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Mater dolorosa (Diari di Madre Terra)
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donna Francesca Giovanna Premi - Mater dolorosa (Diari di Madre Terra)
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
15x21 - pp. 186 - Euro 13,50
ISBN 978-88-6037-8286
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In copertina: Lago di Garda a Malcesine – fotografia di Arno Thelen
Un libro che raccoglie le più vivide informazioni sui fenomeni di crisi del nostro pianeta. Un quadro d’insieme spaziante tra mutamenti ambientali e drammi politici di preziosa sintesi, capace di un fortissimo avvertimento e di una domanda che ci tocchi da vicino:
“Chi siamo?… Ed è possibile che ci colpisca tanto male?”
Umberto Belluco
Nota dell’autore
Lengstein, altipiano del Renon (Dolomiti), 1956
Mia sorellina Gianna ed io, sul prato dietro casa con in tasca le caramelle di rabarbaro e in braccio i due gattini nati da un mese alla gatta da topi della “mutti” Maria – la vita davanti e tante incognite da scoprire – corriamo felici della realtà, del nostro mondo di allora.
Molto tempo è passato e tante cose accadute…
Navene, Lago di Garda, 2007
Umberto ed io, sul prato dietro casa con in tasca il telefonino e in braccio i due cuccioli di Volpino italiano di recente acquistati ai grandi magazzini di Verona – una vita d’avventure vissute – passeggiamo soddisfatti delle nostre sconfitte e vittorie.
Il mondo è cambiato, e non per il meglio… La nostra cara madre Terra sta attraversando il più critico dei momenti per mano dei suoi figli. È una madre Addolorata.
Figlia di due realtà diverse, quella di allora e quella d’oggigiorno, sto cercando una risposta. Nella realtà di ieri c’era spazio per sentirsi ancora abbracciati dal mistero e dal miracolo del creato, quella d’oggi è una realtà in cui l’individuo deve trovare la forza e la saggezza di proteggere gli spazi naturali e ritrovare la magia di sé attraverso una nuova coscienza rispetto al pianeta, ai suoi ambienti e risorse.
Essendo sempre stata a stretto contatto con la natura, sin dai primi passi nelle braccia di madre Terra, e avendo udito il suo lamento, qui mi accingo a riportare fedelmente ciò che ho imparato dal suo stesso respiro, da sorelle e fratelli che come me hanno recepito il messaggio e stanno cercando di farlo presente al resto dei figli accecati e imprigionati dalla propria ignoranza, cupidigia e ubbìe.
Allo scopo quest’opera pone in evidenza fatti particolarmente eclatanti per ognuno dei continenti e ambienti naturali, un paio per capitolo, suggerendo possibili soluzioni cui coscientemente e inevitabilmente siamo chiamati tutti per recuperare il salvabile e assicurare un futuro alle prossime generazioni.
Prefazione
Avendo io visto nascere questo libro, l’autrice è mia moglie, ben posso dire con quanta passione ella veniva a conoscere ora di questo ora di quell’animale minacciato nell’esistenza sua di specie, e con quanta partecipazione ne sentiva fin l’angoscioso stato di paura e l’allarme di chi è braccato: la donna è madre in questi ancestrali termini protettivi che si curano dei figli e in fondo di preservare ciò che di questa Terra è bello…
Una passione, dicevo, di propagare al mondo il pericolo di perdere tutto ciò che di prezioso abbiamo su questo pianeta, che non ha solo dello straordinario, ma possiede un vigore e una freschezza di volontà che a noi maschi è obiettivamente estranea.
Riflettendo, non sono quelle ambientaliste campagne che possano attendere cuori non altrettanto generosi di quelli muliebri, né l’urgenza è meno che tale che non competa a ognuno di noi di gettare quella goccia d’amore nel mare delle tante, tantissime cose da fare, quotidianamente, momento dopo momento.
Ecco perché il lavoro di Francesca Premi vuol essere probabilmente ancora eminentemente informativo, drammaticamente informativo e così estremamente importante riconoscendo (e sta qui la grande sua intuizione), quasi a riconoscere il proprio stesso entusiasmo, quale forza, quale potere è più che altrove sempre in ognuno di noi che vede!
Non tanto nei governi, nella politica, nei simposi, ma nell’urgenza, si diceva, che tutti riconoscano, scelgano davvero una nuova via nei comportamenti…
Solo dal basso può rinascere un giardino comune, contro gl’interessi di chi magari gioca, e bara, su due tavoli.
Gli animali sono l’ambiente e l’ambiente è gli animali. Per questo una tigre, un gorilla, un pesce, è basilare salvare. Perché salvare loro significa guadagnare la residua speranza d’invertire la rotta del tracollo del nostro pianeta che condurrà presto l’uomo alla fine.
L’opera di Francesca Premi è davvero pregevole per lo sguardo d’insieme e la messe d’informazioni che la sua strenua ricerca mette a disposizione dell’uomo comune, il “grande uomo comune”: colui il quale crede di sapere e non sa niente; colui il quale non s’indigna e non fa niente.
C’è invece una miriade di piccoli atti da compiere sempre: da un fazzoletto di carta da conservare più a lungo, a una raccolta differenziata di rifiuti, dall’andare a piedi o in bicicletta, all’apposizione del proprio voto a chi è ambientalista, dall’insegnare ai propri figli il valore di ogni cosa, all’organizzazione di gruppi che scelgano la conservazione e la pulizia delle risorse ambientali come sano e fecondo stile di vita politico (una politica attiva).
E un ringraziamento speciale va da parte mia all’editore, che consente l’esigenza di diffondere quanto più è possibile una lettura che in un solo momento tanto mette a beneficio di un pubblico nostrano e di uno internazionale. Una lettura che l’autrice rende oltremodo piacevole privilegiando quel mondo animale che è sempre nel cuore fantastico di ognuno di noi fin da bambino.
Uno scherzo trasferire la passione per le altre facce di noi (gli animali) per questa donna cresciutavi insieme, che il destino vuole fortunata per la conoscenza e la sensibilità al creato.
Informazione è ancora la parola chiave sembra suggerirci questa raccolta di notizie e di dati, e che la scrittrice ci offre così facili alla consultazione e accattivanti alla lettura.
Per noi uomini occidentali, che non stiamo facendo niente e pur non siamo oppressi da indifferibili problemi economici. Per gli uomini del “terzo mondo”, che sono di più e ricoprono un peso di gran lunga maggiore nel decretare la fine o meno del nostro futuro di specie, ma non hanno le nostre colpe storiche…
Ma che dietro un disperato, invero, impegno educativo, non potranno chiamarsi fuori a lungo, perché non ce ne sarà, ahimè, il tempo.
Grazie, Francesca, per avermici fatto, almeno, pensare.
Umberto Belluco
INTRODUZIONE
“Non si tratta della salute degli animali selvatici, o della salute dell’uomo o della salute del bestiame. C’è veramente solo una salute – il benessere e l’equilibrio degli ecosistemi di tutto il pianeta”.
(dr. William B. Karesh,
direttore del programma veterinario di Wildlife Conservation Society)
Koyaanisquatsi… Con questo termine gli Hopi, una fra le più antiche culture del continente nordamericano, descrivono l’immagine dell’era moderna, intesa allo sviluppo tecnologico e allo sfruttamento incondizionato delle risorse del nostro pianeta, a dispendio di un sottile e magnifico equilibrio che sostiene e muove il cosmo tutto. Tradotto, questo termine significa “un mondo fuori equilibrio”, e nelle loro profezie gli Hopi ampiamente accennano alle conseguenze disastrose verificatesi in passato, e che si verificheranno nel futuro, come risposta al maltrattamento dell’ambiente.
Lo studioso metafisico Gordon-Michael Scallion scrive nel suo “Notes from the Cosmos: A Futurist’s Insights Into the World of Dream Prophecy and Intuition”:
“La storia della Terra e dei suoi cicli naturali ci informano che essa è stata popolata da esseri intelligenti sin da quindici milioni di anni fa. Che ne è stato della ‘Creazione dell’uomo’ e del ‘Giardino dell’Eden’, datati molto più recentemente? Parrebbe che, a un certo punto, la storia documentata abbia come un vuoto enorme di civiltà perdute. D’altra parte il collasso di grandi civiltà pur conosciute è successo come conseguenza dell’interazione dell’umanità con la cosiddetta ‘Coscienza della Terra’.
Il concetto che noi si sia in controllo del nostro destino, a livello individuale e collettivo, non è nuovo; per meglio dire, la coscienza collettiva umana è interconnessa con quella della Terra e con tutti i suoi ‘reami’ di coscienza. La Terra, se la consideriamo nel contesto del modello Gaia*, è un organismo di per sé stesso, e come tale cerca di esistere in uno stato continuo di salute ed equilibrio. Nel nostro rapporto non funzionale e ‘abusivo’ dell’entità Terra possiamo intervenire in modo correttivo, aiutandola a guarire tramite un mutamento nella nostra coscienza collettiva. I cambiamenti che noi, forme vitali sulla sua superficie, vediamo come forieri di disastri al nostro sopravvivere, sono in realtà aggiustamenti della Terra in via di recupero; proprio come colpi di tosse, starnuti e febbri sono segni palesi del processo fisico di guarigione dai mali e dagli stress e un chiaro ristabilimento del proprio equilibrio. Per mantenere il più possibile un ambiente stabile, l’uomo deve riconoscere che ciò che attua e ‘pensa’ influisce sulla salute del pianeta e si traduce direttamente in fenomeni sismici, climatici e sulla fertilità stessa della terra. Esistono sì influenze esterne che pure hanno effetto sul pianeta, come allineamenti planetari e attività elettromagnetiche universali, ma ciò non toglie che noi siamo in una posizione di grande effetto e responsabilità rispetto al nostro ambiente.”
Secondo gli Hopi questo sarebbe il Quarto Mondo, dopo che i precedenti sono stati distrutti in ere antidiluviane. L’ultima catastrofe è stata riportata nelle Sacre Scritture e nei miti di tutto il pianeta. Il quarto mondo si sta consumando, stavolta però non distrutto dall’acqua come il precedente, ma dal “fuoco”, inteso come un’autocombustione del globo, una totale aridità causata dalle alte temperature raggiunte nel suo evolversi.
Il primo impero storico, fondato circa 4.300 anni fa nella regione fra i fiumi Tigri ed Eufrate e avente quale centro Akkad, al culmine del suo splendore crollò nel giro di pochi anni. Gli scienziati sono riusciti a decifrare, studiando i dati tratti dai fondali di laghi e dell’oceano, che durante quel periodo le precipitazioni erano drammaticamente diminuite, causando un periodo di devastante siccità. Lo stesso destino ebbe l’Antico Regno egizio, che cadde intorno allo stesso periodo.
La civiltà di Tiwanacu, sul lago andino di Titicaca, fiorì per circa un millennio prima del suo abbandono avvenuto nel 1.100 a. C. Similarmente, la civiltà maya crollò intorno all’800 a. C., pure all’apice del suo sviluppo. Nel Sudovest americano, conosciuto per l’aridità periodica, tale fattore climatico a suo tempo ha certamente contribuito alla dispersione delle popolazioni locali, fra cui gli Anazasi, intorno alla metà del tredicesimo secolo. L’estrema siccità (cambiamenti al naturale evolversi di situazioni climatiche causati da fattori imprecisati), è da ritenersi il motivo principale di tali accadimenti.
Il nostro futuro non è roseo, e gli studiosi concordano: il bacino del Mediterraneo si inaridirà (nell’isola di Cipro si sta già trasportando l’acqua dalla Grecia), il Sudovest americano, il Messico, l’Africa e l’Australia meridionali stanno già mostrando i segni inconfondibili di una prolungata arsura, mentre il Canada e le regioni settentrionali dell’Europa sono destinate a un’insistente maggiore umidità. Secondo il Pannello Internazionale sui Cambiamenti Climatici (IPCC) riportato dalle Nazioni Unite, “le precipitazioni copiose sono destinate a divenire più frequenti, e così i periodi di siccità estrema”.
Come a confermare questi pronostici, le ciminiere e gli scappamenti stanno non solo riducendo l’aria che respiriamo a un invisibile veleno, che si va sostituendo all’ossigeno necessario alla vita, ma, innescando il cosiddetto “effetto serra” a livelli inconsiderati, intrappolano troppo calore generato dai raggi solari assorbiti dal suolo, influenzando drasticamente il fattore climatico e meteorologico. Le precipitazioni non sono risparmiate d’acidi e inquinamenti, le riserve d’acqua cominciano a scarseggiare, mutamenti negativi si registrano fino ad alta quota e i mari non forniscono più un mondo sano per le proprie svariate forme.
La causa prima di questa cruda realtà è il sovrappopolamento della Terra, con molte esigenze umane da soddisfare; sovrappopolamento per di più squilibrato nella sua dislocazione geografica rispetto alla possibilità di corrispondere ai bisogni. La povertà e la fame si registrano soprattutto ove le masse sono enormi, il così chiamato “terzo mondo”, che si dibatte in problemi politici ed economici, salutari e di distribuzione, mentre l’abbondanza contraddistingue paesi meno popolati.
Nei prossimi decenni, problemi d’ordine politico emergeranno come effetto dei cambiamenti climatici, esacerbando tensioni già in atto a livello internazionale, e causando migrazioni forzate di popolazioni disadattate.
Nel Darfur, ove i conflitti hanno già causato la morte di 300.000 persone, il mutamento nella regolarità delle precipitazioni, e il conseguente impoverimento del suolo, è alla base dell’aspro confronto fra pastori e agricoltori.
Il suolo, i fiumi e l’oceano sono divenuti intanto la pattumiera del genere umano e del sovraccarico dei suoi rifiuti – molti dei quali tossici – prodotti col consumismo. Le risorse del suolo e del sottosuolo sono di capitale importanza nei rapporti fra i popoli, alla mercé di coloro che traggono profitto dallo sfruttamento di quelle. Il taglio “a raso” delle foreste, l’estrazione incontrollata delle materie prime, di combustibili fossili e sostanze dalle scorie radioattive, rappresentano fattori che stanno incanalando l’umanità nel tunnel dell’autodistruzione.
Il tempo è maturo ormai per tirare le somme di sessantamila anni di preistoria e seimila di storia umana in cui l’unico vettore sembra essere stato animato da sete di dominio, avidità (l’irresistibile, inverecondo desiderio di predazione dei beni altrui) e violenza. In un mondo costruito sulle glorie e rovine di civiltà, alcune d’esse millenarie, l’uomo ha dimostrato che il suo fine non è stato l’aspirazione di conoscenza spirituale e il desiderio d’una pacifica convivenza col prossimo e le altre forme vitali. L’impiego dei suoi progressi tecnologici e culturali s’è sviluppato con lo scopo preciso di profitti materiali. Invece di condividere l’uomo ha conquistato e tolto. Il più crudele e freddo predatore del regno animale, l’uomo non uccide solo per ragioni di territorio e difesa, o per procurare il pasto per sé e la sua prole.
Caino, secondo la Bibbia uno dei primissimi personaggi a camminare il pianeta dopo la cacciata dall’Eden, era un figlio d’Adamo. Dal suo esempio assassino ne è nato un “modus vivendi”, aggressivo, alimentato da gelosia e cupidigia. Questo tipo di violenza trova riscontro ancora nella nostra era, con l’olocausto e gli stermini attuati da despoti razzisti e criminali per guerre d’un impatto prima mai conosciuto, col genocidio delle popolazioni indigene e lo svuotamento d’interi ecosistemi.
Sulla scia di tali aberrazioni l’umanità è approdata a mettere seriamente a rischio l’ambiente in cui vive e, di conseguenza, anche la propria stessa esistenza.
Il concetto che la Terra sia un complesso organismo è presente, in vari modi, in molte culture di diversi periodi storici. James Lovelock, autore di numerosa letteratura in proposito, coniò il termine “Gaia” dalla dea greca impersonante la Terra. La sua ipotesi è che la Terra sia un singolo, enorme organismo vivente che si regola e cambia in rapporto a quello che le succede.
Mater dolorosa (Diari di Madre Terra)
In memoriam
Alle mie dolci cavalle matriarche:
l’araba “Sahara Halima”
e la mustang “Grano Selvatico”
… senza di voi i pascoli tacciono ora
di un silenzio senza tempo…
Capitolo 1 (Polo Nord e Polo Sud)
Il grande disgelo
“Con la perdita della bio-diversità per cause imputabili all’uomo e la disgregazione dei fattori climatici, dobbiamo avere chiara visione e comprensione che per misurare la gravità d’una minaccia non è così importante l’intenzionalità quanto l’ammontare delle perdite. È antica abitudine perseguire coloro che consideriamo malvagi perché ne percepiamo l’intenzione di nuocere. È più arduo, ma più efficace, ‘seguire’, cioè educare e rendere partecipe un numero più vasto di persone che non è cattivo ma solo ignorante, e può causare, col tempo, molto più danno del singolo”.
(Ed Ayres, editore di Worldwatch magazine, novembre/dicembre 2001)
Le ere glaciali e la loro riconversione a climi più miti, sono processi che danno modo alla natura e all’uomo di prepararsi e di adattarsi. Non si può dire altrettanto di quel che sta succedendo al nostro pianeta, ai suoi ambienti, quale risultanza del precipitare di secoli di attività umana.
I disastri naturali hanno sempre fatto parte della vita della Terra, e perciò della nostra, ma “…se questi colpiscono così duramente” (con la magnitudine sperimentata in varie occasioni negli ultimi decenni) “e così velocemente – e l’emergenza diventa un fatto quotidiano – qualcosa è sicuramente andato storto. Quel qualcosa si chiama GLOBAL WARMING.”
Con queste parole il giornalista Jeffrey Kluger introduce un suo articolo per “Time magazine” dell’aprile del 2006, e mi trova d’accordo.
“Gaia”, come l’ambientalista James Lovelock chiama nostra madre Terra paragonandola a un organismo vivente con tutte le sue funzioni e reazioni, è malata e ha la febbre alta. Enormi sbalzi di temperatura, rovinose alluvioni, uragani di forza inusitata e disgeli di grandi masse ghiacciate – tutto ciò era stato predetto dagli scienziati ed ecologisti da molti decenni – e… i governi mondiali hanno fatto gli “orecchi da mercante”.
Lo scioglimento della calotta in Groenlandia, estesa come il Golfo del Messico, al ritmo odierno non è più il normale disgelo primaverile che confluisce nei mari, ma piuttosto il buttarvi dentro interi ghiacciai, tutti in una volta.
Dopo una decade di studi, s’è osservato che le falde hanno raddoppiato il ritmo del loro scivolare annuale per un totale di 54 miglia cubiche (86.886 m3), sensibilmente più di quelle che gli scienziati s’aspettavano. Il flusso si spande sul terreno o s’incanala per rivi veloci verso l’oceano.
Flotte d’iceberg galleggiano al largo delle coste meridionali dell’isola. Molti hanno iniziato il loro viaggio provenendo, lungo un profondo fiordo, dalle falde del più grande ghiacciaio della Groenlandia, Jakobshavn Isbrae, largo 4 miglia (6.5 km), che sta mollando alla velocità di 120 piedi (36.5 m) giornalieri e scaricando annualmente 11 miglia cubiche (17.699 m3) di ghiaccio in mare. Altri provengono da ghiacciai più a sud, che stanno accelerando il ritmo di scioglimento anche più drammaticamente di Jakobshavn. Le “lingue” galleggianti di questi si stanno sciogliendo anche per l’azione del rialzo della temperatura delle acque oceaniche, e dal 2000 si sono ritirate di circa 4 miglia (6.5 km).
La Groenlandia nella sua parte più meridionale è all’altezza delle non ghiacciate città di Stoccolma e Anchorage. Il suo equilibrio era consentito dal fatto che, essendo essa un enorme relitto dell’ultima era glaciale, poteva godere di un clima proprio, preservata contro la luce e il calore dei raggi solari dal riflesso sulle sue lande bianche, nonché dall’altitudine. Con l’innalzamento delle temperature queste difese si sono indebolite.
Ciò che sta succedendo alla Groenlandia, s’è scoperto, sta pure minacciando la parte occidentale dell’Antartico. Il Pine Island Glacier, largo 20 miglia (circa 32 km) e spesso mezzo miglio (804.5 m), si sta muovendo, assieme ad altri, a un ritmo accelerato rispetto a 30 anni fa, vomitando ghiacci dal cuore dell’entroterra verso l’Amundsen Sea. Di questo passo andrà ad aggiungere, nel tempo, almeno cinque piedi (1.5 m) d’acqua agli oceani.
Si specula che questo è accaduto 130.000 anni or sono, l’ultima volta che i mari si sono alzati in modo considerevole, col sicuro contributo della Groenlandia e di parte dell’Antartico.
Quest’ultimo, data la latitudine che rende più difficile lo scioglimento dei ghiacci in superficie, ha subìto la riduzione dal “di sotto”, da oceani riscaldati che hanno minato il ghiaccio galleggiante fino a farne crollare gli strati solidi più interni.
È di recente pubblicazione sulla rivista “Scienze” uno studio suggerente che durante questo secolo, se non si corre drasticamente ai ripari, gli oceani inizierebbero un processo d’innalzamento sommergendo tutto ciò che sta attualmente a livello del mare, incluse metropoli, porti, arcipelaghi e penisole. Un analogo fenomeno è stato vissuto dalle popolazioni del pianeta in un biblico passato.
Antiche formazioni coralline ora bianche e senza vita, osservabili in posizione elevata nell’entroterra delle Bahamas, Bermuda e nelle “Florida Keys”, indicano che quando esse erano fiorenti sotto il livello marino circa 130.000 anni fa, prima dell’ultima glaciazione, i mari erano considerevolmente più alti. Ciò significa che l’acqua contenuta ora nei ghiacci della Groenlandia sguazzava negli oceani.
Per mollare quelle acque ci vollero soltanto alcuni gradi in più di calore. Invece delle emissioni di CO2 fu allora una diversa inclinazione dell’asse terrestre a determinare i cambiamenti climatici. Le estati nell’estremo nord erano allora di 3-5 gradi centigradi più calde delle odierne.
Al ritmo in cui si sta riscaldando l’Artico, quelle temperature potrebbero tornare verso la metà del secolo in corso.
Paul Nicklen scrive in un suo articolo di recente pubblicazione sul National Geographic:
“Vivo nell’Artico canadese da una vita, e ho speso gran parte del mio tempo fotografando il limite ove il ghiaccio incontra il mare aperto. All’inizio della mia carriera i ghiacci parevano invulnerabili e anche nei mesi più caldi parevano restare inalterati. Il ghiaccio non è soltanto un fattore paesaggistico ma è parte integrante della biologia d’ogni essere vivente in quelle vaste lande fredde. Vi cacciano gli orsi polari, le foche li usano per riposarsi e dare alla luce i propri piccoli, balene e narvali vi trovano i crostacei e i merluzzi delle loro diete nascosti negli anfratti. Dieci anni più tardi le cose sono cambiate. I poli si stanno sciogliendo a un ritmo allarmante; col ‘global warming’ in aumento la possibilità di un Circolo polare artico senza ghiacci, soprattutto in estate, diventa una cruda realtà. Lancaster Sound, uno degli ecosistemi marini più produttivi e porzione orientale del famoso Passaggio di Nord Ovest, potrà ben presto essere testimone di un nuovo capitolo nella storia della navigazione, con petroliere e navi da carico infrangere e porre a repentaglio una regione vergine. In questa prospettiva, molte specie viventi fra cui l’orso polare sono in pericolo d’estinzione. L’Artico senza ghiacci sarà come un giardino senza terra.”
La letteratura sul “global warming” viene intanto ad arricchire le librerie. La nuova topica è discussa sui giornali, i rotocalchi, in televisione, e arriva nei cinematografi con il film “An Unconvenient Truth” (una verità scomoda) dell’ex vice presidente americano Al Gore.
L’attenzione pubblica, ancora prima dell’uscita del libro e del documentario, si polarizza coinvolgendo alla fine anche i politici e gli affaristi più refrattari, quelli che hanno “naso” nell’identificare zone di voto e profitto. Inizia la gara a chi può dimostrare d’essere più “verde” dell’altro, sia nella corsa alle elezioni presidenziali che nel mondo dei “mogul del business”. Intanto, però, si continuano a esalare tonnellate di CO2 nell’atmosfera (a livello privato, pubblico e industriale) e non è ancora chiaro se il processo sia reversibile o meno. Portare il livello delle emissioni annue del gas a uno stadio più ragionevole è già un’impresa enorme, guarire l’atmosfera sarà l’impegno di generazioni a venire. “Gli ecosistemi hanno la tendenza a mantenersi”, dice il biologo Terry Chapin, professore d’ecologia all’Università di Fairbanks, Alaska, “ma alla fine sono spinti ai limiti della loro tolleranza.”
L’ossido di carbonio è normalmente una piccola parte della nostra atmosfera che, per milioni d’anni, ha aiutato a riscaldare e stabilizzare il clima del pianeta secondo la fisionomia conosciuta: se quella parte è invece portata a quantità esagerate diventa assai dannosa.
Il processo consiste nel fatto che il CO2 permette ai raggi solari di penetrare ma non di fuoriuscire, creando così il noto “effetto serra”.
Durante l’ultima scorsa era glaciale la quantità di CO2 presente nell’atmosfera era di 180 parti per milione di quelle d’ossigeno, mettendo la Terra in frigorifero. Dopo il ritiro dei ghiacci il totale era salito a 280. In solo un secolo e mezzo l’abbiamo portato a 381.
Fra le venti annate più calde registratesi, diciannove avvennero negli anni ’80 e dopo. Secondo gli scienziati della NASA, il 2005 è stato il più caldo degli ultimi 100 anni.
I poli sono i punti del pianeta che risentono maggiormente di questi innalzamenti di temperatura, e diventano vere e proprie saune. Interi ghiacciai e calotte si liquefanno.
Una volta che il processo di disgelo inizia, tende a continuare. La Groenlandia ne è un vivido esempio, con 53 miglia cubiche (85.277 m3) che partirono nel 2005, contro le 22 (35.398 m3) che andarono nel 1996. Un miglio cubico (1.609 m3) è una quantità d’acqua cinque volte quella usata in un anno dalla città di Los Angeles!
È risaputo che gli iceberg non fanno salire ulteriormente il livello delle acque sciogliendosi, perché hanno già creato lo spazio per il liquido col loro stato solido.
Il ghiaccio generatosi sopra una terra, come nel caso della Groenlandia, è un’altra cosa. La Groenlandia da sola, sciogliendo tutti i suoi ghiacciai, farebbe salire i mari di 23 piedi (oltre 6 m), l’Antartide di 215 (oltre 65 m).
Il pianeta sta perdendo i suoi ghiacci a un ritmo così accelerato a causa dell’intensificazione del restringimento delle candide calotte polari. Ciò sta mutando il rapporto fra Terra e Sole: mentre i ghiacci polari riflettono e fanno rimbalzare fuori dell’atmosfera gran parte dei raggi solari e della loro energia, i mari li assorbono, aumentando la temperatura delle acque. In questo modo i mari sono costretti ad assorbire pure quei raggi che normalmente verrebbero riflettuti dai ghiacci, vedendo così aumentare ulteriormente la propria temperatura, secondo un processo perverso per il quale ogni miglio di ghiaccio si scioglie a un ritmo sempre più veloce di quello che l’ha preceduto: si tratta di un “circolo vizioso” pericolosissimo e irreversibile (“positive feedback”).
Una volta scioltasi la calotta polare artica, l’oceano Atlantico non avrà più un condizionatore di temperatura, e quelle acque inizieranno a rilasciare calore e vapore nell’atmosfera.
Un fenomeno e un ciclo analoghi si stanno verificando anche in quelle terre che, coperte a lungo dai ghiacci, come quelle che sono state imprigionate dal gelo nell’ultima glaciazione, stanno ora registrando uno scioglimento delle proprie croste fredde.
Regioni d’altitudine in Alaska, Canada e Siberia, che si stanno appunto riscaldando, rilasciano infatti il gas di quel materiale organico parzialmente decomposto e ricco di carbonio del quale sono costituiti i loro terreni, quando per 8.000 anni quel materiale era rimasto inalterato nel ghiaccio. Quantità enormi di metano e CO2 così liberati conducono all’innalzamento della temperatura, a un ulteriore scioglimento delle calotte ghiacciate e ad oceani più caldi. Paradossalmente, questo processo può raffreddare continenti in seno a un globo più caldo.
Correnti oceaniche che viaggiano fra regioni calde e fredde servono da termoregolatori, distribuendo calore dall’equatore verso i poli. La Corrente del Golfo, portando calore dai tropici, mantiene il clima dell’Europa relativamente mite. Con l’Europa al contrario privata della Corrente del Golfo, le temperature possono scendere drasticamente: una situazione del genere è temporaneamente successa alla fine dell’ultima era glaciale, serrando il continente in una morsa di freddo tale da creare tutti i ghiacciai perenni esistenti.
Il ciclo della Corrente del Golfo è sostenuto dal fatto che l’acqua calda, più leggera della fredda, si sposta in superficie e, una volta raggiunta l’Europa, rilascia il proprio calore. Raffreddandosi la corrente s’inabissa e, viaggiando sui fondali, ritorna verso sud ove si va a riscaldare di nuovo: un ciclo perfetto, dal quale dipende il clima temperato di gran parte d’Europa, e resta tale solo se la salinità dell’acqua resta la stessa.
Lo scioglimento dei ghiacci polari sta invece immettendo enormi quantità d’acqua dolce nell’Atlantico, e perciò cambiando questo sottile e prezioso equilibrio.
Secondo i recercatori del British National Oceanography Center, un “fattore propellente” della Corrente del Golfo s’è rallentato del 30 percento dal 1957. Il raffreddamento del clima europeo, collegato a questo mutamento, non riuscirà a salvare i ghiacciai dallo scioglimento, ma renderà le cose molto difficili per il continente. La latitudine dell’Inghilterra è la stessa dell’Alaska: senza la Corrente del Golfo la vita lì diverrà impossibile.
[continua]
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