|
|
Alla ricerca del proprio “cantastorie” - Seeking the Inner “Storyteller”
di
|
donna Francesca Giovanna Premi - Alla ricerca del proprio “cantastorie” - Seeking the Inner “Storyteller”
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
15x21 - pp. 334 - Euro 18,50
ISBN 978-88-6587-1270
Clicca qui per acquistare questo libro
Copertina/Cover: “Un dono per tutti/A Gift to Receive” Michael Curley (Zuni), acrylic
Ringrazio sentitamente tutte le persone e gli animali che, entrando nella mia esistenza, l’hanno arricchita della loro grandezza. Con i loro insegnamenti essi non solo hanno messo in moto tutto lo spettro emozionale del cuore, ma hanno acceso e curato in me pure l’evoluzione spirituale e il senso del coraggio.
Un pensiero speciale di gratitudine va alla gente reto-ladina dei monti dolomitici, ai popoli degli Hopi e dei diné (Navajo) del Sudovest americano, a tutte le tribù indigene incontrate durante i miei viaggi intorno al mondo.
A mio padre, Aldo Premi, per avermi guidato e aiutato a realizzare la mia visione.
My many thanks go out to all those people and animals who, by entering into my life, have filled if with richness and grandeur. While putting into motion all the works of the heart, through their teachings, they have kindled in me a spiritual evolution and the sense for courage.
A special grateful thought goes to the Reto-Ladin people of the Dolomite Mountains, to the Hopi people, to the Diné people, to all the indigenous people encountered in my voyages around the world, and to my father, Aldo Premi, for guiding and helping me fulfill my vision.
Francesca Giovanna Premi
VERSIONE ITALIANA
Alla ricerca del proprio “cantastorie”
(Ricollegarsi alla propria cultura e alla Terra)
“Decidi. Il pianeta o lo salvi tu, o si salva da solo.”
“Decide. Either you save the Planet, or the Planet will save itself.”
(Greenpeace, 2005)
DOLOMITI
Nessuno potrà mai capire perché
tornando qui dopo tanto tempo
io senta la vera pace dell’animo:
la vivo fra le rocce arrossate,
nel profumo d’autunno, di fiori
che inonda pascoli di malinconia.
Mi specchio nell’acqua che stilla
e riempie il cupore dei boschi…
Guardo nel sole i masi, i campi,
i contadini carichi di grano.
Torna la vita radiosa e piena
che sorge dietro le criniere mosse
e il galoppare controluce dei cavalli:
vedo il paradiso a due passi da me
lisciando i loro dorsi caldi e sinuosi
sento tutta la potenza della natura
se fisso il vento nelle loro pupille
se corro con loro verso la libertà.
Francesca Giovanna Premi
IL CAMPO
Non c’è niente
che precipiti più forte
nella pace di tutt’i sensi
che il campo.
Profondo è il silenzio,
lo sguardo è presto ‘vinto
di quella vastità che
in fondo è la tua.
E da laggiù,
gli alberi e il cielo sono infiniti.
Muovendomi
tra il profumo del fieno e l’erba
che sprigiona tutti gli amori,
compio i gesti agresti di un tempo,
e ritorno la mente in una favola:
la mia infanzia.
Solo con essa m’invade la pace
che l’uomo non ha.
È una sinfonia
che tocca la radice:
vaghi i ricordi… la tua gente, la vita…
Rialzo gli occhi alla collina
ove poggia la mia felicità,
e le nuvole, il sole, l’azzurro,
i campi, tra i quali la luce s’infila
a intrecciare ricami ancora più belli,
mi regalano i tocchi estremi
di un pittore indiavolato:
un sorriso.
Poi la pace.
Discende nel ventre, soave, una melodia…
e ovattata nella distanza,
che negli uomini è la beatitudine del Tempo,
la campana del Vespro.
E nel fatale commiato del giorno,
occhi ora d’incanto consegnano
all’immenso,
e al tuo respiro,
il campo!
Consegnano,
con gli ultimi bagliori,
la terra alla vita.
Umberto Belluco
Prefazione
I nostri antenati sapevano che il narrarsi storie era importante nella vita d’ogni giorno per potersi collegare con la propria persona, gli altri esseri, l’ambiente. “Uomini di medicina” e anziani di tutt’i tempi possedevano la facoltà di entrare nel mondo invisibile della propria cultura, creare e poi raccontare le storie che servivano a guidare e intrattenere la propria gente. Oggigiorno queste storie raccontate in seno alla propria famiglia e nel segno della propria tradizione, sono più che mai necessarie a uno sviluppo armonico dell’individuo, tutto compreso a trovare un significato e un’identità in un mondo colmo delle istanze di un’esistenza sempre più complessa, di esigenze sociali sempre più spinte, e dello svuotamento dei valori tradizionali e della terra.
Per incidere in modo più efficace, per essere più felici ed efficienti, in una società in rapida espansione tecnologica e di confusione culturale, l’individuo non ha bisogno di crisi d’identità. L’educazione deve riconnettersi alla vita reale di ognuno, alle “storie di famiglia”, del popolo cui si appartiene, alle proprie tradizioni. Le culture indigene di ogni continente sono state influenzate dai cambiamenti introdotti dal mondo coloniale, industriale, e dal consumismo dell’Occidente. È d’attribuirsi a questi fenomeni una moltitudine di effetti negativi, fra i più perniciosi il depauperamento d’intere fasce ambientali e d’intere popolazioni, il mancato trasferimento dei valori tradizionali alle giovani generazioni. Questo si riflette sul comportamento e l’attitudine nei confronti della propria persona e degli altri, e nei confronti della natura. In questa materia è perciò necessario un grosso sostegno per favorire il recupero delle proprie radici e ricreare un senso sano d’identità. L’elaborare e raccontare “storie” è essenziale della coscienza e dello sviluppo armonico dell’individuo e della società.
Mi sono accinta a scrivere quest’opera con chiare convinzioni in mente, maturate nella mia esperienza personale. Alcuni aspetti più puntuali, tuttavia, sono emersi mentre approfondivo la mia ricerca.
Introduzione
“Essere stati esposti allo “storytelling”, di qualsiasi genere, durante l’infanzia, pone la persona nella posizione di riconoscerne l’importanza, e di diventare consapevole della ‘realtà’ delle ‘storie’. Queste ci vengono fornite dalla vita stessa, per mezzo della parola e della comunicazione, e non dall’istruzione e dalla letteratura degli anni successivi. Arrivando presto nella vita di un individuo, le ‘storie’ rappresentano una prospettiva esistenziale. Uno integra la vita come una storia essa stessa, poiché ognuno è come se avesse già ‘storie’ nel retrobottega della mente (inconscio), come contenitori di idee e concetti per organizzare quegli eventi della vita di ognuno di noi che saranno così pieni di significato. I racconti ricevuti sono il mezzo per ritrovarsi in quegli eventi che altrimenti non avrebbero alcun significato psicologico.”
(Hillman, 4:43)
Quest’asserzione dell’autore James Hillman nel suo articolo “A Note on Story” (un’annotazione sul “racconto”), dalla rivista «Parabola», esprime esattamente il nocciolo dei miei studi e del mio lavoro. La presente opera è perciò focalizzata a dimostrare che lo “storytelling” (narrare storie) non è soltanto uno strumento più che lecito d’istruzione, ma è pure da considerarsi uno strumento curativo, di recupero. Nell’attingere alle proprie origini, alle storie dell’infanzia, l’individuo può come riscoprire le proprie ispirazioni di adulto, e ricollegarsi alla natura, potendo così ritrovare una via di “self-healing” (autorisanamento) e completezza altrimenti perduti.
Questo stesso processo può porsi come possibilità d’ispirazione nuova, e d’immaginazione. Hillman crede che mentre la fanciullezza è sinonimo di meraviglia e spontanea creatività, la fase adulta tende a perdere queste facoltà. Un passo molto importante è quello di restituire all’immaginazione un posto di priorità nella nostra deliberata attività intellettuale, indipendentemente dall’età. Robin Moore, nel suo libro «Awakening the Hidden Storyteller» (risvegliando il cantastorie nascosto), commenta che, per molta gente, quell’attività rappresenta una soglia sconosciuta, un’avventura al di là dell’immaginazione e un territorio inesplorato di una vastità incommensurabile. La vita adulta ai nostri giorni è così piena di responsabilità e stress, da non lasciare spazio al “bimbo interiore” di esplorare, giocare, e generare gioia e creatività. Lo stile di vita odierno, adatto al consumismo, e alimentato dai mezzi di comunicazione di massa, esercita grandi pressioni specialmente sui “consumatori” più giovani. Forse sarebbe meglio utilizzare parte del nostro tempo nel creare e condividere “storie” con altri, invece di acquistarle (e non sempre di qualità) su CD, DVD ecc.
Il fine di questo mio lavoro è di presentare l’arte del creare e narrare storie come mezzo per lo sviluppo armonico dell’individuo, e di essere di guida all’esperienza del proprio “cantastorie interno”, tecnicamente nella prima appendice di questo libro.
Moore commenta che, “il primo passo nel concepire il nostro posto sul pianeta dovrebbe iniziare con il ricollegarsi al proprio paesaggio interiore” (9). Questa verità è condivisa da tutte le culture indigene di tutto il mondo. Forse il nostro “paesaggio interiore” richiede un più elastico senso del movimento, un ritmo più calmo, respiro più profondo, e soprattutto partecipazione ad approfondire il nostro contatto con l’ambiente. Solo prestando attenzione, interagendo con i nostri immediati dintorni e con coloro che vi abitano, possiamo realmente aprirci alla saggezza e bellezza che la natura, la storia e i racconti locali ci possono offrire.
La gente hopi, con la quale ho trascorso circa metà della mia esistenza, crede che il contatto con la terra (natura) sia la base principale su cui s’imposta un’umanità equilibrata. La loro cultura e religione roteano intorno al rapporto fra il paesaggio interiore e quello esterno. Nella tradizione, gli anziani raccontano storie in cui le vicende e i protagonisti suggeriscono situazioni e ruoli di vita reale. Altre storie propongono animali che sono simboli di attitudini esemplari. I miti hopi c’insegnano il cerchio della vita e dipingono pure il mondo metafisico. Le loro storie rivelano profezie e avvertimenti che collegano passato e futuro. Gli Hopi e tutte le culture primitive hanno sempre fatto uso di questo ponte fra i due “paesaggi”, ponte chiamato “storytelling”. Ho personalmente potuto beneficiare del potere curativo e dello strumento di crescita propri dello “storytelling”. Il mondo intero potrebbe fruire di questo valore potenziale se lo “storytelling” fosse incoraggiato e promosso nelle nostre istituzioni educative. Dovremmo poterci collegare al nostro mondo interiore, e imparare così a comunicare col nostro “cantastorie”, coadiuvati dalla nostra memoria avitica. Per crescere e vivere in armonia dobbiamo imparare a ricollegarci alle nostre culture e alla Terra.
Siamo tutti potenziali cantastorie? Sono veri “storytellers” di un popolo solo gli anziani e gli sciamani? Sono solo i miti, le fiabe e le leggende, veicoli di una cultura popolare, oppure ne fanno a pieno titolo parte anche le storie che si raccontano in famiglia? Dobbiamo per forza entrare nel nostro mondo interiore per raccontare delle storie, e come si realizza ciò? Sono “storytelling” anche le novelle, i romanzi, gli articoli di giornale, le riviste, i film, gli spettacoli e la televisione? Sono pure queste forme eventualmente valide come mezzo potenziale di formazione? Qual è la natura dello “storytelling”? Tali quesiti saranno debitamente trattati in quest’opera.
Durante l’infanzia, in cui la nostra “mente conscia” è in evoluzione, miti, leggende e storie di casa sono un potente strumento che rafforza il nostro senso di bellezza e appartenenza. I fatti della vita, quelli che fanno parte del “quotidiano”, sono pure mezzi attraverso i quali uno può ritrovare completezza e significato. Valori e riflessioni attivano un senso d’identificazione e possono aiutare l’individuo a raffinare il proprio talento di “storyteller” per le generazioni posteriori.
Nel primo capitolo, cerco di definire la sottile differenza fra miti, saghe, leggende, fiabe e storia, proponendo alcuni esempi, e come quei generi narrativi diversi vadano svolti come “storytelling”. Nel secondo capitolo si esplora l’importanza delle cosiddette “home stories” (storie di casa) – un termine coniato da B. Barton nel 1986 nel suo trattato «Tell Me Another» (raccontamene un’altra) – nel processo di crescita e sviluppo dell’identità personale e culturale dell’individuo. Cheryl Neill, nel suo capitolo sullo “Story-making and Storytelling”, dal libro «Using the Creative Arts in Therapy» (usando le arti creative in terapia), ci spiega:
“Raccontare storie è stata un’espressione della meraviglia umana ai misteri dell’esistenza, non solo per secoli, ma per millenni, poiché lo ‘storytelling’ fa parte dell’esistenza umana come il camminare e il dormire, ed è necessario alla psiche come il cibo lo è per il corpo. Il fine di tutte le mitologie è di istruire i membri di una data società sul loro ruolo nella vita: per porre la gente in accordo con la natura stessa della vita, della morte, e con l’universo” (136).
Quest’assunto si rivela effettivo nella mia esistenza. Nel terzo capitolo spiego come mi ritrovai partecipe di quel tipo d’esperienza nella mia infanzia a Lengstein, una piccola comunità autoctona sulle Alpi Retiche. Lì crebbi sana, con la benedizione dello “storytelling”, una pratica portata avanti soprattutto dalle donne del villaggio. Sulle Dolomiti, un’area montagnosa nel nord d’Italia, il raccontarsi storie fa parte dell’esistenza stessa. Alcune erano storie popolari tessute di eventi leggendari e storici di un passato remoto, e altre erano fatti effettivamente accaduti nei dintorni e tramandati per generazioni. C’erano pure gli aneddoti di vicende famigliari raccontati attorno al fuoco per il divertimento collettivo. Io divenni parte attiva di quelle vicende, e in quel capitolo descrivo come questo funzionò a mio livello personale.
Nel quarto capitolo ricordo come poi, quando venni tradizionalmente adottata, nel contesto della vita tribale, dalla famiglia hopi di Joy e Perry Navasie, venni nuovamente in contatto di gente educata nello “storytelling”, questa volta dall’altra parte del pianeta. L’adozione in sé comportò una cerimonia condotta dalle figure matriarcali della famiglia, le quali mi trattarono come fossi una neonata. Così ebbi a imparare da loro a proposito della loro cultura. Nella mia iniziazione mi furono raccontate molte storie. Ascoltavo mia madre, “Frog-Woman” (donna-rana), e la nonna “Feather-Woman” (donna-piuma), mentre le aiutavo nelle faccende quotidiane. Esse mi raccontavano le loro storie, le profezie hopi e i miti della migrazione del loro popolo in tempi molto antichi.
In molti dei miti e delle storie dei popoli aborigeni e indigeni, i messaggi sono spesso affidati alle figure animali. Questo particolare soggetto sviluppo specificatamente nel capitolo quinto. Gli animali rappresentano talvolta personificazioni, sono compagni di vita, aiutano psicologicamente l’uomo. Rappresentano metafore, sono “totem” e guardiani nel regno metafisico.
Nel capitolo sesto tratto la donna come “storyteller”, e l’unicità delle sue storie. I racconti delle donne (e i loro studi) in special modo fruttano conoscenza empirica e filosofica, vitale per il tipo d’apprendimento alternativo che è lo “storytelling” e per la società. Mary Catherine Bateson, nella sua prefazione al testo «Learning from our Lives: Women, Research, and Autobiography in Education» (imparare dalla vita: donne, ricerca e autobiografia nell’istruzione), dichiara che “quotidianità è un vocabolo frequentemente usato per descrivere quegli aspetti della vita dati per scontati, che qui divengono contesto di creatività e nuovo apprendimento” (vii). “Imparare dalla vita” rappresenta il nocciolo della mia ricerca, concentrata sul potere e l’efficacia dello “storytelling” – con l’accento sui generi autobiografici e di racconti biografici – nel progresso conoscitivo della gente. Imparare è processo continuo, che abbraccia tutto il campo di condivisione necessaria all’individuo per uno sviluppo armonico della propria persona e la preservazione delle culture. Oggigiorno le varie realtà umane, sociali, culturali, del pianeta entrano inevitabilmente in contatto. L’imparare dalle storie che la gente effettivamente vive è cruciale: per espandere la nostra conoscenza e imparare a conoscere veramente le altre culture. In questo modo esiste la possibilità di approfondire la nostra comprensione della diversità, elevandoci spiritualmente e raggiungere la coscienza e il senso di unità e rispetto necessari nel mondo. In questo capitolo asserisco che questo può essere almeno in parte compiuto tramite il risveglio dell’arte dello “storytelling”.
Nel settimo capitolo spiego l’importanza del fuoco e del focolare come luogo d’incontro per lo scambio delle proprie storie. In quell’occasione discuto pure il ruolo che i mezzi di comunicazione hanno nell’intrattenere e istruire i nostri figli.
Nel capitolo ottavo e nono tratto le metodologie generali applicate alla creazione delle storie, e relaziono su alcuni esempi di come certe storie abbiano avuto grande impatto nella formazione del mio carattere e sulla mia esistenza, e su quella degli studenti a me affidati.
Il capitolo decimo sviluppa un’indagine più organica sullo “storytelling”, la quale lo vede più “olisticamente” confuso con le più diverse forme d’arte e creatività. Questo sviluppo dello “storytelling” rappresenta un altro momento cruciale della mia ricerca, nel quale rilevo appunto quella connessione tra le forme diverse e il conseguente risultato nel processo d’apprendimento della gente.
Consapevole dunque dell’importanza che lo “storytelling” ha, e può avere, nell’esistenza di ognuno, mi propongo di volgere questo studio all’attenzione di accademici e studiosi come di un’udienza generale. Pur se solo poche persone dovessero convincersi di essere dei “cantastorie”, credo che l’attitudine sia di tutti. Desidero introdurre tutti coloro che ne hanno avuto un’esposizione limitata, o sono interessati al suo apprendimento, a questo metodo di comunicazione. Desidero, ed è auspicabile, si possa ritrovare una via a questo stupendo regalo all’umanità.
Alla ricerca del proprio “cantastorie” - Seeking the Inner “Storyteller”
VERSIONE ITALIANA
Alla ricerca del proprio “cantastorie”
(Ricollegarsi alla propria cultura e alla Terra)
PARTE PRIMA: INFANZIA E “STORYTELLING
Capitolo 1
Miti, leggende, saghe e storie
“Un eroe si avventura dal mondo del ‘giorno comune’ verso una regione di meraviglie soprannaturali: forze fantastiche incontra colà, e una battaglia decisiva è vinta. L’eroe ritorna dalle sue avventure misteriose con il potere di dispensare favori ai suoi simili.”
(Campbell, xvi)
Le differenze fra miti, leggende, saghe, “storie”, sono apparentemente minime, mi spiegarono da bambina, ma i racconti della tradizione vengono classificati in modo diverso a seconda del loro contenuto.
I miti sono storie di dei e di eroi, di creature fantastiche di un passato lontano per mezzo delle quali si cercano di spiegare credenze e usanze di un popolo. Si osserva perciò, che i miti greci e la tradizione cristiana assumono l’obbedienza come discriminante fra punizione e ricompensa. Un esempio classico che illustra questo concetto è la storia del vaso di Pandora, parallelo a quello biblico della creazione dell’uomo, e della sua conseguente “caduta”. La curiosità di Pandora ricorda la disobbedienza di Eva. In ambedue le storie, una donna è motivo di crisi che conduce alla punizione dell’umanità.
Al di là di vicende che illustrano drammatiche o fantastiche imprese di uomini o dei, i miti possono rappresentare la spiegazione dei misteri della vita e della morte, di un fenomeno naturale, e le origini di un popolo. Gli Hopi, ad esempio, basano le loro credenze sulla mitica migrazione dei loro antenati. Dopo un lungo viaggio che li portò attraverso grandi estensioni d’acqua e terre, di spazio e tempo, essi raggiunsero le tre “mesas” (tavolieri) delle loro profezie, ove risiedono ancora oggi. Jean Huston afferma che: “Un mito è un fatto mai accaduto che succede ogni giorno” (citato in Moore, 10).
Le leggende pure sono racconti tramandati da tempi antichi, spesso di natura didascalica. Non di rado però sono riconducibili a fatti realmente accaduti e a personaggi storici, così d’acquistare sembianza di veridicità agli occchi della gente. Un esempio è quello che narra la storia del famoso Orlando, il paladino di Carlo Magno. La vicenda del suo sfortunato amore per la principessa dei Mori, Angelica, e le sue eroiche gesta a Roncisvalle sui Pirenei, rivelano al contempo l’immagine di un uomo e quella di un semidio. In questo genere di racconti, i personaggi storici divengono soprannaturali, protagonisti di gesta sovrumane. Lancillotto e re Artù sono un’altra coppia di famosi eroi che incarnano quelle qualità. Ambedue innamorati della stessa donna, la regina Ginevra, non esitano ad anteporre la ragione del destino che li accomuna nella difesa di Camelot, fine ultimo del loro condiviso sacrificio.
Le leggende che fiorirono durante il medioevo nell’Europa del nord sono chiamate saghe. Nelle tradizioni celtiche e germaniche la disobbedienza aiuta i protagonisti nella loro evoluzione spirituale e fisica. Sigurd il Volsungo rappresenta questo tipo di eroe. White narra che l’eroe, accompagnato dalla speciale spada Gram, e dal suo cavallo Grani, parte per vendicare la morte del padre Sigmund, ucciso dal re vichingo Lyngvi. Uccide dunque il drago Fafnir, impossessandosi degli immensi tesori custoditi dal mostro nel suo antro. La principessa guerriera Brunhilde è così liberata dalla maledizione del dio Odino, e insegna a Sigurd le arti della medicina e della letteratura. I due si giurano eterno amore. Sfortunatamente, c’è chi possiede altre mire, e all’eroe, a sua insaputa, la regina Grimhilda, che desidera Sigurd per la figlia Gudrun, somministra una pozione magica capace di fargli scordare la sua relazione con Brunhilda. Con la propria morte, l’eroe trova redenzione dal proprio tradimento, e gran riconoscimento spirituale fra la sua gente. Il contenuto essenziale di questa saga è comune ad altre culture del pianeta. C’è, infatti, un aspetto universale nello “storytelling”, che sta nella lezione che la redenzione, di un individuo, passa sempre per le prove della vita, e il raggiungimento di una dimensione concettuale “oltre”.
La leggenda irochese di Hiawatha – l’eroe Mohawk che, con fede e coraggio, si sottopone al compito di divulgare la “Grande Legge della Pace” fra le Cinque Nazioni –, che concerne la redenzione dell’eroe e del suo nemico per una trasformazione positiva di entrambi, ci ricorda che sapere affrontare ciò che di brutto è in noi ci permette di penetrarlo e capovolgerlo. Il viaggio di Hiawatha ci conferma inoltre che nella vita ci saranno sempre nuove prove da superare, che ci sarà sempre da confrontarsi col brutto in forme sempre diverse, e che ciò richiamerà sempre nuove forme d’espressione della nostra bellezza. La bellezza perduta e la rovina sono riscattate col fuoco della sofferenza (Johnson, 10-12).
Le storie popolari e le fiabe non presentano, tra loro, differenze rilevanti. Ambedue sono storie tradizionali tramandate per generazioni dalla gente di un certo paese, o regione, raccontate attorno al fuoco nelle notti d’inverno per intrattenere parenti e amici. Ricordo il costume, in seno alla mia famiglia di montagna così come fra gli Hopi: i bimbi siedono vicini al focolare, o alla stufa a legna, ad ascoltare gli anziani narrare… Molte di queste storie rappresentano le credenze, le usanze e le superstizioni del popolo, con animali parlanti e figure magiche. Altre, nate da vicende e personaggi reali, sono state poi col tempo, e le diverse manipolazioni, connotate di aspetti fantastici. Charles Perrault, i fratelli Grimm, e Hans Christian Andersen, raccolsero parecchi di questi racconti popolari facendone fiabe per bambini.
«Pinocchio», di Carlo Collodi, rappresenta una delle storie più famose della mia cultura (italiana). Il burattino di legno, dopo innumerevoli avventure e disavventure, finisce per ricevere un cuore e corpo umani, con l’aiuto della magia e dell’amore di suo padre, il falegname Geppetto. “Cenerentola”, raccontata da C. Perrault, presenta invece la storia di una ragazza che si dice vivesse col padre vedovo in una tenuta della Francia rurale dei primi del XVI secolo. Alla morte del padre, la matrigna sottopone la giovane donna (che soleva leggere e addormentarsi accanto al fuoco del camino, da cui il nomignolo) a ingiusto trattamento, in casa sua. La storia, in cui l’eroina resiste e tollera ogni sorta di meschinità con fede e coraggio, esprime un senso di gentilezza e liberazione. La vicenda termina felicemente per la fanciulla, che si narra trovi amore vero nel principe ereditario.
Le storie popolari degli afro-americani, invece, costituiscono una vivace esposizione, unica nel suo genere, della loro cultura “indigena”. Portate dall’Africa al tempo della tratta degli schiavi, queste storie continuano a esistere come memorie viventi delle proprie radici, e incorporano una vasta collezione di racconti di giovani eroi ed eroine, di fiabe, con animali e personaggi d’imbroglioni come Anansi, che una ne pensa e cento ne fa. Molte di queste storie hanno una tradizione orale, con musica e canti. Il dottor Rex M. Ellis commenta che:
“[Queste storie] erano usate per interpretare l’universo; [servivano] a spiegare fenomeni fisici e naturali; insegnavano la morale, mantenevano i valori culturali, tramandavano metodi di sopravvivenza, ed [erano usate] per lodare il Signore. Le storie servivano per celebrare la libertà e per condannare la schiavitù del popolo africano” (8).
John Bul Dau, Sudanese di nascita e oggi cittadino americano – fondatore della John Dau Sudan Foundation dedicata a provvedere aiuti medici e istruzione pubblica al suo paese d’origine –, di “storie” ne ha sentite e raccontate molte in tutta la sua vita. Non ultimo, il suo lavoro autobiografico «God Grew Tired of Us» (Dio si è stancato di noi), la scioccante vicenda di uno dei tanti “Lost Boys” (ragazzi persi) sopravvissuti all’incubo dei conflitti africani e in fuga verso l’ignoto.
Cresciuto tradizionalmente secondo la cultura dei Dinka, dove l’istruzione sottoforma di storie popolari e indovinelli veniva impartita dagli adulti la sera, e poi reiterata dai bambini seduti con i loro greggi sotto i grandi alberi del loro villaggio, adolescente di tredici anni, si trova nel mezzo della guerra civile che flagellò il suo paese per più di due decadi e, in una sola notte, brutalmente separato dalla sua famiglia.
Nel suo lungo girovagare per sfuggire alla fame e alla sete, alle torture e alla morte, fra incontri ravvicinati con predatori e imboscate tese dai djellabas (milizia araba), John Bul Dau tenne alta la fede e attive le “sue storie”, anche nei momenti di profonda disperazione.
Nei campi di rifugiati in Kenya, che alla fine raggiunse assieme a migliaia di altri ragazzi e bambini scampati agli orrori degli attacchi ai propri villaggi, aiutava quelli più sfortunati del suo gruppo anche tramite lo “storytelling”, secondo la tradizione dinka.
Miti, saghe, leggende e storie popolari costituiscono un retaggio che aiuta la gente ad apprendere lezioni di vita e a identificarsi con la propria cultura. Tuttavia, come dice Cheryl Neill, le “storie di casa” forniscono l’individuo di riferimenti essenziali all’identità personale.
Capitolo 2
Storie di casa
“Le storie di casa formano un corpo sostanziale di materiale inconscio che fornisce la struttura portante a quella che si può riconoscere come identità personale.”
(Neill, 142)
Esistono storie narrate da altri (istruttive), e altre sono le “proprie” (storie di casa). Alcune sono “portate avanti dai miti, leggende e storie popolari di una data società”, e altre sono chiamate “di famiglia” (come sostiene Neill). Le “storie di casa” sono parte integrante della nostra vita, soprattutto durante le festività e i raduni famigliari. In special modo i racconti dei genitori e dei parenti rappresentano il materiale inconscio della nostra visione del mondo. Questi messaggi raggiungono l’individuo presto, nella prima infanzia e, assieme alle idee sull’immagine e la capacità proprie, a quelle legate all’appartenenza culturale e religiosa, formano il bagaglio della conoscenza e degl’insegnamenti praticati. Molte storie di casa ci giungono dalla lezione dei momenti di crisi della nostra esistenza, motivo di cambiamento e rinnovamento. La coscienza di questo sistema d’apprendimento per ricostruzioni narrative ci consente poi di gestire meglio e risolvere problemi. Sono gli eventi stessi a spingerci su questa strada (dell’apprendimento) nella vita, sviluppando la forza di evolvere e maturare in senso creativo, aggiungendo capitoli alle “storie di famiglia” per le generazioni a venire.
Ricordo come, da bambina, mi sia ritrovata privata della preziosa presenza dei miei genitori. Ciò nonostante, trovai il modo di ribaltare il senso degli eventi, e di trarne un’evoluzione spirituale costruttiva e indipendente. Riconosco oggi che un apporto importante a quel processo di adattamento, durante quel duro periodo, mi fu dato dagl’insegnamenti e dalle storie stupende che la gente di montagna che mi ospitava mi offrì. Ebbi modo di fare mie quelle storie, e d’investirmi dei valori di quella cultura e di quello stile di vita. I monti erano maestri di resistenza e coraggio. Non s’insinuava il dubbio: dal più piccolo al più anziano, tutti attendevamo attivamente al ciclo della vita, nell’ambiente di quelle montagne. Per ogni stagione si raccoglieva e coltivava. Accudivamo ai nostri animali con cibo e riparo, ed essi ci ricambiavano dei loro prodotti, lavoro e vita. Colà imparai che tutto è egualmente importante per la sopravvivenza, e per il benessere dell’intera comunità e dell’ambiente circostante: gli elementi, le piante, gli uomini e gli animali, tutti condividiamo lo stesso pianeta. Dalle storie raccontate attorno al fuoco alimentato con la legna e le pigne raccolte e trasportate in gerle durante tutta l’estate, imparai a conoscere bellezze e misteri, la forza della natura e dell’amore. I nostri anziani sapevano bene che il raccontare storie rappresenta un fatto importante nell’esistenza quotidiana. Oggetti ed esseri assumono un significato speciale perché l’incontriamo nelle nostre storie. Queste lezioni di vita sono rimaste con me d’allora.
Anni dopo, una volta introdotta ai modi di vita degl’Indiani d’America, scoprii che pratiche e valori lì erano paralleli a quelli imparati nella mia infanzia a Lengstein. Pure in quelle tribù si raccontano storie attorno al fuoco. Il mondo industriale e consumista, materialista e fomite di spreco, sta però cambiando tutto ciò. La vita moderna pone la gente sotto pressioni di modelli esistenziali in continua evoluzione, alimentati da una cattiva informazione. Quel che è peggio, i mezzi di comunicazione di massa (mass-media) influenzano l’intelletto e la capacità critica.
“La verità” è così difficile da raggiungere per coloro che “si affannano a trovare una propria identità e un ruolo nella società” (Neill, 143); questo a livello individuale e collettivo.
Ad esempio, i bambini e adolescenti delle tribù d’Indiani d’America crescono oggigiorno in seno a due società distinte, costantemente in fase di adattamento fra ciò che è loro proposto dal mondo occidentale e quelli che sono gl’insegnamenti delle proprie tradizioni culturali. Questo sta succedendo per ogni dove nel mondo, per cui la gente indigena è stata forzata ad accettare un nuovo corso e i suoi valori, a causa del colonialismo.
Ho potuto sperimentare di persona quella dicotomia proprio durante la mia infanzia a Lengstein. Ero chiamata a comprendere e accettare ambedue le realtà: quella proposta dalla vita campestre del piccolo villaggio dolomitico durante i mesi estivi, e quella spesa durante il periodo scolastico (e più tardi lavorativo) nella città capoluogo di Bolzano, allora in piena espansione industriale. Ho sviluppato così un naturale forte senso di simpatia e solidarietà per quelle popolazioni indigene che stanno lottando per tenere viva la propria identità, mentre stanno subendo pressioni devastanti da parte dell’Occidente.
Solamente con l’ausilio dell’eredità di quel popolo montano, le molte storie di cui si è arricchita la mia coscienza, e il costante coinvolgimento della natura, sono potuta sopravvivere spiritualmente. In un’esistenza vissuta fra mondi contrastanti, la gente è chiamata a conciliare realtà diverse. Alla fine questa può essere una dura ma ripagante esperienza. Mio padre hopi mi disse un giorno: “La nostra chance è di potere scegliere il meglio fra ambedue [i mondi].”
Dal momento che le storie di famiglia sono cariche di conseguenze nel modellare la persona e le sue convinzioni, mi accingo qui a illustrare alcune storie (e Storia) della mia terra di origine, per dimostrare meglio come quelle possano fare una differenza sostanziale nelle scelte di vita di un individuo.
Capitolo 3
Storie della mia patria
“Molto prima della nascita di forme di religione, il raccontare storie era veicolo della saggezza antica. All’interno dei racconti, delle leggende e dei fatti storici, profonde verità di vita trovavano modo espressivo. Le storie introducevano i propri ascoltatori a un mondo di magia e mistero, alla possibilità d’altro da noi.”
(Feldman e Kornfield, 1)
Secondo lo storico italiano Mario Ferrandi, autore dell’opera «L’Alto Adige nella storia» (1989), le valli delle montagne dolomitiche furono percorse intorno al 1000 avanti Cristo da tribù proto-italiche dedite al nomadismo: i Liguro-Iberici e i Veneti. Gli Etruschi pure, un popolo i cui idioma e origini sono ancora avvolti nel mistero, si affacciarono alle valli dolomitiche a un certo punto. Si reputa siano migrati dall’Asia Minore, e siano approdati con le loro imbarcazioni lungo le coste tirreniche italiane in tempi remoti, quivi fondando i primi nuclei della loro civiltà e del loro dominio che si estenderanno ben presto a tutta l’odierna Toscana, il Lazio e, in un secondo tempo, alla Valle Padana (Ferrandi, 22-23).
È a questo punto che leggenda e storia sembrano fondersi l’una nell’altra. Nell’opera «Roman Mythology» (1974), Peter Croft scrive che, secondo un antico mito, le origini di Roma sono collegate alla profanazione di un tabù. Rhea Silvia, principessa d’Alba Longa, era stata ordinata vergine vestale dallo zio Amulio, per scongiurare il fatto che la progenie potesse un dì rivendicare il trono ingiustamente tolto a suo fratello maggiore padre di Rhea. La vestale però, era rimasta incinta del dio della guerra Marte, rompendo così il suo voto di castità obbligatorio per le sacerdotesse guardiane del fuoco sacro del tempio di Vesta, sul colle Capitolino. Per punizione, il tiranno ordinò allora che i due gemelli natile fossero gettati nel Tevere, al tempo in piena. Il cesto con gl’infanti rimase a galla e andò ad arenarsi in un canneto ove fu rinvenuto da una lupa che allattò i due pargoli. Romolo e Remo, antenati della “gens romana”, furono poi adottati dal pastore Faustolo e da sua moglie Larentia. Una volta cresciuti, i due guidarono, fra le altre, una sortita indirizzata a uccidere Amulio e a ristabilire il nonno Numitore sul trono d’Alba (Croft, 21-23).
Etruschi e Romani in seguito divennero le tribù più nutrite sul suolo italico. Sempre secondo Ferrandi, intorno al 400 avanti Cristo, gli Etruschi abitanti nella valle del Po furono spinti in varie direzioni da tribù celtiche, i Galli, che, provenienti da oltralpe, avevano invaso la regione padana. In quell’occasione, alcuni gruppi d’Etruschi ripararono nelle valli dolomitiche. I Galli non si fermarono, ma scesero lungo la penisola con l’intenzione di saccheggiare Roma. La storia de “La città eterna” è per sempre legata alle “oche del Campidoglio”, i volatili sacri a Vesta e Giunone che, starnazzando, svegliarono e avvisarono i Romani dell’imminente incursione.
Nel frattempo, gli Etruschi, guidati da Reto ed entrati nelle Dolomiti per la valle dell’Adige, si stabilirono in quelle contrade fondendosi con i gruppi indigeni. Quella porzione delle montagne è perciò conosciuta come Alpi Retiche, dal nome del condottiero etrusco. Più tardi, intorno al 200 avanti Cristo, la fusione delle tribù rète con gli avamposti romani diede luogo alla formazione del gruppo etnico distinto dei Reto-Ladini, considerato autoctono di quelle regioni (Ferrandi, 22-23).
Il generale Druso, figliastro di Cesare Augusto, aveva condotto una campagna militare di successo contro le tribù dei Reti, con la conseguente propagazione della cultura e religione romane fra i popoli delle valli dolomitiche. Nuove strade e grossi nodi di commercio nacquero in quel periodo, come Pons Drusi e Bauzanum. I montanari trovarono sbocchi per il mercato dei loro prodotti, e nuove vie di scambio si formarono fra le culture del nord e sud dell’Europa. Ciò nonostante, le popolazioni dolomitiche mantennero pressoché intatta la propria cultura nei secoli. Neppure le invasioni degli Unni, delle tribù gote e dei Longobardi nel medioevo ebbero ragione dello spirito e dei forti legami che le comunità indigene delle Dolomiti da sempre hanno avuto con la loro amata terra e le sue storie (Wolff, 7-8). Questa varietà di culture ed eventi certamente fecero fiorire uno splendido e ricco retaggio di miti e leggende.
Le narrazioni popolari dolomitiche sono il prodotto delle vicende sopraccitate, dove elementi addirittura preistorici si fondono con racconti reto-ladini e saghe medievali. Alcune di queste storie sopravvissero per voce di menestrelli viandanti che, di villaggio in villaggio, di corte in corte, portavano e cantavano le gesta di dei ed eroi, mentre altre furono collezionate in quella che è conosciuta come “La poesia ladina”. In queste poesie esistono personaggi mitici, guerrieri e principesse, esseri fantastici e animali parlanti, che operano in paesaggi simbolici o ben conosciuti, che sollecitano caratteri e identificazioni (Wolff, 9).
Questa mia passione e inclinazione ad ascoltare e narrare storie è nata proprio nella mia infanzia. Ricordo che una mia maestra elementare ci leggeva un libro, mentre noi bambine lavoravamo ai nostri progetti d’artigianato: «I Monti Pallidi – leggende delle Dolomiti», di Carl Felix Wolff. Da sempre uno dei miei autori preferiti, Wolff collezionò molte di queste storie in più opere, di cui la sopraccitata è la più famosa, rendendo un gran servigio alla conservazione dei tesori culturali dei popoli reto-ladini. Senza il suo minuzioso e delicato operato, molte di queste leggende sarebbero oggi in via d’estinzione. Egli raccolse frammenti dei distinti “cicli” (come sono comunemente chiamati gli stadi dell’evoluzione della poesia ladina). Con pazienti ricerche e frammenti di storie narrati dagli anziani montanari, egli è riuscito a ricostruire parecchi racconti dei quali si possono apprezzare gli aspetti culturali.
Ogni estate era per me occasione di arricchimento in quella materia. Al termine del periodo scolastico, venivo mandata con mia sorella proprio su quelle montagne, dove una famiglia di montanari di stirpe reto-ladina si occupava di noi durante i periodi di assenza dei nostri genitori. Negli anni ’50, mio padre fu ripetutamente mandato all’estero dalla ditta per la quale lavorava. Essendo specializzato in campo idroelettrico, lo incaricavano di mansioni alle centrali e dighe sul Nilo in Africa, e sui grandi fiumi della regione amazzonica. Mia madre era stata intanto ricoverata in una clinica neurologica privata di Verona. L’incubo dei bombardamenti, vissuto così da vicino durante la Seconda guerra mondiale, l’aveva oltremodo devastata, e necessitava di cure. Noi due bimbe trascorrevamo i mesi invernali in un collegio di suore cattoliche e quelli estivi fra i contadini dell’altipiano di Renon. Questo secondo fatto mi preservò dal soffrire del trauma dell’abbandono da parte dei miei genitori, tipico in circostanze del genere. Mi furono d’aiuto soprattutto le storie narrate all’interno della famiglia dei montanari, che m’infusero un senso di forza interiore e forgiarono la mia identità personale coniata dalla vita stessa nei campi e nei boschi di quelle contrade, in un paesaggio familiare in cui potevo muovermi liberamente e con confidenza. I Monti Pallidi, le Dolomiti, divennero la mia corte con le sue storie di mio dominio. Come scrivo nel capitolo 4 della mia autobiografia, «Walks Far Woman» (la donna che cammina lontano), a esempio di quanto sopraddetto, e di come una tipica storia popolare dolomitica abbia avuto impatto sulla mia crescita:
“Con l’unica compagnia di uno zainetto e di qualche occasionale scoiattolo o cerbiatto sulla mia pista, arrancavo e mi arrampicavo per interminabili ore su per la montagna verso il Corno di Renon, in cerca di funghi. È quel tipo di sentire, che uno cresciuto sui monti arriva a sviluppare, proprio come esprime Reinhold Messner: ‘La libertà di andare dove voglio’. La mia immaginazione dava vita alle molte tradizioni orali locali: storie di nobildonne, cavalieri di ritorno dalle Crociate, fate e streghe, gnomi e ninfe, e draghi.
Proprio a Lengstein avevamo le nostre storie di donzelle e streghe e anche un misterioso castello, mai ritrovato. In certe serate d’inverno, attorno alla stufa, queste storie divenivano come un gran film nelle nostre menti tutte protese ad ascoltare ciò che il “Tata” Franz ci raccontava, lui stesso attore di certe avventure. Ci raccontò di un feudo in cima a “Hexen Boden” (piana delle streghe). Persino il parroco, si diceva, era a conoscenza di tali storie, e che avesse dei vecchi manoscritti al proposito.
Una volta, si raccontava, c’era un castello su quella collina a nord del paese, e vi viveva una nobile coppia. Il signore del castello, dovendo partire per lidi distanti, fece un patto col mondo degli spiriti demoniaci per poter ritornare vivo al suo maniero e alla sua donna. Ma perse tutto nell’affare; il castello, i beni, e la sua signora, e salvò solo la sua esistenza. In certe notti intorno a quella collina, la gente locale è sicura di avere sentito il lamento della donna, e di aver visto un lume muoversi tra gli alberi, come d’una lanterna vagante tenuta da nessuno.
Il Tata Franz stesso con altri due taglialegna s’imbatté in ciò che pareva un’antica scalinata di pietra che scendeva nelle viscere della terra, come fosse l’accesso ai sotterranei sepolti di una costruzione sgretolatasi nel tempo. I taglialegna, non avendo badili con loro, e credendo di poter facilmente ritrovare il sito, corsero giù al paese a prendere attrezzi, ma una volta tornati sul cocuzzolo boscoso non riuscirono più a trovare nulla.
Moltissimo tempo addietro, ci fu raccontato, un altro garzone si era imbattuto nella stessa scala di pietra, e in qualche modo era riuscito a smuovere i detriti fino a creare un passaggio e a entrare in quella che pareva una segreta sotterranea, dove un drago delle dimensioni di un grosso serpente era a guardia del tesoro di un signore, mandando fiamme dalla bocca. Accanto vi era una nobildonna dalle vesti seriche, che ammoniva d’armarsi di un grosso bastone col quale disfarsi del serpente. In quel modo la maledizione sarebbe stata rotta, la donna liberata, e il tesoro reso disponibile. Il ragazzo però, temendo di venire coinvolto in qualche trucco demoniaco, mollò lì tutto e col cuore in gola corse a raccontare l’accaduto al paese. Un gruppo di diversi uomini armati tornò lassù, decisi a completare il lavoro lasciato incompiuto dal garzone. Ma per quanto facessero e cercassero, non riuscirono a trovare l’entrata alle segrete, misteriosamente svanita.” (Premi, 37-38)
Carl Felix Wolff ci ricorda che questo tipo di storie popolari e leggende, originate al tempo delle Crociate, contenevano motivi pagani e cristiani al contempo, in una “storia” tramandata da una generazione alla seguente (7-8). Nuovi elementi e fatti venivano poi aggiunti a quelle vicende da esperienze personali degli abitanti del villaggio, e questo da tempi remoti fino ai giorni attuali. Da bambina, anch’io divenni protagonista e parte della tradizione popolare. Così scrivo nello stesso capitolo:
“Gli adulti, con un atteggiamento al tempo stesso appassionato ma non privo di riserve rispetto alla cosa, fece però sì che la nostra immaginazione di bimbi corresse sfrenata. Ben presto anch’io mi ritrovai su quel monte a cercare tesori per mesi, senza trascurare dettagli… Il problema rappresentato dal rettile di guardia non mi sfiorava neppure, sicuramente l’avrei abbattuto una volta faccia a faccia. Un giorno fortunato inciampai in ciò che parevano essere tre lastroni di pietra scura entranti nella terra, ricoperti di foglie e muschi. Purtroppo, quel dì, avevo lasciato i miei attrezzi al limitare del bosco, perché ero a funghi. Anch’io, come i miei predecessori, non ebbi fortuna a ritrovare il posto una seconda volta ritornata colà con gli attrezzi.” (Premi, 38)
Questa parte è divenuta la continuazione naturale della storia raccontata dalla gente del paese ai propri figli e nipoti. In quel villaggio, la gente ha tessuto la mia vita entro le proprie leggende negli anni, e non solo per la piccola donna coraggiosa conosciuta durante gli anni della mia crescita a Lengstein, ma anche per tutte le storie delle mie avventure oltreoceano (“la Grande Acqua”), per andare a vivere con i popoli indigeni di quella terra lontana, raggiungendo i loro villaggi a cavallo in un viaggio di mesi. Quando ritorno a Lengstein per rivisitare i luoghi e la mia famiglia di lì, mi prende un senso d’infinito, e un “feeling” indescrivibile di profonda armonia mi pervade. Senza contare che, ogni volta, si ripete lo stesso rito attorno al gran tavolo di legno duro, ove tre generazioni di persone si raccolgono per celebrare l’evento, fra gustose portate di cibo locale e il raccontarsi le storie. Ben presto i più anziani si fanno portavoce delle mie avventure intorno al mondo con i più giovani. Fra mille risate vengono a galla i momenti più comici, e le fasi salienti delle mie imprese, che provocano meraviglia e ammirazione negli occhi dei piccoli. Questo è un tipico esempio di come nascono le storie di famiglia, e di come queste possano infondere forza, ispirazione, e un senso d’appartenenza a coloro che ne fanno parte.
Fra le figure a me più care incontrate nelle storie della mia infanzia, quella dell’eterea “Soreghina” (raggio di sole in ladino) è probabilmente la più poetica (Wolff, 9). Il mito di matrice preistorica racconta il fato della figlia del Sole che, per la sua particolare natura, non poteva essere sveglia al passaggio della nera Mezzanotte, pena la morte istantanea della gracile fanciulla.
Un altro noto personaggio leggendario è quello di re Laurino, il cui palazzo si stagliava, nelle credenze locali, in cima allo stupendo Vajolòn, nel gruppo del Catinaccio. Questo massiccio s’incendia di tonalità radiose rossastre al tramonto, che la fervida fantasia dei montanari ha trasformato in un immenso giardino di rose magiche circondanti il castello del piccolo re dei nani. La leggenda annovera pure personaggi storici post-romani, come il re goto Teodorico da Verona, chiamato da un re vicino nel tentativo di riscattare la figlia, la principessa Similda, rapita e tenuta prigioniera da Laurino nel suo castello sul “Rosengarten” (Wolff, 29-35). Questo tipo di figure si riscontra in molte culture, specie nelle saghe nordiche, perciò si ritiene che alcune di queste storie siano state portate nelle Dolomiti da menestrelli erranti e cavalieri di ventura.
Il nome “Lis montes pàljes” (i monti pallidi) è di per sé frutto di una leggenda. Si racconta che le Dolomiti fossero scure e sinistre in tempi remoti. Un principe, che aveva sposato la figlia del re della Luna, aveva impiegato il popolo dei nani per tessere i raggi del pallido corpo celeste attorno alle cime dei monti del suo regno: per incanto le Dolomiti si erano illuminate e schiarite come fosse il paesaggio lunare tanto caro alla principessa (Wolff, 13-27). Fra tutte le leggende dolomitiche, quella che amo di più è “Lo fontèna del omblia” (la fonte dell’oblio), che narra di Vinella, uno spirito puro preso di mira dall’invidia e malvagità di un mondo gretto, mentre lotta per il raggiungimento della sua libertà spirituale e del vero amore. L’eroina, alfine, trova significato e appagamento ai suoi ideali trascendendo il dolore e superando gli ostacoli con il sostegno di forze magiche e con l’ausilio della natura (Wolff, 223-244).
Ci sono parecchie leggende dolomitiche che ritraggono donne per eroine, alcune che impersonano esseri femminili soprannaturali. È interessante notare come la donna fosse investita di potere in quei tempi lontani quando le leggende furono forgiate. La storia di Vinella e della fonte dell’oblio prende vita nella valle di Fassa, e nei monti circostanti. Al tempo in cui gli armenti, guidati dai pastori scendono a valle alla fine dell’estate, le streghe vengono giù dai loro picchi all’altopiano di Ciampedie. Si narra di cose strane avvenute lassù mentre le megere danzano le loro ridde e praticano incantesimi alla luce della luna piena (Wolff, 223-224). Questa è una leggenda infusa di molto significato e simbolismo e, come la maggior parte delle storie popolari, era intesa a insegnare modelli e valori alla gente. In questo caso il messaggio è orientato a spiegare come tramite la meditazione, purificazione e determinazione, una persona può giungere alle vette della felicità e santità spirituali.
Da bambina che ha avuto l’opportunità d’identificarsi in queste storie e l’ambiente naturale loro teatro, ho imparato ammirazione, amore e rispetto per tutte le forme e gli esseri che vi fanno parte. Ho pure capito il nostro appartenere allo stesso ciclo vitale, il delicato equilibrio che tutte le forme viventi condividono e da cui dipendono, il valore degli elementi, e le fonti da cui proviene ciò che ci è necessario, cibo e vestiario. L’importante dialogo stabilitosi fra me bambina e quell’ambiente naturale ha promosso una felice, equilibrata crescita, il mio attuale comportamento, e il mio, intimo, cantastorie.
Lengstein, e la mia infanzia nelle Dolomiti, mi hanno raccontato e insegnato una storia, tramite quello che io chiamo “lo storytelling naturale”, che mi ha dato il potere d’essere tutto ciò che ho sognato, la libertà di andare dove desidero, e che mi ha mostrato che non c’è povertà in un ambiente che si autosostiene.
VERSIONE INGLESE
Seeking the Inner “Storyteller”
(Reconnetting to our Cultures and the Earth)
DOLOMITES
Nobody will ever understand why
by coming back here after so long
I feel the true peace of the soul:
I live it among these red rocks,
flooding meadows with melancholy.
My image reflects in the dripping waters
filling with music the darkness of forests…
In the sunshine I see farms, the fields,
the peasants loaded with wheat.
Life is coming back, radiant and full
rising from behind the flowing manes
and the silhouette of running horses:
I see paradise two steps away while
caressing their warm and round backs
I feel all the power of nature
staring at the wind in their pupils
running with them towards my freedom.
Francesca Giovanna Premi
Abstract
Our ancestors were aware that storytelling was important in everyday life in order to connect with the environment, other beings and oneself.
Medicine people and elders of all times have entered the inner world of their culture to create and tell stories to teach and entertain their people. Currently, people are in great need of stories from families and traditions in order to develop harmoniously, and to find a sense of identity in a world of existential pressures, irrational societal demands and environmental depletion.
In order to become more effective in a society of rapid, cross-cultural and technological growth, the learning process needs to be more connected to the life actually lived and to the stories told within families, ethnic groups, and traditions. Native cultures everywhere have been influenced by the changes brought about by the colonial, the industrialized western and consumerism-oriented worlds. There is a multitude of negative side-effects from this trend, amongst the most noteworthy the impoverishment of entire ethnic-environmental regions and the failure to teach traditional values to the young. This directly reflects upon the behavior and attitudes toward themselves and nature. This is also where support is needed in order to recover their roots and create a healthy sense of identity. Story making and storytelling can be essential to the individual and society’s balanced development and learning. These convictions I had clearly in mind as I embarked upon my thesis, though certain details emerged from my work as I proceeded in my research.
Introduction
“To have had stories of any sort in childhood puts a person into a basic recognition of, and familiarity with, the legitimate reality of [a] story per se. It is something given with life, with speech and communication[s], and not something later that comes with learning and literature. Coming early in life it is already a perspective on life. One integrates life as a story because one has stories in the back of the mind (unconscious) as containers for organizing events into meaningful experiences. The stories are [a] means of finding oneself in events that might not otherwise make psychological sense at all.”
(Hillman, 4:43)
This statement by author James Hillman in his “A Note on Story” from «Parabola» magazine expresses exactly the core of my studies and my work.
This thesis attempts to show that story-telling is not only a legitimate learning tool but that it also may be recognized as a healing tool, as well. Through tapping into one’s cultural origins and childhood stories, by finding inspirational stories as an adult, and by reconnecting with the Earth, one may find a way of self-healing and completeness otherwise lost.
This same process can be a means to inspire imagination and creativity. Hillman believes that while childhood is synonymous with wonder and creative spontaneity, adulthood tends to lose these qualities. An important step is to restore imagination as a priority in our conscious mind, regardless of age (Hillman, 43). Robin Moore, in his book «Awakening the Hidden Storyteller», comments that for many, this represents an unknown threshold, an unimagined adventure and an unexplored territory, the vastness of which is not measurable (Moore, 10). Contemporary adulthood is replete with pressures and responsibilities that leave no time for the child within to explore or play in a way that generates joy and creativity. Today’s lifestyle and consumerism, fueled by the media, arguably exerts great pressures, especially upon young “consumers”. Perhaps our use of time should be directed more toward sharing and creating stories with each other rather than earning money to buy stories on tapes or CD, movies, etc.
The purpose of this project is to present the art of story making and storytelling as a tool for a balanced development of the self, and to guide one through the experience of tapping into our inner storyteller, as it is presented in the first appendix of this work.
Moore also says that, “The first step in rethinking our place on the planet should be reconnecting with our inner landscape. Then we will better relate to the landscape of the planet” (Moore, 9). This belief is shared by most native tribes around the world. Perhaps our inner landscape requires a looser sense of play, a slower pace, deeper breathing, and more involvement, which would nurture our connection to our environment. By taking the time to observe and interact with our immediate surroundings and those in it, we open ourselves to the wisdom and the beauty that nature, local history, and stories can offer.
The Hopi people, with whom I have shared half of my life, believe that a strong connection to the land is the most important basis on which to build a balanced humanity. Their entire culture and religion revolves around the relationship between the inner and outer landscape. Traditionally, the elders would tell stories to their young where the characters suggest problems, issues and the roles played out in life. Other stories would propose familiar animals embodying symbols and behaviors that are admired. Hopi myths and stories teach about the circles of life and embody all metaphysical realms. Their stories reveal prophecies and warnings connecting the future to the past. I posit that the Hopis and other aboriginal cultures have, historically, been better at connecting the inner and outer landscapes because of their use of storytelling. I have seen the power and growth and healing that can come from sharing stories. I also see the potential value to the world, if we can revive and encourage storytelling in our institutions of learning. We need to be able to tap into our inner world and learn how to make contact with our inner storyteller, perhaps with the help of our ancestral memories. We need to be able to reconnect with our cultures and the Earth, in order to grow and live in balance.
Are we all potential storytellers? Are true storytellers only the elders and the medicine people of a culture? Is storytelling connected with myths, legends, and fairytales only, or does it also include stories told within families? Are we to search within for our stories to tell? How is this done? What about the stories told in novels, newspapers and movies, performances and television? Are they valid as a potential learning tool? What is the nature of storytelling? These questions will be addressed in the body of this thesis.
During childhood, in which our conscious mind is in development, myths, legends, tales and home stories are powerful teaching tools that enhance our sense of beauty and “connectedness”. The facts of lives, the “everydayness”, are also tools through which one may find completeness and meaning. Values and reflection activate a sense of identity and may help one find the path of fully becoming a storyteller for the generations to come.
In Chapter 1, I define the slight, yet significant differences that lay between stories and myths, legends and folk and fairy tales, giving some examples of each and how they work in storytelling. Chapter 2 explores the importance that “home stories” (a term coined by B. Barton in 1986, in his work «Tell Me Another») have in the growth process and the development of personal and cultural identities. Cheryl Neill, in her chapter about “Story-making and Storytelling” from the book «Using the Creative Arts in Therapy», points out that:
“Telling stories has been an expression of humankind’s wonder at the mysteries of existence, not just for centuries, but for millennia, for storytelling is as much a part of the human existence as walking and sleeping and as necessary to the psyche as food is to the body. The goal of all mythologies is to instruct the members of a given society on their role throughout life: to put people in accord with the nature of life, death and the universe” (136).
This statement definitely rings true in my own existence. As I explain in Chapter 3, I became a part of this kind of flow as a child growing up in a small traditional community in the Alps, Lengstein. There, I was raised with the blessing of storytelling, a practice carried out especially by the women of the village. In the Dolomite Mountains in Northern Italy, telling stories is part of life itself. Some were folktales woven with legendary and historic events of the deep past, and some were home stories passed down for generations.
There were also anecdotes of things that had happened to some members of the family and were worthy of recounting for the fun of all the others. I became an active part in all of the above, and in this chapter, I describe how it can work in one’s life.
In Chapter 4, I recount how later, as I was traditionally adopted into the Hopi tribal life by Joy and Perry Navasie, I was again put in touch with the way people nurture the art of storytelling within their culture as a prominent tool for balanced growth. The adoption involved a ceremony in which the matriarchs of the family had to take me in as a newborn baby. Hence, I was called to learn from them about life and culture. I was also called to partake in ceremonies connected to our family-life. In my Hopi initiation, stories were told all the time. I would listen to my mother Frog Woman (Joy) and my grandmother, Feather Woman, while helping them in their daily chores. They would tell me their stories, the Hopi prophecies and the migration stories.
In many native mythologies and stories, conceptual ideas are often presented through the eye and soul of animals. I develop this particular topic in Chapter 5. Animals may be real life companions aiding people physically and/or emotionally. They also may represent metaphors, totems and guardians in the metaphysical realms.
In Chapter 6, I explore women as storytellers, and women’s stories as a unique genre. Women’s recounting of stories and their research is the axis around which rotates the empirical and philosophical knowledge vital to this alternative type of learning and society. Mary Catherine Bateson, in her “Foreword” for the text «Learning from our Lives: Women, Research, and Autobiography in Education», states that, “Everydayness is a word frequently used to describe those aspects of life that are taken for granted, which have here become the context for creativity and new learning” (vii). “Learning from our lives” represents the core of my research, where I point out the power and efficacy of storytelling – with emphasis on autobiographic and biographic recounts – in the learning process of people. Learning, being a continuous process, encompasses all that needs to be shared for a balanced development of the self, and the preservation of cultures. Today, the various multicultural environments of the planet come, inevitably, into contact with each other. Hence, the learning from the stories and the actual experiences of people are crucial in order to expand knowledge and to learn more about other cultures. This way, we may deepen our understanding of diversity, elevate our spirituality, and ultimately, reach the consciousness of oneness and respect needed in our world. As I state in this chapter, I believe that at least some of this can be accomplished by reviving the art of storytelling.
In Chapter 7, I bring forth the importance of fire and the hearth and its relationship to storytelling. I will also discuss the role of media in entertaining and teaching our children.
In Chapters 8 and 9, I discuss the general methodologies applied to story making and I will relate some examples of how stories have affected my own life and the lives of my students.
Chapter 10 develops a more specific organic inquiry, which includes the holistic influence that storytelling has in regards to the arts and creativity. This represents a further focal point in my research, where I point out this existing connection and its positive outcome in the learning process of people.
Being aware of the importance that storytelling has in one’s existence, I intend to direct this information to scholars but also to a general audience.
Even though many people do not think of themselves as storytellers, I believe that this tool is available to all. I wish to introduce this method of communication, and this art form, to those who have had little exposure and are interested in learning about it. Maybe they’ll find here, a path to this magnificent gift of humanity.
PART ONE: STORYTELLING AND CHILDHOOD
Chapter 1
Myths, Legends, Sagas and Tales
“A hero ventures forth from the world of common day into a region of supernatural wonder: fabulous forces are there encountered and a decisive victory is won: the hero comes back from this mysterious adventure with the power to bestow boons on his fellow man.”
(Campbell, xvi)
Though the differences between myths, legends, sagas and tales seem to have little distinction, I was told, as a child, that traditional stories are called differently in respect of their content.
Myths are usually teaching stories about fictional heroes, gods or supernatural beings of a far past, through whom people are trying to explain a belief or practice. We may observe that the Greek, as well as the Christian tradition, put obedience as the main factor for punishment or reward. Pandora’s vase is a classic example of this concept. It is a myth parallel to the biblical story about the creation of man and his consequent fall. Pandora’s curiosity reminds us of Eve’s disobedience. In both stories, a woman is put in the role of creating the crisis leading to humanity’s punishment.
Beyond the stories of dramatic or fantastic deeds performed by gods and humans, myths can also embody an explanation for the mysteries of life and death, a natural phenomenon, and the origins of a people. The Hopi, for example, base their beliefs upon a mythic migration of their ancestors. After a long journey that took them across great expanses of water, land, and time, they reached the three mesas of their prophecies, where they still reside today. Jean Huston says that: “A myth is something that never happened but is going on all the time” (as cited in Moore, 10).
Legends are also stories handed down from the earliest times and are often of a tutorial nature, but they are, usually, popularly accepted as true because they are rooted in some historic event or involve actual figures of the past. An example is that of Roland, Charlemagne’s great knight. The tales of his devastating love for the Moorish princess Angelica and his heroism at Roncesvalles in the Pyrenees encompass the picture of a man and a semi-god at the same time (White, 90-109). In these kinds of tales, the historic personage becomes almost supernatural, transcending human deeds. Sir Lancelot and King Arthur are another famous duo embodying such qualities. They are both in love with the same woman, Queen Gwynhwyfar (Guinevére), but this fact does not completely disrupt their destiny to be allied defenders of Camelot, the ultimate goal of their shared sacrifice (Neill, 140).
The legends that flourished during the Middle-Ages in Europe’s northern countries are called sagas. In the Celtic and German traditions, disobedience helps the physical and spiritual growth of the characters. Sigurd the Volshung embodies such a hero. As White narrates, Sigurd, sided by an exceptional sword, Gram, and mounting an exceptional horse, Grani, sets out to avenge his father Sigmund, killed by Lyngvi, the Viking king. Then, he manages also to kill the dragon Fafnir, and to take the treasures from the monster’s cave. With this last feat, he frees the beautiful warrior-princess Brunhilda from Odin’s spell. The woman hero, touched by Sigurd’s courage, gives him the knowledge of medicine, the mastery of the arts and literacy, and her heart. They swear eternal love to each other. Queen Grimhilda, however, who wants Sigurd to marry her own daughter Gudrun, prepares a magic potion intended to make Sigurd forget his oath. With his death, Sigurd will find redemption for his betrayal and most high spiritual recognition among his people (142-172). The essential content in this story is shared by other cultures around the world. In fact, there is a universal aspect to storytelling, which encompasses the learning through the trials of life and the longing for enlightenment.
In the Iroquois legend of Hiawatha, the Mohawk hero, through an act of faith and courage, succeeds in redeeming himself and his enemy. In the transformation, the “Great Law of Peace” is secured, uniting the warring five nations. This tale teaches that confronting our own ugliness may helps us overcome it. The journey of Hiawatha also brings forth the possibility of more encounters with the unbeautiful “in ever new-forms demanding ever-new expressions of beauty. Lost beauty and brokenness are redeemed through the fire of suffering” (Johnson, 10-12).
Folk and fairy-tales (not vastly different from each other) are a traditional story handed down by the people of a certain country or region from one generation to the next and were mainly told to entertain and soothe the mind during winter-nights long ago (Neill, 141). I can recall this practice within my own mountain-family, as well as among the Hopi. Children sit down around the fireplace or stove to listen to the tales told by the elders. Many of them contain cultural beliefs and customs, with talking animals and magic figures. Others begin with the true-life stories of people and events but have been embellished or manipulated overtime with re-telling. Charles Perrault, the brothers Grimm, and Hans Christian Andersen collected many such folktales, making them into fairytales for children.
In my own culture, «Pinocchio», by story maker Carlo Collodi, is one of the most famous tales ever told. It is the story of a boy-puppet who achieves his true, human heart with the help of magic and his father’s love. Cinderella, told by C. Perrault, presents the story of a young girl who lived with her father in rural France around the beginning of the 16th century. When her father dies, “the cinder girl” (she used to read around the fireplace), suffers unjust treatment in her own home. It is a great story of grace and deliverance, in which the heroine endures pain through faith and, ultimately, finds true love – a happy ending – also common to nearly all folk and fairy tales.
African-American folktales, on the other hand, make a unique, vivid statement about African cultures, brought across the ocean by its peoples since the very first slave-trades, and continued to exist as a reminder of roots throughout the times of slavery. These stories embody a great collection of tales about young heroes and heroines, animal fables, and trickster stories with Anansi as one of the main characters. It was mainly an oral tradition, often expressed through music and songs. Dr. Rex M. Ellis in his introduction to «African American Folktales» points out:
“It was used to interpret the universe; to resolve natural and physical phenomena; to teach morals; to maintain cultural values; to pass on methods of survival; and to praise God. Stories have been used to celebrate freedom as well as to condemn black enslavement” (8).
John Bul Dau (an American citizen today, and director of the John Dau Sudan Foundation, dedicated to providing medical and educational services in native Sudan) has heard many stories in his childhood, and many more he’s telling the world. In fact, in his autobiographic work «God Grew Tired of Us», a bestseller, and in the award-winning 2006 Sundance Film Festival documentary, he shines in the shocking and yet inspiring journey to freedom and deliverance, as one of the “found by God Lost Boys” of Sudan (7).
Born and raised according to his traditional Dinka culture, in which informal education is given by the adults through storytelling and riddles at home, the children sharing them later, under a tree, while watching their flocks, he found himself, at age thirteen, right in the midst of the civil war that for more than two decades afflicted his beloved country, becoming one night abruptly separated from his tight-knit family.
In his trial to flee the djellabas (Arab militia), famine and thirst, torture and death, predators and ambushes along the way, John Bul Dau kept his faith high and his stories active, even in the most desperate moments.
In the refugee-camps where he eventually arrived, along with thousands of other children and youngsters trying to escape the horrors of the attacks to their villages, he ended up helping those unfortunate of his group who suffered, to his own judgment, more than he did, also through reminding them of their Dinka heritage and telling them their traditional stories.
Myths, sagas, legends and folk-tales represent a rich body of stories to help people learn lessons and ultimately find identity within their own culture. Yet, as Neill points out, home stories provide the individual with essential references for personal identity.
Chapter 2
Home Stories
“Home stories form a substantial body of largely unconscious material that provides the framework for what we may recognize as personal identity.”
(Neill, 142)
Some stories are told by others (teaching stories) and some are “ours” (home stories). Some stories are “carried in the myths, legends and folktales of a given society” and others are “familial” (Neill, 142). Home stories are a regular part of daily life, most noticeable during holidays and family gatherings. Those told by parents and relatives embody the unconscious material of our world-view. These messages start to reach us early in our childhood and, along with ideas of self-worth, creed and cultural belonging, they form our body of knowledge and beliefs. Many significant home stories stem from our recognition of crises as life changes, enabling us to learn how to cope with and resolve problems (Neill, 143). Hence, we are pushed by the events to adjust to this new picture as a part of our lives. Here we may find the strength to evolve and mature in a creative and positive direction and, thus, add to our family stories for future generations.
It brings to mind when, as a child, I found myself deprived of both my natural parents’ precious presence. I turned the events into a constructive, independent, spiritual evolution. I recognize today that a great help in those difficult times, undeniably, came from the teachings and the wonderful stories told by the mountain people who fostered me. I had the chance to make those stories mine and to invest myself with the values of their culture and healthy lifestyle. The mountains were teachers of endurance and courage. There was no question that we were a part of the mountains and its environment. From the smallest to the eldest, we were naturally expected to actively take part in the life cycle. We gathered and cultivated according to the seasons. We provided our animals with fodder and shelter, and they supported us with their work and lives. I learned that all is equally important for the survival and well being of the whole community and its surroundings; the elements, plants, humans, and animals, we all share this world. From the stories told around the fire, alimented with the pinecones and wood we had carried all summer in baskets strapped to our shoulders, I learned of the beautiful and the arcane, of magic, of the power of nature, and the power of love. Our elders knew well that storytelling is important to everyday life; that things and beings take up a special meaning because we encounter them in our stories. These lessons have stayed with me ever since.
Later, as I was introduced to the traditional way of life of the
Native American tribes, I found similar values and practices there, and parallel stories were told around their fires. The industrialized, materialistic, wasteful, modern lifestyle, though, is changing all this. In modern times, many people are pressured by ideals and a life made up of misinformation and stereotyped credos – mostly spread by the media, in order to keep people ignorant, consuming advertised products, and to influence their intellectual capacity to criticize. A true picture can be confusing to those “struggling to find their own identity and role in society” (Neill, 143); this as an individual, and as a group.
Today, Native American children, grow up in two societies, and they are constantly trying to adjust between what is proposed to them by the western world and their own culture and lore. This is happening anywhere in the world where aboriginal people and their culture have been co-opted to accept a new course and its values. It also happened in my personal experience. I was called to live and understand both, my upbringing in the self-contained little village in the Dolomites, and my experience in a modern city, once in the school and work worlds. Hence, I naturally developed a sympathetic understanding for all indigenous peoples struggling to keep their identity, while coping with a different, overbearing culture. Only by holding on to my native heritage and home stories and my constant connection to nature, could I manage it. In a life lived between contrasting worlds, people are called to adjust, while trying to practice the ways of their own culture. Ultimately, it is a hard, yet rich experience. As my Hopi father, Perry Navasie, once told me: “Our chance is to choose the best in both (worlds).”
Since home stories have such an importance in the shaping of our personality and credos, it is very important for me to mention some stories and history of my own homeland, to better demonstrate how home stories can work in someone’s life choices.
Chapter 3
Stories of my Homeland
“Long before the birth of formal religions, story telling was the vehicle for sustaining age-old wisdom. Within the stories, legend, history, and profound truths about life found their expression. Stories introduced their listeners to a world of magic and mystery, to the possibility of otherness.”
(Feldman and Kornfield, 1)
According to an Italian historian specialized in South Tyrol’s history («L’Alto Adige nella Storia», 1989), the valleys of the Dolomite Mountains were settled by proto-italic nomadic tribes, namely the Liguro-Iberici and Veneti by 1,000 BC. The Etruscans, a people whose idiom and origins are still wrapped in mystery, also came into the Dolomite valleys. They are believed to have migrated from Asia Minor and to have come to Italy by sea, eventually spreading their domain and culture all over Tuscany and the Padana Valley (Ferrandi, 22-23).
It is at this point that history and legend seem to meld. In «Roman Mythology» (1974), we find that, according to an ancient myth, the origins of Rome are connected to a broken taboo. A priestess of Vesta bore twins to the war-god Mars, though she was supposed to serve as a virgin. To punish her disobedience, she was ordered to throw the infants into the river Tiberinus. She put them into a basket instead, which floated into the reeds. There, Romulus and Remus, the ancestors of the Roman people, were first suckled by a wolf and then found by a sheepherder (Croft, 21).
Romans and Etruscans, eventually, became the predominant Italic tribes. According to Ferrandi, about 400 BC, the Etruscans inhabiting the Po area were pushed in different directions by the invading Gauls, a Celtic tribe from across the Alps. The story of Rome is forever tied to the sacred geese of the Capitolinum Hill. By loudly squawking, and waking the residents, they saved the city from being sacked. Meanwhile, some of the Etruscans led by Reto, had entered the mountains and had settled in the Dolomites area. That portion of the Alps was therefore named after him, the Retic Alps. Later, around 200 BC, the fusion of the Retic tribes with the incoming Romans, gave birth to the Reto-Ladin native people of that area (Ferrandi, 22-23).
With Augustus Caesar’s stepson, General Drusus, leading a successful military campaign against the Retic tribes, the spread of the Roman civilization and religions among the people of the Dolomite valleys increased. New roads and busy centers of commerce were born, like Pons Drusi and Bauzanum. The mountain people found outlets for their products and a trade route with Europe’s northern and southern cultures, though they kept their culture basically unchanged. Even the invasions of the Huns, of the Gothic tribes and the Longobards, during the Middle-Ages, did not alter the spirit and strong ties the native communities of the Dolomites always had with their beloved land and lore (Wolff, 7-8). This varied history certainly created a wondrous blend of stories and legends.
The folktales and legends of the Dolomites are a product of the foretold events, where prehistoric myths are “seasoned” with Reto-Ladin tales and “spiced up” with medieval sagas. They survived time through singing minstrels traveling from village to court and some were collected into what is called “Ladinian poetry”. These stories may have human and animal characters, fantastic beings, symbolic landscapes in a familiar context with which one could identify and even try to embody (Wolff, 9).
My love for being a listener of tales and a storyteller came to me early in my life. A book my elementary teacher was reading to us while completing arts and crafts projects is called «The Pale Mountains: Legends of the Dolomites», by Carl Felix Wolff. One of my most beloved authors, Wolff collected many such folktales and legends in his books. His work is extremely important in the preservation of the cultural treasures of the Reto-Ladin people. He picked up fragments of the distinct “cycles” (as are commonly called the stages of development of the Ladinian poetry), at the verge of their extinction. With patient field-research and reconstruction of the stories, told by the old folks and peasants of the mountains, he managed to preserve a great deal.
Every summer, I was sent high up on those very mountains, where a family of Reto-Ladin ancestry fostered me through the rough times of being parentless. During the 50’s, my biological father had been sent to work for long periods of time in South America. He was a specialist in the newly built dams on big rivers in the Amazon region. Meanwhile, my biological mother was a guest of a private neurological clinic near Verona. She was trying to cope with the devastation that the bombing during World War II had done to her psyche. My sister and I were with the Catholic nuns during the winter and with the family of mountain peasants during the summer. This fact saved me from experiencing the feeling of abandonment that is usually connected to this sort of situation. The stories told by the mountain people served to build a familiar landscape where I could move about with ease and confidence. The Pale Mountains, the Dolomites, became my backyard and its folktales my domain. As I describe in Chapter 4 of my autobiography «Walks Far Woman» as an example of a typical Dolomite folktale that had a clear impact on my behavior:
“With only my rucksack and the company of the occasional deer or squirrel crossing my path, I’d hike many hours uphill towards Renon Horn in search of mushrooms. It is the kind of feeling one raised in the mountains comes to develop, just like Reinhold Messner puts it, ‘The freedom to go anywhere I wish’. My own imagination would give life to the local stories of noble ladies, knights back from the Crusades, fairies and witches, dwarfs and nymphs, and of dragons. Right in Lengstein we had our own stories of fair ladies and witches and also a mystery-castle site that was never found.
On some winter evenings around the fireplace, such stories would become a great movie to watch in our minds. We would listen to Tata (Daddy) Franz telling us about it, he himself having been the actor of one of the adventures. He told us about a manor at the top of “Hexen Boden” (the plain of the witches). Even the parish priest of the village knew of the tales, having also old scrolls and a book on the subject.
Once upon a time, it is said, there was a castle on that hill north of the village with a noble couple living in it. The lord of that place had to leave for distant shores, making a pact with the underworld to be able to return safe to his woman and country. But he lost everything in the bargain; castle, goods and his lady. The only thing he kept was his life. On some nights, people can actually hear the woman’s cry and see a lantern move about the trees up there, held by no one.
Tata Franz himself, while cutting wood with two other men, stumbled right into what appeared to be an old staircase of stone going into the bowels of the earth. It looked as if it would be the entrance to the dungeons of a crumbled down building. The lumberjacks, having no proper digging tools with them, memorized the place and ran down to the village to get some. But once they were back on the wooded top, they were unable to find the spot again.
It was told that once upon a time, a peasant boy had actually tried to clear the steps of dirt and debris. He reached a secret underground chamber, where a dragon not bigger than a python was guarding the lord’s treasure. It was shooting flames from its mouth.
Next to it there was a lady in fine garments, warning the peasant boy to grab a big stick and get rid of the serpent. That way the spell would be broken, the woman’s soul would be freed from earthly bondage, and the treasure would be his. But the peasant boy got scared, fearing some kind of devilish doings, so he left the site running as fast as he could to tell the story to all the villagers. Later on a party of several armed men went up there determined to complete the boy’s unfinished job. But no matter how much they searched they couldn’t find the entrance to the secret chamber. It had mysteriously vanished.” (Premi, 37-38)
Such typical alpine folktales and legends, as Wolff reminds us, originated at the time of the Crusades, where pagan and Christian motives mingled in a story passed down through the generations (7-8). New twists and turns were added by personal experiences of the native villagers that had to deal with that particular site, on and off throughout history. As a child, I became a character of that tale. As I wrote in the same chapter:
“…Because the adults were secretive about the whole matter, it made our imaginations run totally wild. Soon, I was up that mountain myself treasure hunting for hours, days, and months, leaving nothing unturned. The reptile was the least of my concerns. I was sure I would be able to knock the thing off his stand once I was face to face with it.
One lucky day I bumped into what seemed to be three huge, flat slabs of dark rock facing down into the soil. They were covered with moss and fallen leaves. That day I was picking mushrooms, so I had left my shovel in its hidden location at the edge of the timber. As with my predecessors I couldn’t find the place again once I was back there with the necessary tools.” (Premi, 38)
This part has become the continuation of the tale, told by the villagers to their children and grandchildren. In that village, people have woven my life into their legends over the years, not only for the adopted, “gutsy” (as they say), little girl I embodied during my upbringing there, but also for the tales the mountain peasants heard about me crossing the “Big Waters” to go live with the native people of a far country, and riding a horse for months on my path through it. It is an awesome feeling when I return to Lengstein and visit my foster family. It never fails, as we are all gathered around the huge wooden table with at least three generations of people who have come to celebrate the event. Pretty soon the older ones are reminding the younger ones of my deeds. Some of the funny stories make everyone laugh heartily until they have tears, and some that make the children’s eyes bulge with admiration and wonder. This is an example of how some home stories are born and how they can give strength and a sense of place, of belonging, to those who play a part.
Probably, the most poetic character in my childhood stories is that of ethereal “Soreghina” (meaning “Ray of Sun”, in Ladin) (Wolff, 9). It is a prehistoric tale of the daughter of the Sun, who could not be caught awake by the passing of Midnight, on pain of death. Another well-known personage is that of the Dwarf-King Laurin, whose palace was the gorgeous Vajolòn Mountain. This is a massif that becomes radiant pink at sunset, and the fantasy of the natives envisioned it with a great enchanted garden of roses surrounding it. This legend has post-Roman historic personages involved, as well, like the gothic king Theodoricus. He is called upon to help a neighboring king rescue his daughter Similda, kidnapped by the dwarf-king who wanted her for his bride (Wolff, 29-35). These types of characters appear in several different cultures, especially in the northern stories. It is likely that some of those tales and legends were brought to the Dolomites by traveling minstrels and wandering knights.
The name “Lis montes pàljes” (The Pale Mountains) itself is the outcome of a legend. It is said that the Dolomites were dark and sinister-looking before a prince, who had married the daughter of the king of the Moon, had the dwarfs weave its rays around each peak of the mountains, so his homesick bride could live on Earth (Wolff, 13-27). My very favorite one is “Lo fontèna del omblia” (The Spring of Oblivion) because it depicts the struggle of a pure soul caught between the evil pettiness of the world and her longing for true love and spiritual freedom. It is the journey of a woman-hero, who finally finds her fulfillment and meaning only through transcending the odds with the help of natural and magical forces (Wolff, 223-244).
There are several legends placed on those mountains that are depicting a woman as the hero of the story; some are human characters and some are supernatural beings. In any case it is interesting to note that women were empowered in those times, when the legends were forged. The legend of Vinella and the spring of oblivion were placed in the Fassa Valley and on its surrounding mountains. Once the flocks of sheep with its guardians would leave the high pastures, the witches would come down from the peaks and dance on nights of full moon on the Ciampedie Plateau. Arcane things were said to happen up there while they danced (Wolff, 223-224). This is a folktale with lots of significance and symbolism in it. As most folktales, it was intended to teach or instruct people. The message here was that only through meditation, purification, and self-determination, one may reach the peaks of sanctification and happiness.
As a child who could identify with these tales and the natural, magical environment from which they stemmed, I learned admiration, love and respect for all the forms and beings in it. I also learned our common belonging to the same cycle of life, the delicate balance all living things share and depend upon, the value of the elements, and the source from which our food and clothing came. The important dialogue established between me as a child and that familiar environment created a happy, balanced growth, my current behavior patterns, and my inner storyteller.
Lengstein and my childhood in the Dolomites taught me a story, through “natural storytelling” (as I call it). It empowered me to be anything I wished, to go anywhere I wanted, and showed me that there is no poverty in a self-sustainable environment.
Contatore visite dal 22-05-2012: 3349. |
|
|