Quattro passi di bambina

di

Federica Roseano


Federica Roseano - Quattro passi di bambina
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
14x20,5 - pp. 76 - Euro 8,50
ISBN 88-8356-889-3

Clicca qui per acquistare questo libro

Vai alla pagina degli eventi relativi a questo Autore


Presentazione

“Quattro passi di bambina” è il titolo di un racconto che ho scritto alcuni mesi fa e che ho deciso di non pubblicare in questo libro. Una storia d’affetto, di crescita, di dolore e di morte. Un percorso di vita durato venticinque anni, fatto di complicità e di invidie, di avvicinamenti e di allontanamenti, di scontri e di confronti. Finzione e realtà che credevo di essere riuscita a tenere ben distinte ma che purtroppo hanno provocato la fine di un’amicizia.
“Quattro passi di bambina” è anche la metafora del percorso di vita di ognuno dei personaggi di questi racconti, a modo loro tutti non proprio cresciuti o comunque con tante orme ancora da imprimere.

Federica Roseano


In questa raccolta di racconti Federica Roseano presenta e rappresenta una galleria di personaggi che sono legati tra loro da un filo conduttore che è la ricerca di una via d’uscita al malessere che si presenta nella vita: poco importa che a volte sia la volontà di superare le crisi esistenziali, il disperato tentativo di cicatrizzare le ferite d’amore o il desiderio di eliminare le contraddizioni nate dalle scelte sbagliate fatte in passato.
Le storie raccontate sono pervase da una intensità nel sezionare e analizzare con una forte vena di umanità, tutte le insicurezze e le insoddisfazioni che si presentano al cospetto della vita che è sempre arduo cammino, percorso costellato da gioie e dolori, continua ascesa al Golgota, attesa d’una rivelazione.
A volte emerge chiaramente la constatazione di un immenso vuoto d’amore, altre volte l’imperativo di una scelta liberatoria improrogabile, e poi ancora la consapevolezza che per risollevarsi dal disagio esistenziale si deve avere il coraggio di fare una scelta: decisa, definitiva, adulta.
Le realtà che sono alla base di questi racconti, sempre o quasi sempre, vedono i protagonisti dibattersi in un mondo che in definitiva è sempre lo stesso: e loro, le donne, che in ultima analisi sono sempre padrone delle situazioni, assumono un ruolo di centralità, possiedono la capacità di sapersi inventare e reinventare fino a trovare, con fatica e tenacia, quell’impulso per prendere il volo, per liberarsi dalle pastoie, per tuffarsi in una nuova avventura.
Nel racconto “L’ultima volta” la protagonista Sara è in continua fuga da se stessa, e quando si lascia trasportare dal flusso dei pensieri cerca disperatamente di fare qualunque cosa pur di distogliere la mente dalle complicazioni. Conosceva Guido da sempre e lui aveva attraversato la vita di Sara: da bambina perchè si rifugiava da lui dopo una lite con i genitori, da adolescente era il consigliere perfetto e da donna l’uomo con cui sentirsi per un saluto clandestino.
“Eppure non si erano mai sfiorati” anche se aveva sognato di far l’amore con lui perchè “le occasioni vanno prese quando si presentano e ogni attimo di vita non vissuto porta con sé intere vite non assaporate”: avevano continuato a cercarsi, per provocarsi, per l’idea del proibito quasi in bilico tra “normalità e patologia” e infine dopo le provocazioni, i rinvii degli appuntamenti e le parole furtive, ecco avverarsi l’incontro fatale dopo anni a rincorrersi.
L’amara constatazione che “l’attesa del piacere era più appagante del piacere stesso” sigilla la fine d’un amore.
Anche il racconto “Ushabti” è in qualche modo emblematico. La protagonista non ha mai amato il marito, sposato solo per gratitudine e per l’aiuto offerto alla sua famiglia, e quel senso di gratitudine non si è mai trasformato in amore. Il marito si rivela un solerte amministratore della sua vita e non lascia nulla al caso: le organizza la vita, le amicizie, le frequentazioni, gli impegni mondani, i vestiti, l’arredamento della casa e via dicendo. Le scelte spettano solo a lui e lei impara ad odiarlo a provare un senso di fastidio fisico: si sente una prigioniera, un manichino da plasmare, una donna che vede uccidere la sua dignità col passare degli anni. La vendetta sarà atroce.
Federica Roseano in questi racconti ha modo di dispiegare tutta la sua capacità narrativa e sempre fissa, con attenzione e acutezza, l’inesauribile alternarsi del gioco della vita tra sentimenti e aspirazioni, profondi desideri e accettazione della realtà che può essere assai diversa dal “sogno”.
E non è un caso che le riflessioni dei protagonisti partono da una realtà interiore ma si materializzano e diventano la vita da vivere: in modo consapevole e determinato.

Massimiliano del Duca


Quattro passi di bambina


Osare è la scintilla. Crederci è il carburante.


Orizzonti

Trent’anni sotto l’orizzonte.

Viveva là da molto tempo.
Sopravviveva solo: a giorni alterni moriva e rinasceva.
Quando non bastava a se stesso era comunque grato di non doverli più vedere.
Come l’ultima foglia di un albero d’autunno, il piccolo uomo viveva aggrappato al suo ramo senza avere il coraggio di lasciarsi cadere ma con sempre meno forza per evitarlo. Più di ogni altro nido la sua mansarda era costruita a sua misura… con il tempo aveva imparato a vivere mezzo metro sotto l’orizzonte ma più il suo cuore si avvicinava al pavimento più vicini erano i ricordi ai quali la sua mente attingeva.
Aveva scelto la sua solitudine. Non lo aveva dichiarato, o protestato, ma si era pian piano fatto da parte; aiutato da tutti coloro che avevano inconsciamente spianato la strada alla sua inevitabile e sognata fuga.
Non capì subito di essere diverso. Cominciò a rendersene conto quando sua madre decise che non sarebbe andato a scuola ma che ad insegnargli i primi rudimenti delle materie istituzionali ci avrebbe pensato un precettore. Un maestro solo per lui che sarebbe entrato in casa ogni giorno e che ogni giorno, in cambio di ogni nozione si sarebbe preso un’esperienza, in cambio di ogni briciola di cultura, una tessera di vita.
Non gli era permesso uscire di casa e il suo esile corpo diventava la scusa più banale. C’era chi si occupava di svegliarlo, vestirlo e prendersi cura di lui fisicamente. C’era chi si prendeva cura della sua istruzione e c’era la madre che, apprendista parca, tesseva per lui un mondo ad hoc, realtà disadorna e menzognera. Proteggerlo dal mondo era l’unica missione della donna, anche a costo di non riconoscere più, lei stessa, il sole. Per amore del figlio aveva deciso di rinchiudersi in quella nobile casa senza contatto con alcun respiro che non fosse quello della servitù e del precettore, affidabili labbra silenziose. Aveva rinunciato alla nobile routine a cui l’aveva abituata il marito e lui stesso con il tempo aveva preferito un ventre capace di partorire normalità. La donna aveva serrato porte e finestre e per amore di Elia aveva inscenato un nuovo mondo tra le mura di quell’enorme villa lontana dalla vita. Si era adoperata in modo che alla sua piccola creatura non mancasse nulla: istruzione, giochi, libri, vestiti; abile registra aveva costruito un universo che agli occhi del bambino doveva risultare normale. Non voleva permettere che Elia pensasse che gli altri bambini avessero fattezze diverse: tutti dovevano guardare il mondo dalla stessa altezza. Così nulla della realtà esterna riusciva ad attraversare quelle mura e appena si presentava il rischio che qualche saldatura cedesse, la madre era pronta ad inscenare un’altra vita nella vita, un’altra finzione.
Erano appena trascorsi gli anni in cui un piccolo uomo non molto più alto di suo figlio aveva gridato alla razza pura, durante i quali “diverso” aveva voluto dire “morto”, durante i quali un bambino affetto da nanismo sarebbe sicuramente finito sui gelidi tavolacci di improvvisati demiurghi. Erano ancora gli anni in cui ad ogni diversità corrispondeva un preciso destino, in cui le opportunità di essere accolti nel mondo erano direttamente proporzionali alla normalità dell’essere e in cui il concetto stesso di normalità aveva in sé qualcosa di pericolosamente univoco e standardizzato.
Durante i primi anni di vita di Elia gli sforzi della madre furono premiati dalla serenità di un bambino che non si era ancora scontrato con la realtà o che comunque era stato messo di fronte a parti di realtà. Sara faceva di tutto per evitare che il figlio si contaminasse con il mondo dalle misure standard e, ingenua chioccia, aveva dettato alla servitù delle rigide regole senza il rispetto delle quali nessuno sarebbe potuto entrare in casa. Niente fotografie di bambini, niente manuali di anatomia, niente visite di giovani adulti. Tutta la servitù doveva indossare lunghi e larghi abiti che nascondessero qualsiasi forma o proporzione. Persino l’arredamento della casa doveva per quanto possibile non far notare la diversità dei piccoli arti di Elia. Gli specchi erano stati appesi ad una studiata altezza in modo che non risultassero né troppo alti per il bambino né troppo bassi per gli altri abitanti della casa. Le gambe delle sedie e dei tavoli erano state segate così come tutti i letti erano stati abbassati e le balaustre delle enormi scale ridimensionate. I quadri raffiguravano solo i volti e nascondevano i corpi. Nulla doveva risultare troppo grande per quel bambino che non stava crescendo.
E così passarono gli anni e per Elia il mondo esterno era fatto di voci, suoni, racconti o al massimo di immagini a metà. La radio gli raccontava un mondo che in casa era stato abituato ad immaginare in un certo modo. Il precettore descriveva la vita omettendo tutti i particolari che avessero a che vedere con le dimensioni.
Ma un giorno, uno di quei giorni da adolescente che nessun periodo storico è mai riuscito a superare in quanto a sensazioni e pene, uno di quei giorni in cui qualsiasi specchio ti è nemico e specchio diventano persino gli occhi degli altri, accadde qualcosa. Accadde che la vita decise per Elia, che la vera vita gli entrò dentro prima che lui avesse imparato a respirarne gli aliti più pericolosi. Accadde che il ragazzo riuscì ad entrare in soffitta.
Gli era sempre stato proibito entrarci: con la scusa dei topi, dell’ammasso di vecchiume fatiscente che sarebbe potuto essere pericoloso, con la giustificazione che nessuno ci era mai salito da tanto tempo. Durante gli anni della pubertà là ci avevano dimorato a turno l’uomo nero, un diavolo a quattro teste, il fantasma del malvagio nonno. Con il passare degli anni la fantasia cominciò a non servire e le motivazioni al divieto di entrarci cominciarono a diventare più adulte ma continuarono a rimanere insondabili. Fu così che al gusto del proibito si unì l’ansia di conoscenza.
Elia riuscì a scovare la chiave della soffitta ed ora era lì, davanti a quella porta. Dietro immagini, sogni, fantasie, ansie, paure. Infilò la chiave nella toppa, spinse la porta e si fece entrare. Sul momento pensò di aver sbagliato stanza, o chiave. Quella stanza non rassomigliava a nessuna delle soffitte che era abituato a vedere ritratte nei suoi libri. Non c’erano mobili ammassati, né polvere, né ragnatele. C’era luce. Era una stanza normale, arredata con gusto ed ordine. Fece due passi avanti e chiuse dietro di sé la porta. I mobili erano del tutto simili a quelli che era abituato a toccare, alcune cornici dei quadri del tutto identiche a quelle del resto della casa. C’erano tappeti, centrini lavorati al tombolo, soprammobili. Quella soffitta sembrava a tutti gli effetti una delle altre stanze. Poteva essere un salottino, o una camera senza letto. Eppure le sensazioni che Elia provava erano diverse, qualcosa gli suggeriva che in quella stanza c’era qualcosa di anomalo, diverso, inquietante. Fece per sedersi e i suoi glutei urtarono contro una poltrona. D’un lampo, come quando ti svelano un segreto, come l’ultima battuta di una storiella divertente, come quando sua madre si nascondeva dietro una porta per poi balzare fuori all’improvviso a sconquassare i suoi pensieri… capì. Si spostò lentamente al centro della stanza, girò su se stesso, prima lentamente, poi sempre più veloce e cadde in terra come alla fine della sua corsa era solita fare la sua trottola blu. Lasciò che il sangue riprendesse il suo normale circolo e si rialzò. Capì. In quella stanza tutti gli oggetti erano alti, grandi, interi.
La poltrona, che al sedersi di solito gli urtava la coscia, appoggiava su quattro cilindri di legno che non aveva mai notato nelle altre poltrone. Le gambe del tavolo gli arrivavano al petto, il primo cassetto del comò gli toccava l’inguine e uno specchio rifletteva solo i suoi occhi. Con fatica si sedette sulla poltrona e dall’alto di quella cima conquistata si mise ad osservare in modo più attento il resto della stanza. Le pareti erano coperte da quadri che raffiguravano interi corpi umani; su cavalli, appoggiati a sedie, sull’attenti con fucili in spalla. Sembrava che tutti i corpi del mondo si fossero dati appuntamento in quella soffitta. Quei corpi inoltre indossavano abiti strani: aderenti alle forme di chi li indossava, quei vestiti mostravano forme allungate, busti longilinei e colli prorompenti. Nessun quadro ritraeva vesti lunghe fino ai piedi sotto le quali solo pilotata immaginazione. Le gambe smisuratamente lunghe e la distanza tra il cuore e il sesso troppo grande per essere normale. Chissà quanto tempo ci avrebbe impiegato quella solita scossetta ad arrivare fin laggiù. Quando Elia incontrava la sua Giulia accadeva tutto in un attimo: la vedeva, il cuore faceva un balzo e il suo pene rispondeva. Aveva sempre pensato che una sorta di cordicella legasse i suoi occhi al suo pene passando attraverso il suo cuore, ma negli uomini di quei ritratti la cordicella superava la misura… Giulia avrebbe fatto a tempo ad uscire dalla stanza e la scossa sarebbe arrivata all’apice. Fu catturato dalla particolare luce di uno dei quadri alla sua sinistra. La luminosa veste di una donna dalla figura longilinea vi era ritratta su uno sfondo blu cobalto. I lunghi capelli neri della giovane cadevano sul seno scoperto da una profonda scollatura. Sotto il petto il ventre, segnato da un bustino di lino, poggiava su due esili gambe sfiorate da un candido velo opaco. L’intera nudità della donna era sfiorata da quel velo ed Elia non riusciva a distogliere gli occhi da quel corpo… diverso. Solo più tardi incrociò i suoi occhi, stelle nere in un cielo di neve. Erano gli occhi della sua Giulia, sul corpo estraneo di uno splendido mostro.
Scossa, mezza scossa. Il formicolio questa volta non raggiunse il prepuzio ma si fermò non appena lo sguardo si posò di nuovo sul corpo della giovane donna.
Si lasciò cadere e lasciò che tutti quei volti lo guardassero. Come quando la familiarità delle labbra del suo precettore diventava sconosciuta carne non appena tentava di insegnargli il francese, come quando la madre indossava la parrucca della nonna, come quando lo stalliere si era rasato i capelli dopo essere caduto nella pece, tutto era lo stesso ma era un’altra cosa. Tutto era uguale ma era diverso, tutto era lì ma altrove, tutto era reale ma magico, deforme ma normale.

Trent’anni di ombelichi…
di compassionevoli sguardi sulla spaziosa fronte
di attese in punta di piedi
di orgasmi incollati al pavimento.

Trent’anni sotto l’orizzonte.

Era il suo compleanno. Non lo era veramente. Era l’anniversario del giorno in cui scoprì la soffitta. E se stesso. Con gli anni aveva deciso che, più della sua effettiva nascita fisiologica, più della prima scossa, più della prima parola, quel giorno dovesse costituire il giorno della sua vera nascita. Prima solo menzogna.
Il rito si compiva identico ogni primavera.
Sfogliò il solito settimanale e scelse il primo perfetto corpo fotografato per intero da qualche paparazzo. Prese il righello che custodiva nel cassetto e la matita senza punta. Temperò il lapis e tracciò quattro righe sulla foto. La prima appena sotto il petto dell’uomo, la seconda appena sopra il suo ombelico. La terza appena sotto l’inguine, la quarta appena sopra il ginocchio. Con un paio di forbici arrugginite dall’umidità tagliò la fotografia lungo le linee appena tracciate e, sminuzzando le due strisce in mille coriandoli di carta, li gettò. Con il nastro adesivo trasparente unì i pezzi di fotografia rimasti… il cuore troppo vicino al sesso, il sesso troppo vicino ai piedi. Prese dal cassetto dello scrittoio l’album di fotografie. Con la mano destra accarezzò la copertina per togliere la polvere che non c’era, cercò la cordicella di raso che segnava i suoi anni e l’aprì. Nella pagina sinistra la foto dell’anno precedente e la data scritta con calligrafia tremula: 11 aprile 1972. La testa di quel modello bionda di falsità, il corpo senza stomaco, le gambe senza cosce. Con i lembi del nastro adesivo rimasti fuori dal bordo della foto attaccò il nuovo puzzle sulla pagina destra: stesso viso da modello, stesso corpo dall’orizzonte abbassato, mano sempre più tremula: 11 aprile 1973. Sfogliò rapidamente le foto mutilate delle pagine precedenti fino ad arrivare al retro della copertina dell’album. Una busta di carta era incollata al cartone losangato. Vi estrasse i resti di una fotografia ingiallita dal tempo. Il capannone di un circo, gli striscioni della domenica, sullo sfondo la gabbia delle tigri e sulla destra la proboscide di un elefante che cercava spazio. Al centro lui, la parrucca in testa e il cerone colorato che nascondeva il suo volto. Tagliò un lembo della foto. La bordatura faceva intendere che altri lembi erano già stati tagliati. Le dita grosse di esperienza fecero fatica a raccogliere il frammento di carta ma non appena il pollice e l’indice furono saldi nella presa, il piccolo uomo infilò il pezzo di foto nella busta. Trenta frammenti di foto, trent’anni di rito, trenta coriandoli di vita. I primi erano più grandi: con il tempo la parte che voleva togliere a quella foto era sempre più insignificante quasi che all’ansia di scomparire stesse subentrando la voglia di restare.
Si era quasi assuefatto a restare.

Trent’anni di ombelichi…
di compassionevoli sguardi sulla spaziosa fronte
di attese in punta di piedi
di orgasmi incollati al pavimento.

Di trucioli di legno di gambe segate
di ritratti impressi a sangue in ogni senso del piccolo corpo
di elefanti
di applausi che squarciano l’aria attorno all’arena.

Trent’anni sotto l’orizzonte.

Rimase chiuso in soffitta due giorni e due notti. Fuori il vociare preoccupato della servitù, dentro il silenzio del suo cuore urlante. Osservò con attenzione ogni angolo di quella stanza, ogni spigolo degli arredamenti, ogni pennellata di quei quadri. Confrontò ogni diversità di quelle mura con la normalità del resto della sua casa fino a quando fu intimamente certo della verità: quella soffitta costituiva la normalità, il resto della villa era menzogna, diversità, teatro. I corpi ritratti in quei quadri erano normali. Il suo corpo era diverso. Le poltrone, le sedie, i tavoli intorno a sé erano originali. Quelli del resto della casa erano oggetti di scena. E gli specchi erano stati creati per riflettere i corpi, non i visi.
Sconvolto, ma forte della sua nuova presa di coscienza, decise di uscire dalla soffitta. Ciò che era accaduto in quindici anni gli era fatalmente chiaro, talmente chiaro che sarebbero bastati pochi gesti e pochi sguardi per mettere al corrente la villa che lui sapeva. Non gli interessava chiedere spiegazioni: un qualche gene sufficientemente sviluppato gli aveva fatto capire che una madre troppo protettiva sottostava alla regia della sua storia, una madre che aveva scelto di vivere nella diversità per rendere felice un figlio deforme. Non voleva parlare di niente: lui aveva capito, lei avrebbe capito. E lo avrebbe lasciato andare.
Scese le scale con la calma di chi ha programmato tutto e non intende farsi distrarre dagli eventi esterni al suo proposito. Raggiunse in silenzio il ripostiglio del garzone e cercò la sega a denti stretti e l’incudine. Ammutoliti dal suo silenzio i servi lo osservavano quasi senza stupore, forse sollevati di essere arrivati all’ultimo atto. Solo Giulia riuscì a distrarlo per un attimo dal suo proposito. Il suo sesso si irrigidì e la scossa arrivò immediatamente fino al cuore. Risalì le scale e davanti alla porta della soffitta vide sua madre. In silenzio, in colpa. O sollevata. Pronta a dare spiegazioni senza parlare. Elia entrò. Con una forza che non credeva di possedere rovesciò la poltrona. Pulì i cilindri di legno dalla polvere del pavimento e iniziò a segarne uno. I trucioli di legno formarono un mucchietto ordinato accanto ai suoi piedi che, una volta caduto il cilindro, schizzò sulle sue caviglie. Rovesciò anche il tavolo di noce e segò quindici centimetri anche delle sue gambe. Avvicinò una sedia ad uno scrittoio sopra il quale era appeso uno specchio. Salì sulla sedia, e poi sullo scrittoio. Tolse lo specchio dal chiodo a cui era appeso e lo appoggiò più in basso, sul pianale dello scrittoio, in modo che si appoggiasse al muro. Scese e segò anche le gambe dello scrittoio e della sedia. Uno dei ritratti era appoggiato in terra. Lo scelse. Con l’incudine squarciò la tela in quattro strappi. Il primo appena sotto il petto dell’uomo, il secondo appena sopra il suo ombelico. Il terzo appena sotto l’inguine, il quarto appena sopra il ginocchio. Nel frattempo tutta la servitù si era accalcata sulla porta. Nessuno osava parlare… come nel più classico degli epiloghi la parola ora era tutta per La Tragedia. Elia si accorse di un solo respiro: si avvicinò a Giulia e il silenzio fu finalmente scalfito: – Togliti la veste!
La ragazza si sfilò la lunga e ampia veste. Sotto, uno dei corpi di quei quadri.

Trent’anni di ombelichi…
di compassionevoli sguardi sulla spaziosa fronte
di attese in punta di piedi
di orgasmi incollati al pavimento.

Di trucioli di legno di gambe segate
di ritratti impressi a sangue in ogni senso del piccolo corpo
di elefanti
di applausi che squarciano l’aria attorno all’arena.

Di mezzi sorrisi morti in un abbassare di ciglia
di maschere di cerone
di costumi di carta
di coriandoli di vita ammuffiti in una busta
di deformate fotografie
di labbra socchiuse per sdegnato stupore.
Trent’anni sotto l’orizzonte.

Chiuse l’album dei ritagli e uscì. Di solito il giorno del suo compleanno si concludeva con una fetta di dolce e un caffè al bar della fiera. Totalmente presi dalle proprie diversità, nessuno si curava mai di lui in quel posto. Una volta all’anno quella fiera aveva ospitato il suo circo e il Comune aveva ancora guadagnato sulle deformità altrui. Se ne era andato da casa di sua madre alcuni mesi dopo il fatto della soffitta e aveva scelto, per contrappasso, di esibire la sua diversità. Accanto a lui una donna dal corpo mastodontico, un uomo con le dita dalle mani unite da sottili pellicole di pelle, un amico con il corpo da uomo e la testolina da bambino. Aveva poi deciso di viversi e aveva cercato, e trovato, una vita come le altre. Un lavoro normale, una casa normale. Un lavoro in cui tutti lo guardavano con compassionevoli occhi e gli scandivano le parole come se nano significasse ritardato e una mansarda che non aveva per lui niente di fuori misura tranne alcuni cilindri di legno custoditi in una cassapanca. Era stato felice e triste come gli altri, impotente e maschio come tanti, figlio e amico come tutti.
Oggi però aveva portato con sé il suo album di ritagli. Non lo faceva mai. Assaporò il suo caffè, divorò la torta di mele. Pagò la consumazione e con l’album sotto braccio andò verso il fiume. Attese la corrente più forte: aveva imparato a riconoscerla dal colore. Gettò la sua raccolta di mezze figure là dove il fiume si faceva più scuro e seguì l’album fino a che il suo abbassato orizzonte non lo nascose ai suoi occhi. Si sedette sul sasso che aveva scelto già da un paio di mesi ed estrasse dalla tasca la boccetta di pillole rosse. Le inghiottì una ad una, senza foga. Quando non ebbe più saliva per farle scendere lungo l’esofago, si aiutò con l’acqua del fiume. Quando cominciò a sentirsi mancare le forze si fece scivolare in terra e usò il sasso per posarvi la schiena. Estrasse dalla tasca la busta con i coriandoli: ne prese una manciata e lasciò che il vento li trasportasse a rincorrere la via che era stata dell’album. Nella busta era rimasta un’unica fotografia intera. Giulia. Giulia senza vesti. Come tutte le occasioni in cui guardava quella foto il suo sesso si mosse. Ma non subito. Per la prima volta, lentamente, dagli occhi al cuore, dal cuore al pene, in un lungo interminabile momento, attraverso una lunga cordicella troppe volte corta, il suo sesso rispose.
Sollevato di non doversi più guardare, chiuse le porte alla vita.

Se sei interessato a leggere l'intera Opera e desideri acquistarla clicca qui

Torna alla homepage dell'Autore

Il Club degli Autori - Concorsi Letterari - Montedit - Consigli Editoriali - Il Club dei Poeti
Chi siamo
La Rivista
La voce degli Autori
Tutti i nostri Autori
Per iscriversi
ClubNews
Il notiziario gratuito
Ultimi inserimenti
Homepage
Per pubblicare
il tuo 
Libro
nel cassetto
Per Acquistare
questo libro
Il Catalogo
Montedit
Pubblicizzare
il tuo Libro
su queste pagine