RICORDI
Solo alla guida, qualche debole lampione
è notte a scivolare sulle mani
la musica del nastro si srotola sui vetri
musica calda ed ignota, segretamente mia
nel girotondo di strade, alto e anonimo
L’amaca rossa tra ragnatele di kaki
scuro s’addensa lo sciame
Quel libro letto un pomeriggio d’estate
le veneziane tramano d’ombra il soffitto
Sono frammenti freatici di giorni
ceneri di volti sul crinale
incerto d’un nome, d’un tempo
Spirali, ricordi
Seccano la gola, bucano il fiato
avviluppato nel cerchio delle caviglie
trattengono il passo impaziente
perché non sia trepidazione d’orizzonti
franati su strame e salsedine, selciato e silenzi
perché non sia ancora memoria
bruciante di passato
àncora e nodo, frangersi di chiglia
Ogni passo
allunga solo il ritorno.
DI RITORNO DALLA SPIAGGIA
Un cartello divorato dalla salsedine
tra sabbia ed asfalto inondati dal sole:
a braccia nude, a labbra secche attendo.
Cesello l’aria per preservare il respiro
la ricamo per annodarvi pensieri
saldarli in intrecci di scale da ascendere.
Vene affiorano a pelle sulla carne
ripercorrono insenature che credevo smarrite
sentieri del sangue
altri mari d’infanzia quando
scoprire una conchiglia era segno, presagio
fendere l’acqua con le mani conoscenza
d’un ignoto accessibile ad ogni moto del cuore
ogni giorno la vera pienezza del giorno
su cui non interrogarsi.
Le bottinatrici predano polline da radi arbusti:
nei cromosomi è limpida scelta.
Morde il sale, lo zaino è arroventato,
sento il peso gravoso, insostenibile:
misura del confronto, del ricordo.
Giunge il mio autobus – e non è caso
che proprio ora accada – realmente
è prescritto di rinnovare il viaggio
ma ha solo l’apparenza
o il nome del ritorno
questo falso ritorno.
HAMMAMET
Ed è ovunque vertigine, incendio d’azzurro:
polvere d’indaco, filati, fontane, porte
tinte di turchese e cobalto, brandelli di mare
fra strette fessure, miraggi d’occhi distanti
di cielo, stretti fra le volute blu d’un velo.
Tagelmust: nome antico: mistero.
Tutto vocia, scalcia, sprona, chiama
nell’abbacinante trambusto della medina
nell’ora più calda, più lenta del giorno.
Eppure dormono, nel calice custodi
d’occulta fragranza, quieti e superbi
nel bianco scrigno di petali, dormono
i gelsomini: taciti, algidi, assenti.
Ma all’ultimo spegnersi di passi
nel buio dei vicoli, schiudendo
le labbra alla notte, parleranno.
Con il verde silenzio delle palme
con lo zampettio degli scorpioni
con il sottile tintinnio di cavigliere
parleranno.
Sarà palpito, polline, precipizio.
Sarà eco lontana di fiabe antiche
di terre remote, di canti, sarà Shera¯za¯d
ad avvolgersi nel profumo tra i sogni.
Sarà furto di desideri, passioni, segreti
sfuggiti a un sospiro nel buio.
Domani, sigillandosi silenti all’alba
sapranno i gelsomini serbarli
nel chiostro del piccolo ovario?
LE VECCHIE DI SOFIA
Così mi accogli:
con un estremo lembo di vetro e cemento
vetusti falansteri di regime, scalcinati termitai
fontane di vuoti specchi, aridi rami
strappati ad una primavera in contumacia
acque fangose d’un misero torrente mai fiume.
In anguste vene scorre anche quest’ora
si cancellano i passi, lenti sui ponti
la loro sfida al velo del giorno, alla memoria
ed è un angelo nero, opaco
a vegliare sull’eremo dei tetti
a chiedere spazio all’orizzonte – privilegio
di un volo – quando non sa brillare
l’oro delle cupole al confine della sera
e crollano bastioni d’ombra su antichi eroi.
Eppure a questa smorta vigilia ancora
credono le vecchie – profili bizantini
ginocchia nude nei solchi del legno –
e conoscono ogni riflesso delle volte
tra i tardi raggi fendenti le vetrate
difendono ogni tremito di fiamma
da sospiri accorati di preghiera
scandiscono ogni goccia di cera
che affretta il respiro, fa sporgere la lingua
con consueta e rinnovata impazienza
mentre stilla l’ultima candela
e tutto più fioco, più dubbio pare.
E mia, t’accolgo.
SIVIGLIA
…e qui farò ritorno, Siviglia imprevedibile,
danzatrice ai confini d’un vecchio continente
esangue, fortezza e minareto di sole
nel debole respiro salmastro
d’un mare sognato, lontano
…e camminerò tra gli stretti vicoli deserti,
tra le alte navate di verticale silenzio,
nei giardini di delizia intrisi d’oriente
berrò alle fresche fontane di cielo vestite,
colorerò il pallore dei miei occhi
all’acquamarina, all’ambra, al turchese
delle tue maioliche ubriache di luce,
accenderò le mie vene, Siviglia di sangue,
alla sabbia infuocata delle corride.
Né mi stancherò di respirare
le scure essenze, speziate, di tabacco
più nero della tua notte senza fine
e mi smarrirò nelle tue braccia, Siviglia insonne,
sonnambula rastrellatrice di sogni
ardita tessitrice d’armonie, d’arabeschi
…e da un balcone sperduto, eterna nomade,
mi guarderò con occhi stranieri
rannicchiato, a piedi scalzi
carezzarti i capelli, orfano
restituito per pochi istanti
alla perduta madre.
TRAVEMÜNDE
Rimescolio di sale ed alghe
distacco di orme e sabbia, sabbia
bagnata dalla pioggia, il maggio baltico
tra gli sprazzi di sole, irriverenti
ed io qui, uomo solo
come tanti, come troppi
una vita e la sua storia
da smarrire, da confondere
tra la bocca nebbiosa del fiume
e l’orizzonte impreciso del mare
qui, pulviscolo e filamento
ancora meno sperando
di poter essere
se fosse vero questo giorno
nella cinta turrita degli hotel
estraneo, nella sua altezza
nella sua lontananza, inaccessibile.
E com’è giusto
o com’è vano, un autoscatto
ad irridere la casualità
e il nesso del mio essere qui
un rapido guizzo di luce
sulla pupilla, un’impronta seppia
una postilla a chiosare questa spiaggia
che non fu d’estate
di vacanza, ma vacanza
di conforto, buio di stiva, transito
di cargo, di petroliera.
LIMSKI KANAL
Appena a lato, nella stretta cortina
di rocce e di tronchi, sotto la strada
affollata di auto al sole, la rena umida
la riva all’ombra, la baracca, gabbie
incrostate di sale e silenzio, gusci
ammonticchiati di mitili ed ostriche
lezzo di scaglie, di legno fradicio, d’oblio.
Qui non giungono i passi dei turisti
scansano il recesso dove immoto
il fiordo s’acquatta, impasta la bocca
di fango e di foglie, attende un guizzo
una corrente, un insperato sussulto
sul basso fondale di terra e di sterpi
di cocci e di vetri, di lattine e di sassi
sul velo azzurro-ocra delle acque
ed è sua l’inquieta staffetta del cane
sudicio, macilento, a guardia del nulla
a misurare i due metri fra le lamiere
e le maglie consunte, pendolo inerte
d’un tempo che ignora la fretta dei battelli
poco discosti, sull’ormeggio frenetico
delle escursioni organizzate, rituali.
Eppure senti gorgogliare un destino
sotto la superficie indifferente
piatta, senti lo scuotere dei polsi
il loro sciogliersi lento
impercettibile, verso il mare.
CENA A MOTOVUN
Flebili lampade giallo canarino
tavoli di massello, pane croccante
tovaglie fresche di bucato mattutino
olive nere, fuzˇi di pasta, tome di capra
e tutto delizia, come tutto s’offusca
se sottili ostie di tartufo, impalpabili
si sfaldano, crepitano, effondono
come da cripte rupestri il respiro
di bronchi ipogei, disserrato scrigno
e ampolla di minerali fragranze
si schiude, vortica, svapora
dalle nari in uno sbuffo di vento
dai viottoli angusti, petrosi risale
alle cime stormenti delle querce
le sfiora, le desta quando più annotta
discende come scossa nelle radici
dormienti, fruga la terra, scova
i tuberi, neri nel siderale letargo
li allerta, li sferza d’un tremito
inquieto, li scuote, li espunge
fino all’ultima, ribelle spora
spersa fra larve e ghiande,
prima del fiuto saputo
dei predaci segugi dell’alba.
DISCERNERE E SCANDIRE
Discernere e scandire
ogni goccia, ogni passo percuotere
l’acciottolato, ogni respiro della terra
effondersi tra le zolle, ogni pupilla
vegliare non vista.
Discernere e scandire
da ogni fessura, da ogni crepa
le rosse venature dei mattoni sgretolarsi,
regista d’una sceneggiatura imprevista
raccordare argilla ed aria, acqua e polvere.
Discernere e scandire
ma non basta a rassicurare le mani
strofinarle nel gesso
per rafforzare la presa, per afferrare il senso
d’un ghiaccio che indugia a scricchiare
d’un disgelo che tarda a schiudersi:
lontane, tra pareti di roccia assolate
ancora innevate s’accampano
le fredde vette del cuore.
POCO DISTANTE
Oggi l’orizzonte non va oltre
la vicinanza d’uno sguardo, i passi
poco distanti da casa, incapaci
d’un bivio, sebbene lo sterrato
svolti sull’angolo troppo noto
di palazzine tra campi incolti
e più in là il deserto deposito
di corriere, le casse accatastate
la linea netta dei monti sul casino
che fu di campagna, vezzo del passato
per inchiodare saldo sulla fronte
il fiato del presente, non meno bruciante
se più basso è il sole, nitido il rossore
di commiato del giorno, quando
vorresti più stretto l’abbraccio
con il tuo sottrarti, due ragazzi
seduti sul marciapiede parlano
scherzano, si seguono nella luce
delle pupille, nella gratuità delle mani
si legano s’anelano, nel filo di fumo
delle loro sigarette si perde
il tuo, ed a loro devi ora il senso
d’un cammino.
[continua]