alcun dubbio il contenitore doveva essere malleabile e cedevole alla pressione delle mani di modo che quella sostanza così aerea potesse assumere le forme e le direzioni volute dal burattinaio. Un certo risultato lo ottenne con una bottiglia di plastica ancorché troppo limitativa sia per il materiale sia per la forma.
Ancora una volta lo soccorse una pensierosa passeggiata che inconsapevolmente lo condusse di nuovo verso un piccolo luna park. Si soffermò ad osservare un uomo che vestito approssimativamente da pagliaccio mostrava ad un gruppetto di bambini come dare forma ed anima a palloncini di tutti i colori e le forme. Spuntavano così con molta rapidità, gli animali più comuni, le forme più strane e stravaganti. Tutto apparve chiaro nella sua mente, corse immediatamente a comprare un cospicuo quantitativo di palloncini di tutte le forme disponibili e di colore tale che il fumo, da contenere negli stessi, apparisse alquanto evidente in trasparenza, si rifugiò nella sua piccola cantina laboratorio, prese a caso uno dei disegni che riproducevano il sogno di una sua compagna, e cercò di infondere vita allo stesso, mantenendo con la forma dei palloncini la sagoma più o meno approssimata del soggetto principale del sogno e facendo fluttuare il fumo attraverso gli stessi; cambiava continuamente forma e direzione con semplici pressioni delle mani su quel materiale così morbido ed arrendevole. Con una certa sorpresa scoprì che non solo riusciva a rendere quel senso d’impalpabilità e d’evanescenza pur rimanendo nel contesto del sogno ma questo poteva a suo piacimento integrarlo, continuarlo se non addirittura cambiarlo, poteva perfino usarlo per riportare a galla nella mente del sognatore fasi da questo completamente dimenticate o che credeva di aver dimenticato. Si accorse quindi, con un certo timore, di avere in mano una sorta di pendolo ipnotico dove l’oscillazione era sostituita dal movimento di quel fluido e la memoria da quello che ognuno avrebbe creduto di vedere. Compose in breve tempo in duplice copia alcuni dei sogni che aveva riposto nella sua cartellina ed il giorno dopo consegnò questi ai legittimi proprietari dando loro alcune semplici spiegazioni su come manovrare quelle forme con semplici movimenti delle mani. L’immancabile scetticismo iniziale fu subito superato dalla curiosità e l’interesse con cui ognuno palpeggiava il suo sogno e quella che per lui era stata un’inconscia preoccupazione ben presto si rivelò essere una gratificante soddisfazione: i suoi compagni e le sue compagne non solo ritrovavano il loro sogno, ma sembravano riviverlo e completarlo secondo la propria fantasia ed immaginazione.
Gli anni passarono, cambiarono amicizie e compagnie, ma lui rimase sempre in contatto con i suoi clienti, anche se un dubbio lo aveva sempre accompagnato.
Non era andato forse oltre le intenzioni, non aveva lasciato troppo spazio alla fantasia di ognuno con il risultato che con il tempo l’essenza primaria del sogno si sarebbe persa lasciando al libero arbitrio di ognuno di conformare i propri sogni, facendo perdere agli stessi quel mistero che rappresentava il loro fascino e la loro impenetrabilità? Gli studi che aveva intrapreso ben presto assorbirono quasi tutto il suo tempo a disposizione, si era gettato anima e corpo sull’informatica ed in breve tempo riuscì a penetrare tutti i segreti di questa materia in continua evoluzione, scoprendo la possibilità di riprodurre in termini astratti di luce ed immagini qualsiasi forma e movimento, divenne alla fine un esperto in ologrammi. Aveva quasi dimenticato quella sua mania, ma in alcuni particolari momenti gli ritornava a galla quel dubbio, aveva nostalgia del nitore e della purezza dell’originalità del sogno, avrebbe voluto che lo stesso fosse rimasto intatto così come nato, esso non doveva aver bisogno né della fantasia né della ragione, doveva rimanere integro così come sorto dall’impenetrabile inconscio di ognuno. Ormai aveva in mano una sorta di pietra filosofale, quell’uovo di Colombo che per tutta la vita aveva ricercato; solamente con gli ologrammi avrebbe potuto realizzare la sua opera e finalmente raggiungere quel fine che si era prefisso fin dall’infanzia. Dopo tanto tempo riaprì il suo archivio, mise mano ad un sogno qualunque, fissò i limiti entro i quali doveva essere racchiuso e contenuto questo nuovo metodo rappresentativo, affinché nessuno avesse potuto alterare od espandere il programma, dopodichè, raggiunto il risultato, decise di convocare tutti i suoi clienti per dare loro una dimostrazione di ciò che aveva elaborato dopo tanto tempo. Come avviene in questi casi, alcuni accettarono con entusiasmo quest’iniziativa, considerandola quasi una rimpatriata fra compagni di scuola o d’infanzia, altri si dimostrarono indifferenti sottraendosi all’invito dimostrando con il loro atteggiamento di aver rinunciato ormai concretamente e spiritualmente ai loro sogni. La riunione ebbe un esito alquanto soddisfacente, quasi tutti diedero il loro consenso a che i loro sogni, quelli che lui e loro possedevano, fossero tradotti nella nuova rappresentazione. Il ragazzo dei sogni pose però una condizione: nel momento in cui lui consegnava ad ognuno il personale programma doveva essergli consegnata la soluzione che lui considerava, così affermò, obsoleta. Passarono alcuni mesi perché l’operazione fosse conclusa e nel giorno dell’incontro ognuno portò come una reliquia o un vecchio giocattolo d’infanzia il suo sogno nella versione palloncini e fumo. L’operazione di distruzione fu semplice ma messa in opera come in un rituale sacro. In una stanza immersa nella penombra i palloncini d’ogni sogno furono separati senza che il fumo che essi contenevano venisse per il momento disperso, dopodichè, spalancata la finestra, venne fatto uscire quel fumo ormai talmente maleodorante che più di uno dei presenti provvide a tapparsi il naso. Malgrado questo inconveniente la cerimonia continuò e ad ogni sogno che svaniva nell’aria fu dato il nome del suo sognatore imponendo che esso, man mano che si librava verso il cielo si trasformasse gradualmente da fumo in nuvola. «Ecco vedi» disse il mio interlocutore «quella nuvola che vaga da un certo tempo sulle nostre teste è il sogno di Paolo un mio caro amico d’infanzia e quell’altra così vezzosa e civettuola nella sua forma è il sogno di Sibilla che fu la mia prima infatuazione quando cominciai ad andare a scuola. Come vedi i sogni non svaniscono mai se uno vuole!».
Il mio periodo di lavoro in quella città era terminato, l’aereo che mi riportava a casa ormai aveva raggiunto la quota di crociera quando attraverso l’oblò notai un gruppo di nubi dalle quali se ne separò una che allungandosi fino a conformarsi gradualmente come un braccio, una mano, un dito, picchiò con la nocca contro il finestrino ed allora mi sembrò di udire una voce ovattata e profonda «Ehi tu! Guardami, mi riconosci sono Amelia».
Di Amelie nella mia vita non ne ho conosciute, l’unica che mi ricordo fu il mio primo adolescente amore. «Siamo in fase di discesa, allacciarsi le cinture!» a questa frase aprii gli occhi e mi destai dal dormiveglia che aveva accompagnato quasi tutto il mio viaggio.


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