Il fulgido miraggio
Se ascolto il freddo vento mugolare,
lasciando la più cara compagnia,
sempre mi rincantuccio a lacrimare.
Oh ricordi! Il ventaccio sulla via
spingeva i nembi d’oro e suscitava
dalla selva una cupa sinfonia,
ed ella dolcemente veleggiava
tra le raffiche irose, al cui furore
la sua lieve gonnella svolazzava,
e muto urlando al mondo il mio dolore
io inseguivo il fulgido miraggio
senza speranza di serrarlo al cuore.
Oh amore, in un pacifico villaggio
perché non ci hai lasciati, sani e forti,
viver là dove l’uomo è mite e saggio
fino al dì in cui saremmo insieme morti?
Ma spazzando i vial pulverulenti
e spogliando i cespugli e i poveri orti
il triste vento ha fremiti furenti
attorno ai muri; io stringo il micio al petto,
povero come me, senza parenti,
senza grandi dolor, senza un affetto,
senza ricordi che lo fan soffrire,
vorrei essere anch’io così perfetto.
Caro micio! Comprende il mio martìre?
Viene al mento a fregarmi il suo nasino
e poi in un cantuccio va a dormire.
Ella fu nel sereno mio mattino
il sole che brillò della mia vita
nel ciel sol per un attimo turchino,
e or sono come il povero eremita
che avuto ha la vision meravigliosa,
la qual essendo subito sparita,
si desta e sulla pietra ove riposa,
in mezzo alla sterpaglia ed all’arena,
a sé la ripresenta senza posa,
sentendo in ciò consolazione e pena.
Semper feriunt,
aliquando necant
Sul campanile grigio, slanciato,
battono le ore, l’alba già appare,
ed io dal lugubre suono svegliato
sto ad ascoltare.
Anche in quel giorno l’ora batteva,
quando partiva la dolce Pia
ed un’angoscia fredda struggeva
l’anima mia.
Com’era bella! Com’era bella!
Leggera, lieta, alta, esaltante,
e il vento alzava la sua gonnella
fra le alte piante.
Perché non nacqui con fosca faccia
un violento uom di rapina?
Ti avrei rapita fra le mie braccia
schiava e regina.
Ma passo passo si allontanava
nel sol che ardeva le lunghe chiome
e dal mio infranto cuore sgorgava
il dolce nome
e barcollavo dietro i suoi passi
e come un orfano bimbo piangevo
ed inciampavo nei rami e i sassi
che non vedevo.
Oh quale mostro a me infelice,
quale pitone, qual boa osceno,
Orca di Olimpia divoratrice
mi apparve il treno!
Ti ingoiò il ventre, quindi apparisti
sol per un attimo al finestrino
che pria di assiderti sol mezzo apristi.
Oh mio destino!
Oh miei bambini, o mie bambine
sognate tanto, voi ve ne andate
e il vostro babbo, pie birichine,
non salutate!
Si mosse il mostro grave, a fatica,
dal lordo ventre perdendo grasso;
come una statua crepata, antica,
restai di sasso.
Sentii il lugubre fischio lontano
fra i pini perdersi come un lamento;
per un saluto alzai la mano,
mi avvolse il vento.
Quand’ebbi pianto, pianto abbastanza,
come un ferito mi alzai da terra,
mentre un feroce, senza speranza
dolor mi afferra.
Come travolto dal caldo vento
barcolla e cade l’arabo sperso,
solo tornavo, pien di spavento
per l’universo
e singhiozzavo. Sul campanile
l’alto orologio giallo, cariato,
batteva le ore, calmo, virile,
sull’abitato.
Poveri ruderi
Se giungo presso un vecchio casolare
dalla grigia, consunta scalinata,
o all’ombra di una quercia secolare
dove la fresca vergin fu baciata,
io mi sento nel cuore pugnalare
e forse, se la man mia fosse armata,
non mi accontenterei di lacrimare
con la faccia nell’erbe abbandonata.
Poi, come un vecchio stanco che sonnecchia,
depongo triste e piena di visioni
su un vecchio ceppo la mia carne vecchia,
e nella desolata catapecchia
avvolta dagli sterpi e i pungiglioni
il mio povero rudere si specchia.
Vera patuit dea
Lungo i bordi del fiume allor fioriti
vago nei giorni freddi dell’inverno,
simile quasi ai faggi scheletriti
che incerti fra le lacrime discerno,
e ricordo i miei sogni dolci e arditi
e le speranze poste nell’eterno
e i tuoi dolci colori, e gli atti miti,
e con gli insetti il casto agir materno,
e bacio i luoghi che tu hai toccati
simile a un pazzo che una dea insegua
leggera e fuggitiva per i prati;
bacio i sassi e le zolle senza tregua
dove i tuoi dolci piè si son posati,
fin quando il sol senza pietà dilegua.
Come il fiore
Accanto al tintinnar delle fresche onde
poso su un sasso nudo e duro il fianco,
fra le arene che brillano infeconde,
sotto un ciel come una petraia bianco.
E tengo i piè nell’acque chiare e monde,
non del cammin, ma della vita stanco,
mentre le onde instancabili, gioconde,
ridon correndo al mare in lieto branco.
Io tengo i piè nell’acque, ma al mio cuore
non sal quella freschezza e quel sorriso,
non giunge quella gioia e quel vigore,
non si sciolgon le rughe dal mio viso,
dal cuor gli affanni, e sono come il fiore
che non fiorisce più quando è reciso.
Nel suo giardino
L’altalena in un angol del giardino
serba di te l’immagine infantile
e mi ti mostra garrula e gentile
volar sull’impetuoso seggiolino.
Qui pura come l’aria del mattino
nutrivi coi fuscelli dell’aiuola
di stoffa la paffuta famigliola.
Oh perché non fui io con te bambino?
Or sotto i mirti forse dormirei,
senza macchie vedrei la vita mia
e fedel da molti anni ti sarei.
Qui ogni pietra, ogni albero, ogni stelo
mi pare pieno ancor di nostalgia,
mi par che sol qui guardi tutto il cielo.
Lontana nel mito
Bella è la luna fra le vaghe stelle,
e bello è il sole fra le bianche nubi,
bella è la rosa in mezzo agli altri fiori,
ma fra le cose belle
più del sole e la luna ella era bella.
Il freddo tesoro
In man ti rigiro, o lucente pistola
dal nero colore dell’Ade vestita,
in man ti rigiro, o ricchezza mia sola,
compagna all’incerta, mia tragica vita.
Io come nel gorgo del buio futuro
contemplo nel cieco, terribil tuo foro
e cerco ai miei giorni un responso sicuro,
ma tutto è silenzio nel freddo tesoro.
Con tema in man voltolo l’arma pulita,
la guardo, la palpo e non vedo, non so…
Oh, dimmi, da te avrò salva la vita
oppur della vita privato sarò?