LA FAVOLA DELL’ARCOBALENO DI SAN MARTINO
Ci fu un tempo in cui la ragazza dagli occhi di brace s’affezionò talmente tanto allo sconosciuto che, inizialmente sembrava ricambiare il suo sentimento che, a poco a poco, le sembrava inutile continuare la sua vita senza lui che, nel frattempo, s’era ritratto.
Ogni volta che non lo vedeva la morsa della disperazione la stringeva sempre più e, più aveva paura di non rincontrarlo, e più questo succedeva. Alla povera ragazza sembrava quello il dolore più lacerante mai inflittole senza sapere quello che le spettava. Seppur sempre di rado, accadeva ancora l’immenso miracolo tanto sospirato di rivedere quell’uomo tanto desiderato, quell’uomo che quando la vedeva le parlava ancora, le sorrideva e non con quelle stuzzicanti labbra mille volte e poi altre mille sognate, ma con gli occhi che con il loro sfavillio rilucevano di sincera gioia di riconciliazione. Così era, sì. Così sembrava. E ogni volta che accadeva, di ricevere quegli intensi sguardi profondi grumosi e fumanti come cioccolato fuso, la ragazza si diceva quanto fosse valsa la pena d’attendere tutto quel tempo spinoso e si gongolava lasciandosi cullare in quegli ultimi attimi d’usurante felicità. Ma di lì a poco, inspiegabilmente, proprio tutta quella felicità si trasformò in un enorme boa costrictor dalle dimensioni inimmaginabili che avvolse la ragazza tra le sue soffocanti spire, senza lasciarle via d’uscita alcuna. Accadde questo perché lo sconosciuto, nonostante tutta l’attesa, non le avrebbe mai più concesso nemmeno più uno sguardo, nemmeno una parola. Quei momenti, d’improvviso, sembravano solo il frutto di una mordace fantasia di lei. Adesso lui era davvero uno sconosciuto. Iniziò ad ignorarla sempre di più, sempre di più, sino a quando i loro incontri casuali lui, li tramutò, da chiacchierate spensierate, ad un penoso saluto reciproco scambiato più per circostanza condita ad educazione che per il piacere di essersi visti. Questo trattamento la paralizzò nella più frustrante impotenza immonda. Non c’era nulla che lei potesse di fronte al volere di lui. A lei non restava che arrendersi. Senza dire nulla si ritirò nel suo mondo, quello che lui, con la sua presenza, le sue chiacchierate, i suoi sguardi aveva variopinto del colore del sole. Ogni sua occhiata aggiungeva uno schizzo di tinta qui e là arricchendolo. Ora tutto quello che era di sole era ritornato tra le viscere della tenebra più nera che con i suoi pensieri oscuri era riuscita a prosciugarsi tutto. Di quel mondo multicolore quasi nemmeno più il ricordo e, quando qualche memoria le si affacciava nella mente, lei tremava nel scacciarlo perché ricordare equivaleva a riviverlo, troppo dolore inutile. Blindò tutti quei sentimenti meravigliosi in un forziere che per lei valeva più del più immenso tesoro, e lo gettò in fondo alla sua anima più profonda. Non lo voleva più ricordare. Mai più.
In una notte come le innumerevoli che l’avevano preceduta, la ragazza se ne stava con le braccia acciambellate nelle quali aveva abbandonato il capo arreso. Dalla finestra, aperta come di consueto, penetrava il flebile chiarore delle stelle del quale lei chissà se si fosse mai accorta rapita com’era da tutta quella malinconia inarrestabilmente divorante. Anche se lo sembrava, quella notte, non era come le altre, se n’era accorta anche lei perché nel petto il cuore se lo sentiva ancora più in necrosi del solito. Non era solo la luce delle stelle ad entrare quella volta ma anche qualcun altro che si palesò a lei dicendo:
«Sento le suppliche che rivolgi di continuo alla volta celeste. Nemmeno io ti posso aiutare come vorresti. Come io stessa vorrei. Ma la mia visita qui non vuol essere vana. Voglio alleviare il tuo cuore puro da quest’insopportabile tormento.»
[continua]