Incipit
Questa che stiamo per raccontarvi è una storia davvero straordinaria… Non perché un po’ uniche non siano le storie di ognuno di noi, ma perché in genere tutti i miti giovanili passano, e non resta niente…
L’idealismo e l’amore in questa donna hanno invece realizzato un mito… E l’unicità, dell’uomo, è semplicemente coerenza tra fede e realtà.
Umberto Belluco
Capitolo 1
C’era una volta in una notte stellata…
L’unica cosa di cui non posso aver memoria e posso solo immaginare è la mia nascita, avvenuta intorno alle dieci e trenta di sera, il 16 marzo 1950, il che mi fa un essere nato sotto la costellazione dei pesci, a cinque anni dalla fine della II guerra mondiale, che aveva lasciato la mia gente e la mia patria praticamente denudate di tutto.
Posso solo figurarmi quelle vecchie mura medievali di Udine, mia città natale, scure e fredde contro il cielo, contenere tante vite di persone, mentre altre ancora fuori affrettarsi per le strette viuzze a tornare a casa, i passi loro echeggianti da muro a muro dei palazzi storici, nel silenzio ovattato della sera.
Mi venne raccontato più tardi che la “fontanella” al vertice del cranio, quella che comunemente è tenera nei neonati e viene contraddistinta come il settimo “chakra” dagli orientali, non accennava a ispessirsi, preoccupando i miei. Il pediatra aveva concluso che, avendo io beffato la morte, di sicuro avrei sviluppato qualità geniotiche.
Mio padre, di antica e illustre famiglia veronese, usava tenermi nelle sue mani come se fossi di materia celestiale, con dovuta cura, riverenza e infinito amore. Ero la cosa più preziosa e meravigliosa che lui avesse mai visto, mi disse un giorno, guardandomi su di una vecchia fotografia in bianco e nero fattami durante il mio primo anno di vita. Ero la sua rosa.
Mia madre, spagnoleggiante e dallo sguardo acceso, aveva di sicuro affascinato mio padre, anche perché, oltre alla sua attraente e minuta figura, ella possedeva intelligenza, sensibilità e cultura. Io stessa ebbi la fortuna di poter stare al suo seno per lungo tempo e crescere del suo latte. Mi chiamarono Francesca Giovanna, avendo per patroni il santo di Assisi e l’eroina francese messa al rogo.
L’anno dopo ci vedeva migrati sulle Alpi retiche, nel paese di Dobbiaco, quasi al confine austriaco, dove mia madre era stata assunta dalla scuola locale a insegnare. Lì nacque mia sorella, di fattezze e carattere assai diversi dai miei. Crescevamo insieme, a stretto contatto come due gocce d’acqua dello stesso vaso, eppure in competizione per le attenzioni dei nostri genitori. Lei scelse la via in modo d’attirare la loro solidarietà, mentre io presi il volto della ribelle controcorrente, dando spazio all’esplorazione e alla creatività.
A due anni di età disegnavo il micio di casa.
Mio padre, lasciato l’impiego alla questura di Udine e non trovando lavoro adeguato a Dobbiaco, spostò la famiglia nella zona di Bolzano, capoluogo della provincia sudtirolese allora in espansione industriale.
È una regione questa del Sud-Tirolo, ricca di foreste, vie d’acqua, pascoli, frutteti, vigneti e splendide montagne, le Dolomiti, costellate di castelli medievali e vestigia a testimonianza della ricca storia incorsa nei secoli. Quel gruppo montagnoso, così caro al mio cuore, è una formazione unica di antichi sedimenti biologici, la candida “dolomia” che, per effetto delle luci e dell’angolazione dei raggi solari al tramonto, si tinge di sorprendenti e meravigliose tonalità dal rosa-arancio al rosso-porpora, in chiaro contrasto con le altre montagne alpine circostanti dalle sottostanti foreste ombrose, scure contro il radioso lume del cielo. L’“enrosadira” dei Ladini è un fenomeno che dura solo per qualche istante ma ha acceso la fantasia dei popoli montanari reto-ladini da generazioni immemori.
Anche il turista occasionale non può che restare ammirato dall’incanto di questi luoghi, dove la leggenda popolare ha creato magiche credenze e racconti di fate e megere, guerrieri e principi-cavalieri, spiriti delle sorgenti e degli alberi, ninfe di laghi incantati e maghi, dame di rocche e regine di picchi nevosi.
Molte di queste storie hanno accompagnato le ore interminabili nei boschi della mia infanzia, dove potrei giurare di aver visto queste figure uscire dalle loro consistenze di tradizione ed entrare nel regno delle mie visioni. I laghi dolomitici poi aggiungono una nota di brillantezza come diamanti incastonati in un diadema gigantesco, riflettendo i giochi di colore del cielo, delle foglie e della roccia nuda con striature di blu intenso e di argento, una sinfonia poetica ch’educa il cuore all’ammirazione e al rispetto della natura stessa.
Il primo nitido ricordo riguardante la mia introduzione nelle Dolomiti, è legato a un pomeriggio estivo sull’altopiano del Renon, a nord di Bolzano, durante una gita domenicale con i miei genitori. Ero stata posta su di una coperta a fare un sonnellino all’ombra di un abete, mentre essi gironzolavano nei paraggi in cerca di funghi. Disturbato forse dalla loro presenza, un bel capriolo maschio si era staccato dalla macchia e stava venendo nella mia direzione. L’enorme forma bruna spiccò un agile balzo sopra di me, che mi ero destata, estendendosi in quello che mi parve un interminabile volo al rallentatore, fissato per sempre nella memoria delle mie pupille dilatate.
Bolzano, come diversi centri analoghi dell’Italia settentrionale, offriva allora una possibilità d’impiego nella produzione e nell’industria a immigrati di varie altre regioni sottosviluppate. Mio padre trovò lavoro alle acciaierie e mia madre insegnava in una scuoletta elementare in un paese sopra Cardano, dove avevamo trovato pure un alloggio.
Mio padre partiva presto al mattino e scendeva per la mulattiera fino all’incrocio con la statale del Brennero, e da lì andava a Bolzano in bici a lavorare.
Mentre mia madre era occupata in classe, io e mia sorella stavamo da una bambinaia locale piuttosto giovane.
Un dì, sotto le feste natalizie, mi venne l’idea di fare una sorpresa a papà, andandogli incontro sulla sua via del ritorno, aspettandolo proprio alla base della mulattiera, dove lui poneva la bicicletta per salire a piedi.
In quei tempi una bici era il mezzo di trasporto privato più popolare, e camminare per strade sterrate per raggiungere località fuori città era la cosa più normale, anche per i bambini.
Decisi così di fare di testa mia e sgattaiolai via dalla vigilanza della bambinaia impegnata in qualche modo con mia sorella, e guadagnai ben presto la macchia. Lì collezionai un piccolo abete, me lo misi in spalla e cominciai a scendere giù per il sentiero ciottoloso e sconnesso, cantando per darmi spirito. Arrivata alla statale del Brennero a Cardano, attesi pazientemente l’arrivo di mio padre. Un’insegnante che in quel momento stava sopraggiungendo e si accingeva a salire per il sentiero, mi vide lì e mi chiese come mai…
Nel frattempo, su a Cornedo, tutto il paese era in allarme per la mia scomparsa. Qualche tempo prima un altro bimbo si era avventurato da solo nei boschi circostanti ed era stato ritrovato sul fondo di un burrone, senza vita. L’insegnante salita al paese portò notizie che ero in attesa di mio padre alla base della mulattiera, cantando, con un abete in spalla. Vennero a prelevarmi e a riportarmi a casa fra le lacrime di gioia di mia madre e la meraviglia del paese. Mio padre, invece, una volta rincasato, ebbe di sicuro da sentirne una più di tutti!
Avevo tre anni allora, giusto il tempo in cui cominciai a disegnare il mio primo cavallo, realizzando in pieno di essere stata investita del dono del nonno Ubaldo.
Capitolo 2
I racconti dei nonni
Fu sotto la signoria dei Della Scala a Verona, immortalati con i Montecchi e i Cappelletti nella tragedia shakespeariana dell’amore eccelso di Giulietta e Romeo, che prese inizio la storia del mio avo, un capitano di ventura britannico che offrì i suoi servigi al principe scaligero, con molta soddisfazione di costui, che lo investì di titoli nobiliari e contado. Un cavallino bianco rampante su fondo azzurro il suo vessillo, e un nome latino, “Praemium”, a ricordare i molti tornei vinti. Il nonno Ubaldo n’era il discendente, il nonno paterno, colui che mi diede il dono delle arti.
Dolci memorie quelle allacciate ai momenti con i nonni, materni e paterni.
La madre di mia madre era la vedova di un uomo deceduto negli Stati Uniti, uno dei molti italiani che aveva lasciato il paese nella speranza di un futuro migliore per sé e la famiglia. Aveva trovato lavoro, assieme ad alcuni parenti e amici, nella regione dei Grandi Laghi, in miniera. Si ammalò gravemente, e la cosa degenerò in un’infiammazione polmonare così seria che lo portò alla tomba. Mia madre aveva solo tre anni quando suo padre partì, perciò non ebbe mai la possibilità d’incontrarlo di persona, e questo fatto divenne una nota costante nella sua esistenza.
La nonna aveva cresciuto i suoi tre figli da sola, senza riprendere compagno, intesa a farli studiare, credendo fermamente che una persona colta e diplomata avesse una marcia in più nella vita. Filosofia questa che divenne il filo imbastitore pure nella nostra famiglia, con l’aggiunta di mia madre: “…specialmente per una donna!”. A noi due bimbe veniva sempre rammentato che lo spirito di sacrificio, la resistenza e la cultura sono il cemento necessario alla costruzione e allo sviluppo dei talenti, la fondazione di tutte le conquiste personali.
Lo spirito del nonno Francesco, di cui porto il nome, è comprensibilmente rimasto in famiglia, a torreggiare nella vita di mia madre in special modo.
Nella mia invece ho sempre sentito in modo particolare quello del santo di Assisi, il profeta dell’amore puro e della semplicità, il ribelle anticlericale che ispirò le genti in cerca della verità, il poeta compreso da lupi e uccelli, i cui seguaci spesso camminavano la lama dell’Inquisizione.
La nonna materna era un essere dolce e generoso, il cui volto ovale era aggraziatamente incorniciato da morbidi boccoli di candida seta. Aveva scelto di vivere con il figlio sacerdote nella canonica del paese. Il tempo spensierato speso lì era in qualche modo collegato con le sue adorate piante, le sue api, il frutteto di mele e il suo pollaio. Salendo su per la magnifica scalinata che conduce all’antica costruzione a due piani, una solenne doppia fila di giganteschi agavi nei loro vasi di pietra sagomata salutava con riverenza, e da ogni finestra o balcone sorridevano cascate di gerani multicolori, ringiovanendone la grigia facciata.
Ero sempre molto attratta dai cactus della nonna. Venni sorpresa un giorno nel tentativo di toccarne uno grosso e pomposo, col ditino indice proteso a qualche millimetro da uno degli aghi.
“Francesca, son dolori se lo tocchi, non farlo!” mi avvertì la nonna, ma era come dirmi: “Toccalo!”. E così feci… La punta della spina mi penetrò proprio sotto l’unghia nella parte tenera del dito, facendomi vedere le stelle, ma non lasciai scappare neppure una lacrima. Invece dissi enfaticamente: “Nonna, punge!”.
Poi ci fu l’episodio in cui venni sorpresa a mangiare certe formiche, che avevo scoperto andare e venire in una fila interminabile su e giù per la scalinata, affaccendate ad alleggerire chissà quale leccornia riposta in dispensa. L’acido formico contenuto nel loro corpicino pareva stuzzicare le mie papille oltremodo, e fu un vero peccato dover smettere questa pratica dietro il veto dello zio. Chissà, invece, se la cosa non rappresentasse un istintivo approccio a un’insolita medicina naturale…
Il pollame della nonna era pure una tappa obbligatoria… Amavo non solo le gustose uova sbattute offerte a merenda, ma pure le autrici di tali golosità, le signore chioccianti col loro gallo, con le quali m’intrattenevo in conversazioni a proposito dei loro pulcini, delle loro preferenze culinarie e soprattutto del permesso concessomi d’intrattenermi nel loro reame…
Fu nella tenuta dei nonni paterni però che potei sviluppare un serio rapporto con tali pennuti. Mentre mia cugina Carla pareva incontrare ogni sorta di difficoltà quando andava a portare loro il becchime, incorrendo negli assalti del gallo e nell’avidità delle galline a beccarle le fresche croste di quegli attacchi, io non le sottovalutavo.
Erano volatili grossi, con speroni appuntiti, e io rendevo omaggio a tutto ciò. Ogni volta ch’entravo nel loro ambito a portare loro il cibo, le salutavo, e le chiamavo per nome, chiedendo loro il permesso di collezionare le uova e lasciandone indietro un paio per non derubarle del tutto. Al tramonto, passando per la loro porticina, andavo ad appollaiarmi sul primo trespolo nella loro accogliente stia, finché non venivo chiamata per cena. Il “linguaggio pollamesco” non presentava difficoltà particolari, e m’era parso pure ch’essi annuissero alle mie disquisizioni.
Imparai anche la tecnica del deporre le uova. Mi trovarono una volta accovacciata in uno dei nidi, braccia intersecate dietro la schiena a mo’ di ali piegate, chiocciando come fanno le galline che hanno appena deposto. Avevo notato che la nonna mescolava al pastone i gusci d’uovo frantumato e polverizzato: “…per aiutare le galline a ispessire i gusci delle nuove uova”, mi aveva spiegato.
Mangiando anch’io un po’ di quei gusci tritati, avevo concluso, avrei sicuramente migliorato pur io la qualità delle mie uova, e ci stavo provando. La cosa divenne un classico in famiglia!
Tempi spensierati davvero quelli trascorsi in collina alla tenuta dei nonni. Circondata di antichi muriccioli rivestiti di cespugli di more e lamponi, con terrazze di viti, il frutteto e gli orti, stava la casa avitica, con la sua forma a torretta. Per raggiungere il posto dal paese, si attraversa il ponte sul torrente che con l’andar del tempo ha scavato una valle stretta venendo giù dai monti, per poi buttarsi nell’Adige. Prendendo a destra, su lungo il corso del torrente per la strada asfaltata, si passa vicino alle dimore dei miei due amichetti d’infanzia. Lì, in cima alla salita, piegando a sinistra per un sentiero di ciottoli biancastri, si arriva al primo cancello. Da qui si entra direttamente nella vigna, per un sentiero erboso che, salendo lungo un muricciolo di sassi, va a incontrare il gran cancello di legno antico, entrata principale che conduce alla casa passando sotto una pergola di uva fragola. I muriccioli e le terrazze sono ancora dimora di ogni sorta di rettili, anche vipere. Ci veniva perciò sempre ricordato di prestare speciale attenzione al nostro modo di muoverci, fin da bambini.
La nonna Giovanna, dalla quale ho preso il secondo nome, era un’austera e slanciata signora che non aveva tema di niente. Aveva, un bel mattino di primavera inoltrata, come mi raccontò, messo al sole a cavallo della finestra aperta della stanza matrimoniale un piumino. Una serpe, che si era arrampicata sul muro esterno, si era infilata fra la fodera e il piumino stesso. Più tardi, rimesso il piumino sul letto, completo del malcapitato ospite, il nonno Ubaldo, un dolce ometto e nobile artista, venne accusato quella sera di essere particolarmente “audace”… Ci fu un gran balzo a due, non appena scoperto che l’audace era una serpe “giardiniera” di una certa lunghezza! La nonna dava importanza all’apparizione di certe serpi; alcune, diceva, come il “carbonaro”, erano foriere di pioggia.
La nonna era tenace e possedeva una resistenza degna d’un capitano degli alpini, mentre il nonno era un uomo invisibile e quieto, ma di grande statura interiore e talento… Di questi suoi talenti noi nipoti n’ereditammo a piene mani, i cugini in campo musicale e noi due per le arti visuali. Mia zia è una pianista di prim’ordine e ha insegnato musica per una vita.
La nonna era una gran cuoca, ma il nonno sapeva fare del buon vino oltre che della musica e della pittura. Con la stessa passione creativa sapeva lavorare a maglia, inventando magnifiche copertine e pullover.
Di domenica si andava alla chiesa del paese per la messa e poi a mangiare il gelato dalla “Colomba”, il locale bar, dove c’era sempre la televisione sintonizzata su qualche partita di calcio, che attirava frotte d’uomini a bere qualcosa nel frattempo.
Più tardi negli anni, già adolescenti, fingendo di giocare a rimpiattino per le vigne a sera con le cugine, sgusciavamo via e correvamo in paese a raggiungere i nostri amichetti e amiche a casa di qualcuno, oppure, a fare quattro salti in un bar davanti a un juke-box che suonava gli ultimi successi dei Beatles, Dylan o gli Yardbirds. Con gli stessi amici andavamo pure al torrente a fare il bagno di pomeriggio, o a giocare al “tempietto”, una costruzione rotonda classicheggiante, che dava un’aura parnassiana alla natura circostante arcadica. Là si poteva immaginare di vedere il dio-fauno Pan correre col suo flauto dietro alle ninfe degli alberi e dell’acqua, in un quieto e pigro pomeriggio estivo…
C’era un altro posto molto speciale dai nonni: una vecchia spelonca al limitare della proprietà, che noi bambini amavamo frequentare. La caverna si snoda ancora oggi inerpicandosi nel cuore del monte, dividendosi a un certo punto in tre differenti direzioni, con relativi sbocchi l’uno distante dall’altro. Probabilmente era servita ai locali come rifugio antiaereo. Noi bambini amavamo andare lì, incuranti dell’umido e del buio, dimora di creature notturne e occulte. I nonni, temendo che vi fossero ancora dei pericolosi residuati bellici inesplosi, cercavano di scoraggiarci a entrare e giocare lì, dicendoci che vi abitava un grande orso bruno. Proprio ciò che noi bimbi volevamo sentire!
[continua]