“La tragedia di noi tutti è essere faziosi…” diceva Shapirò al giovane Jess che dal sorriso sembrava promettere sempre qualcosa di nuovo.
“A me non sembra di essere particolarmente intollerante.” fece Jess, sfiorandosi con un’unghia il viso abbronzato
“Prima o poi perderai quell’abbronzatura… sei qui, da poco.” riprese Shapirò con un leggero sospiro.
“Lo so, in prigione non ti passano certo creme abbronzanti.”
“Ci speravi?”
“Lasciamo perdere… Prima parlavi di faziosità.” disse Jess.
Sì, ma se tu già a priori la neghi… ogni discorso cade.” disse Shapirò, come a leggere i pensieri del suo interlocutore.
“D’accordo, d’accordo, permaloso amico, ammetto di essere un tantino… a volte, perché no, intollerante.”
“Dunque, allora, dicevo” proseguì Shapirò “il settarismo è ormai radicato in ognuno di noi. Nessuno più sopporta l’altro, foss’anche amico o nemico, sposo e sposa, madre, padre o figlio. Ormai siamo destinati a sopportarci e, quando giungiamo alla fine, siamo stanchi, incapaci di accettare quello che abbiamo creato nell’arco della nostra miserabile vita.”
“Ehi, vacci piano…sei un fottuto letterato!”
“No, assolutamente.”
“Hai conseguito studi universitari?”
“No.”
“Non sei un filosofo?”
“No.”
“Che tipo di studi hai maturato, allora?”
“Quasi zero, ho fatto un solo giorno di scuola.”
“Tu sei analfabeta con quell’aspetto cerebrale, con la tue frasi lustrate, i capelli sale e pepe e l’eleganza che dimostri anche se indossi la camiciola dell’istituto di pena?”
“Si cambia, sai, ragazzo, lungo il cammino dei nostri anni…”
Jess si mostrò incuriosito. “Com’eri tu un tempo?”
“Se avremo la possibilità, te lo racconterò. Al momento… accontentiamoci di fare battute di conoscenza.” disse Shapirò.
“Io non parlo come le tue parole fiorite…” disse Jess “ma ho conseguito, oltre alla maturità, anche un anno d’università.”
“Perché ti sei fermato?” chiese Shapirò, come a provare strazio per chi lascia gli studi incompiuti.
“Non avevo nessuna voglia di proseguire…”
“I tuoi erano ricchi?” disse Shapirò,
“Sì.”
“Ti annoiavi, quindi?”
“No, provavo timore.”
“È questo il motivo per cui abbassi spesso gli occhi?”
“Si nota?”
“Eccome.”
“Non mi domandare il motivo…”
“Per cui tieni abbassati gli occhi?”
“Per che altro sennò.”
“Non ti chiederò spiegazioni su ciò che vuoi nascondere.”
“Fai bene, sapevo che mi saresti rimasto simpatico. D’altronde… non mi sognerei mai ti raccontarti un mio segreto.”
“Io reputo sciocco, tenersi un segreto tutto per sé…”
“Bravo, racconta, allora: fammi conoscere i tuoi trascorsi…”
“Cosa vuoi sapere?”
“Lo studio, perché l’hai abbandonato sin dall’infanzia?”
“Non è lo studio che ho abbandonato, ma la scuola.”
“Capisco, sei un autodidatta?”
“In un certo senso…”
“Oh, sentilo, lo sfizioso… in un certo senso, osa affermare. Ma cosa hai fatto nel frattempo, perché o cosa ti ha impedito di andare a scuola?”
“Calma, calma, mio giovane amico. Al momento sono stanco e desidero solo dormire.” disse d’improvviso Shapirò.
“Come vuoi.” disse Jess e si girò dall’altro fianco.
Shapirò rimase con gli occhi fissi al bugliolo fetido della cella e si chiuse nei suoi pensieri.
Era evidente che le poche confidenze che si era scambiato con l’altro loquace detenuto, gli avevano smosso i ricordi.
Vide il proprio padre, Cojencio, in divisa militare che, dal suo paese natale, Rio de Janeiro, era stato arruolato e spedito in Italia per combattere Tedeschi e fascisti negli ultimi giorni di guerra del 1945.
Non era nato per guerreggiare, era pauroso e incapace di prendere decisioni importanti.
Alla prima occasione, con la scusa che era stato tagliato fuori da un accerchiamento nemico, trovò un rifugio presso una famiglia di contadini nella campagna bolognese e indossò abiti civili, dandosi alla diserzione.
Chi lo ospitava aveva una figlia, Gigliola, che s’invaghì del bel soldato brasiliano, dai tratti rudi, ma piacente, lo sguardo acceso e il sorriso agevole e insinuante.
Erano passati solo venti giorni.
“Te lo volevo chiedere fin da quando sei entrato nella nostra casa…” disse
Gigliola, accanto a Cojencio, seduti sulla paglia: “Cosa significa il fregio che portavi sulla tua divisa?”
“Il cobra che fuma la pipa?” disse il brasiliano.
“Sì…” rispose la donna “è un serpente, ma non sapevo che fosse un cobra.”
“Cobras Fumantes è il nostro motto di guerra, ci dà coraggio…”
Gigliola abbracciò il soldato. “Circola voce che la guerra stia per finire…”
“Non m’interessa più” disse il brasiliano “io non mi muovo da qui, da te…”
“Tu, vuoi sposarmi?” disse Gigliola, passandogli le dita fra le labbra.
“Se anche tu lo vuoi, sì…”
“Allora, devi indossare senza indugi la tua divisa con il tuo orgoglioso fregio, presentarti al tuo comando e riabilitarti; altrimenti… se dovessero considerarti disertore, non avremo pace, lo capisci?”
“Io non sono considerato renitente…” disse, accendendosi “sono stato tagliato fuori dal nemico e non mi restava che nascondermi o darmi prigioniero.”
“A maggior ragione… devi presentarti da soldato al tuo comando, non devono trovarti in giro in abiti civili.”
“Hai ragione” disse il brasiliano “indosserò la divisa e aspetterò che finisca la guerra per poi presentarmi, tenuto conto che sembra sia agli sgoccioli.”
“Dieci giorni…” disse Gigliola, tirando fuori tutto il suo carattere, “Se in questi dieci giorni non finirà la guerra, tu ti presenterai lo stesso al tuo comando.”
“D’accordo,” disse lui “faremo come dici tu.”
“Mi aspettavo che tu ragionassi…” disse Gigliola, sbottonandosi la camicetta bianca e poggiando il capo di Cojencio sul suo seno nudo.
“Scusami…” disse il brasiliano, col viso arrossato dal contatto sulla pelle della fanciulla “sono stato troppo indeciso prima, ma noi soldati brasiliani siamo stati mandati in Italia allo sbaraglio e male armati…”
Gigliola si avvolse al suo uomo. “Oh… caro…” disse.
“Migliaia di inutili morti…” proferì lui, ansimando.
Erano passati otto giorni, la guerra era finita.
Il brasiliano si presentò al comando.
Era accompagnato da Gigliola e dai suoi genitori che dichiararano di averlo nascosto nell’abbaino, poiché un gruppo di soldati tedeschi aveva preso possesso della loro fattoria in quei giorni in cui il soldato brasiliano sostava casualmente in soffitta.
La loro testimonianza fu sufficiente a fugare ogni dubbio.
Il capitano del reggimento non interrogò neppure il soldato della brigata Cobras Fumantes: gli fu sufficiente portare lo sguardo sugli occhi lucidi della fanciulla e gli chiese unicamente di redigere un breve rapporto.
Erano trascorsi otto anni.
Gigliola e il brasiliano si erano sposati in Italia e trasferiti poi in Brasile con il figlio di sette anni, Shapirò.
“Non possiamo restare nella tua città” aveva detto per l’ennesima volta Cojencio “fa freddo, è umido, non trovo lavoro e le mie ossa ne risentono… non mi fanno dormire.”
“Hai ragione caro…” diceva la moglie, facendo una carezza al figlio che sgranava i suoi occhioni, godendo del tepore materno “ma dove vorresti andare?”
“Lo sai dove…” disse Cojencio che convinto che il paese dove si è nati non ha eguali.
“Anche in Italia ci sono posti meravigliosi e pieni di sole, spiagge dalla sabbia bianca e caldo pieno che asciugherebbe senz’altro le tue ossa.”
“Non è la stessa cosa…” ribatteva il marito, guardando negli occhi prima il figlio e poi Gigliola. “Nel sole del Brasile c’è vigore assoluto… per questo noi carioca siamo ogni giorno forti.” diceva con vigore Cojencio.
“Ma va, se non stai in piedi?” puntualizzava Gigliola, sorridendo con quella dolcezza infantile delle donne di campagna.
“Tu dammi una briciola di sole brasiliano e vedrai se non mi sollevo.”
“Ma… dove vorresti che ci trasferissimo, nella tua città?”
“A te piacerebbe?”
“Assolutamente no: Rio è una città enorme, dove corrono voci allarmanti, non mi ci troverei.”
“Quando sarai convinta, dimmelo, ti prometto che sceglierò una città che ti piacerà, vedrai.”
Decisero dopo pochi giorni.
Cojencio scelse la città che incontrò il favore della moglie: Belo Horizonte.
Fecero il lungo viaggio e vi si stabilirono.
La dote di Gigliola e i soldi che i suoi genitori avevano messo a loro disposizione, erano sufficienti per il tragitto e per sistemarsi per alcuni mesi in una casa decente.
Cojencio, anche per le sue precarie condizioni di salute, non trovava lavoro e il sole brasiliano che doveva guarirlo, a suo dire, non aveva sortito gli effetti sperati.
Gigliola si fece avanti per eseguire anche lavori umili, ma l’economia in Brasile era drammatica, pertanto non riuscì a trovare quasi nulla.
Un giorno, prima che i risparmi finissero, il marito le disse: “Non possiamo restare in questa casa, è troppo costosa, i pochi soldi che ci sono rimasti devono servire per mangiare…”
“Dove dormiremo?” chiese la donna affranta e con il viso come fosse di sabbia bianca.
“Nelle favelas…”
“Oh, no, il nostro bimbo…”
“Soffro anch’io, più di quanto tu possa immaginarti… e se, in quest’istante, potessi avere il mio cuore fra le mani, lo prenderei a feroci morsi…”
“Non fare così” disse la moglie, stringendosi al suo fianco e con il figlio che più in là, ignaro, giocava con una palla fatta di pezzame “stai male, non voglio che la tua situazione degeneri…”
“Non so cosa fare, oltre che dimostrarti la mia sofferenza.”
“Ho sentito cose orribili sulle favelas, dicono che si vive come bestie, a contatto di escrementi, scarafaggi e topi.”
“È possibile questo,” disse Cojencio “ma forse là eviteremo un cammino meno infame…”
“Non ti prometto nulla” disse Gigliola, “domani prenderemo la corriera di servizio e ci passeremo davanti, devo rendermi conto di cosa si tratta: ho sentito tanto parlare male delle favelas, ma non ne ho mai vista una con i miei occhi.”
L’indomani partirono dal centro con una corriera sgangherata che praticava abitualmente il circuito della periferia.
Belo Horizonte, sembrava fluttuare nei raggi del sole, se visto dalla parte delle sontuose ville, dai giardini verdi come l’abbaglio di uno smeraldo, dal lago artificiale di Pampulha, dall’enorme piazza Liberty e dall’architettura Art Decò sparsa ovunque.
Nella suggestiva piazza Liberty infatti, come una ferita nel cuore, puntuali confluivano anche un’infinità di diseredati che arrivavano dall’entroterra alla ricerca giornaliera di cibo.
L’autobus, ora, si trovava a fianco delle favelas.
Gigliola, dal finestrino, poté osservarne le sagome, i bimbi denutriti e le camicie rattoppate, i legni fatiscenti, le lamiere arrugginite che coprivano i tetti o le mura di pietra gialla, sbrecciate come se un bomba vi fosse esplosa per un disgustoso e disumano godimento.
I dormitori erano abitualmente riempiti con pochi mobili mal tenuti, tende sudicie e rappezzate scendevano sulle finestre e i pagliericci restavano coperti da enormi sacchi scuri, tipo spazzatura.
Il disordine e la sporcizia, sparsi dappertutto, saltavano agli occhi come raggi di luna avvelenati.
I panni colorati erano stesi lungo i fili di cordicella simili ad ali di farfalle prive del loro addome.
Un topo attraversò la strada.
Correva.
Poi fece un’inversione a U, sfiorando i piedi nudi di un bambino nudo che non si mosse, gironzolando infine intorno ad una pozza di liquami a cielo aperto.
Gigliola rabbrividì.
La corriera effettuò una fermata obbligata ed alcuni residenti scesero, andando incontro ad altri gruppi di persone provenienti dai cumuli di capanne che, anche se a poca distanza, apparivano come mucchi di rottami di auto contorte e senza vita.
Gigliola fu afferrata dal vomito che non uscì dallo stomaco, la lingua le si schiumò e l’amaro si propagò veloce nell’intera sua bocca.
Dalla corriera a porta spalancata, il piccolo Shapirò, notò ai bordi della strada, rasente l’erba, una specie di cordoncino che svicolava.
“Mamma,” chiese indicandolo, senza esserne spaventato “cos’è?”
“Un innocuo serpentello” rispose la madre e rise, per non far vedere che, invece, aveva tanta voglia di vomitare, piangere e urlare.
Non di rado, quando il caldo era atroce, alcuni serpenti solitari scendevano dai monti per avvicinarsi alle baraccopoli.
Ma ciò che rimase più impresso nella mente di Gigliola, fu vedere gli adulti incuranti di ciò che era loro attorno, come se dormissero ad occhi aperti nel vedere il tempo scorrere senza che nulla cambiasse.
Una cosa, è quasi negli occhi di tutti: l’umanità sta rendendosi sempre più conto che i difetti sono nella natura, In noi che non siamo spesso in grado di riconoscere la ragione dei giusti.
Essere capaci di dire tu sbagli e lo sbaglio è reale, resta un punto fermo, meraviglioso.
Quando, invece si dice tu sbagli e lo sbaglio non è reale, pone la società in una posizione di sconsiderato disastro.
Gigliola doveva proprio sentirsi in questo stato: confusa e disastrata nel mettere piede nella baracca di tufo sbrecciato, arredata con pagliericci bassi e pochi mobili rovinati.
Teneva il piccolo Shapirò per mano e le lacrime le si erano fermate sugli occhi, come a formare una lucida chiazza d’acqua salata.
“Siamo stati fortunati che l’occupante ci ha lasciato per pochi spiccioli il diritto di abitare questo fottuto schifo, essendosi trasferito…” proferì a voce disorganica il marito, mentre la donna lasciava la mano del figlio, tirando fuori da un sacco, scopa, detersivi e stracci per pulire l’ambiente.
Il piccolo Shapirò, approfittando della circostanza, stava dirigendosi fuori dalla porta, pensando di giocare all’aperto.
La madre, lanciando un urlo, lo bloccò.
“Dove vai tu, vieni qui, non muoverti di casa!”
“Non preoccuparti, cara, porto io il piccolo a fare un giro per ambientarsi.” intervenne Cojencio.
“No,” urlò ancora veloce Gigliola “né tu né lui… voi non vi muovete da qui!”
“Ti prego, Gigliola,” disse il marito “non rendere più evidente la nostra situazione, il mio già chiaro fallimento…”
“E già, tu pensi alla tuo amor proprio di guerriero brasiliano, scordandoti le tue promesse… Ah, il sole del Brasile, vantavi, capace di guarire non solo le ossa ma anche le anime più inquiete…Una vita diversa ventilavi poi da quella che conducevo nei miei campi, i giorni di sogno che dovevano accompagnare ogni nostro passo e bla bla bla! Tutte fandonie, abbagli come i raggi del sole brasiliano che dietro le tue parole mi hanno illusa…”
“Non fare così, ti scongiuro… fallo per Shapirò, lui non deve soffrirne.” disse Cojencio.
“Lascia stare il fanciullo, lui tanto viene con me!” fece di rimando, Gigliola, irrigidendosi ancora di più
“Dove?”
“Voglio ritornare alla mia campagna e Shapirò deve venire con me.”
“Cosa dici? Io potrei anche essere d’accordo, ma non abbiamo denaro a sufficienza per il vostro viaggio fino in Italia e poi… non avrei mai creduto possibile che tu volessi lasciarmi.”
“Cojencio…” disse la donna “ma non hai occhi per vedere cosa c’è là fuori? In quei tuguri, in quelle squallide stradine che odorano di fango, anche i bambini tirano il coltello fuori dalle tasche ad ogni screzio insignificante, ad ogni parola detta male…”
“Lo so, sono nato in Brasile…”
Gigliola si esasperò. “E ci hai portato qui lo stesso, in questa merda?”
“Amore” disse Cojencio “io pensavo che la guerra avesse cambiato qualcosa, a parte quello che tu vedi in queste favelas, il mio è un paese meraviglioso…”
“Io, io vaneggio… scusami, amore, ma non mi riesce di accettare che nostro figlio cresca in un simile ambiente.”
“Io ti giuro che presto la nostra situazione cambierà, te lo prometto, a costo di rubare…”
“Ma che dici, sciocco” disse la moglie, abbracciandolo, affiancata dal figlio “pensa a guarire, piuttosto…”
“Guarirò… guarirò… andremo anche da un grande medico, te lo prometto, te lo prometto…” disse Cojencio.
Ma poi, cadenzando il suo corpo, l’uomo reclinò il capo si accasciò al suolo, lasciando con gli occhi sbarrati Gigliola e il figlio che si stringeva alla gonna della madre.
Gigliola, presa dall’isterismo luttuoso, si mise ad urlare, alzando il capo come fanno i lupi, anche di giorno se nel cielo brilla la luna.
Il vicinato che curioso aveva visto arrivare la nuova famiglia, agli urli di Gigliola, si fece avanti, ruppe l’indugio ed entrò nella casupola, esternando il loro congiunto rincrescimento.
Ultimate le esequie, Gigliola si chiuse nel silenzio.
Una donna anziana, residente da anni nelle favelas, le fece visita con un cesto di frutta in mano.
“Ciao,” disse a Gigliola che teneva il figlio al fianco “sono Germina, la tua vicina, siamo anche noi nella povertà, ma se possiamo fare qualcosa per chi soffre più di noi, siamo con il timone in mano, sempre disponibili.”
Gigliola si scosse e, come se si fosse destata in quell’istante, sorrise.
“Cerco un lavoro…” disse, osservando il viso del figlio.
L’anziana donna serrò la voce. “Tutti qui cercano lavoro… bisogna sapersi accontentare di quello che il posto offre.”
“E cosa offre?” chiese Gigliola.
“Se tu fossi un uomo, lo spaccio di droga.”
“E per una donna?”
“La prostituzione.”
“Non c’è altro?” disse Gigliola con il viso che si era fatto scuro.
“Rubare, ma non mi sembra il tuo caso, quello è il lavoro dei bambini.”
“I bambini?” fece eco Gigliola. “E la scuola?”
“Nessuno qui va a scuola.” disse la donna, come se la sua risposta fosse una scia di squisita saggezza.
“Come è possibile?” chiese Gigliola.
“È possibile, è possibile… nelle favelas è meglio che i bambini facciano accattonaggio… così aiutano le famiglie a sfamarsi piuttosto che andare a scuola.”
“Ma è insensato…” azzardò Gigliola stringendo il figlio a sé.
“Forse sì… ma necessario.” disse la donna.
“A cosa?” disse Gigliola
“A tenerci in piedi.”
“Ma non sarebbe meglio che l’intero assetto crollasse qui?” disse Gigliola.
“Vuoi farci morire tutti?” rispose la donna.
“Oh, no…” disse Gigliola mettendo la mano sugli occhi di Shapirò,
“Allora…!” disse la donna “Se non ci fossero in piedi i rottami delle favelas, i loro residenti sarebbero destinati a patire la miseria più nera.”
“È atroce.” disse Gigliola.
“Già…” disse Germina “sei una madre sensibile, anche noi lo siamo, sai… ma rimaniamo anche fatali, crediamo nel Paradiso e la vita è per noi come il signore ce l’ha destinata.”
“Io non sono d’accordo, ma mi sembra che ci sia del giudizio nelle tue parole, ti prego dammi un indizio perché mio figlio non cresca né ladro né mendicante…” disse Gigliola, afferrando le mani della donna.
“Non so se questo possa essere possibile” disse la donna “ma ti voglio presentare Augusto Magno…”
“Chi sarebbe?” si affrettò a chiedere Gigliola.
“Uno che qui da noi conta.”
“Bada” disse Gigliola “non mi presentare uomini che poi avranno mire su di me!”
“Non preoccuparti, ho già capito come sei fatta, ma Augusto Magno è innocuo da quel lato, vive su una sedia a rotelle.”
“Oh scusa, non volevo” disse rossa sul viso Gigliola.
“Sì sì, lascia perdere, diciamo tutte così in principio…” finì col dire Germina, lasciando Gigliola nei suoi cupi pensieri.
Augusto Magno viveva in una casupola come le altre che sembrava dovessero sprofondare nelle terra da un istante all’altro.
Sulla sedia a rotelle restava fiero e sembrava sorridere senza che ne avesse voglia.
Anche se ormai anziano, lo sguardo acceso, denotava che un tempo aveva combattuto.
“Sei la nuova arrivata” disse a Gigliola “mi dispiace per il tuo uomo.”
Lei abbassò appena il capo.
“Dov’è il tuo bambino?” riprese a dire Augusto.
“È con Germina.” rispose.
“Ah, capisco, non vuoi che ascolti le miserie degli adulti.”
“No.” rispose come se le avessero punto la lingua.
“Cosa cerchi da me?”
“Un lavoro.”
“Credi che io sia l’ufficio di collocamento?” disse l’uomo e rise non in modo volgare.
“Io so solo che ho estrema esigenza di avere un lavoro.” disse Gigliola.
“Non mi pare che tu sia il tipo che possa accettare il compito che io ti possa offrire…?” disse l’uomo, cambiando sorriso.
Quell’uomo aveva la capacità di modificare il sorriso ad ogni sua battuta, come nelle recite gli attori o come chi ha troppo sofferto che deve mostrare in ogni occasione tutte le maschere dei suoi patimenti.
“Qualunque cosa purché onesta.” disse Gigliola, guardando negli occhi l’uomo.
“Allora, dovresti abitare in Paradiso…” ribatté l’uomo senza abbassare lo sguardo.
“Nella terra, non esiste il Paradiso…” disse Gigliola.
“Allora è inutile che perdiamo tempo, non ti pare?” disse Augusto, invitandola ad uscire.
Gigliola senza più una parola girò le spalle e si avviò.
L’uomo prima che varcasse la soglia della sua misera casa, la bloccò.
“Un momento…” disse “sai cosa praticavo io alla fine del secolo scorso?”
“No. Perché poi dovrei saperlo.”
”Devi sempre sapere nella vita, con chi hai a che fare.”
“Chi eri, dimmelo.” disse Gigliola.
“Ero un cangaçerios, un brigante, uno dei tanti rimasti, ormai non attivo da quel lato…”
“Mi fa piacere per te che ne sei uscito vivo.” disse Gigliola.
“Le tue sono parole di misericordia ed io voglio aiutarti in parte.”
“Con che cosa dovrei ricambiare il tuo aiuto?” disse Gigliola, cercando una via di difesa.
“Non è a te che lo voglio concedere, ma a tuo figlio.”
“Che vuoi dire?”
“Non sono ricco, con i miei affari riesco solo a vivere bene e ogni giorno toglierò un po’ del mio, inviando cibo al tuo ragazzo, fino a che tu non deciderai cosa fare, dopo che avrai sbattuto la testa in giro, d’accordo?”
“Sì.” disse la donna, pensando al suo bambino che non avrebbe almeno patito la fame e che quell’uomo non doveva poi essere tanto povero, se si privava di una parte delle sue risorse per aiutare Shapirò.
Tra l’altro la donna aveva ben capito che il boss stava concedendo qualcosa di suo, per avere, sia lei che il figlio dalla propria parte.
[CONTINUA]