A Leo Perutz
E a mio padre
1.
Cristopher Baumann
Avevo sedici anni quando lo vidi la prima volta. L’occupazione durava già da mesi e noi abitavamo in un quartiere periferico dove si trovavano i generi alimentari di prima necessità e le scarpe, ma niente altro. Era nata quella consuetudine di fare mercato che sorge dappertutto durante le guerre, e gli abitanti di un isolato vendevano a quelli di un altro, a prezzo maggiorato, quello che trovavano nei loro negozi. A me toccavano le patate. Era un cattivo affare, dato che ero piccolo e magro e i sacchi pesavano. Avrei preferito a quel punto qualunque altra cosa: riso, orologi, latte in polvere. Caricarmi addosso quelle patate, uscire nella neve col sacco sistemato da mia madre sulle spalle, era peggio che andare contro i tedeschi a fucile imbracciato.
I giorni erano brevi. L’inverno praghese aveva ricoperto le cupole di neve, e a Nove Mesto, dove vivevo, era difficile incontrare qualcuno per strada dopo le quattro del pomeriggio. Passavo innanzitutto al negozio di Anicka, ancora in piena mattina, quando le automobili avevano lasciato lunghe scie di grigio nel bianco della carreggiata, e poi prendevo l’autobus per due fermate verso la mensa della scuola. Approvvigionare la mensa della scuola non era uno scherzo. I bambini andavano avanti a minestra di patate, purea di patate e frittelle di patate grattugiate, spesso senza la panna, dato che la panna andava a quelli più piccoli e comunque non si trovava da tempo. Dovevano ritenermi un adulto. Si ficcavano le dita nel naso e si giravano dall’altra parte quando mi vedevano. Anch’io mi ritenevo un adulto, a quel tempo. Invece ero un bambino. Fu incontrare il tenente Baumann che mi fece crescere in fretta.
Vicino casa c’erano dei campi coltivati a cavoli e a segale. Era una distesa monotona che vedevo dalla finestra. Lì incontravo Roman che tornava dalla fabbrica. Prendeva una scorciatoia che girava dietro le case in costruzione e sbucava sulla Horskà. Fu a causa di Roman che tutto accadde. All’inizio mi prendeva in giro per le patate, ma ne comprava sempre un po’ e, se consideravo il fatto che viveva solo, per quei tempi e con i pochi soldi che giravano, dovrei dire che ne comprava troppe per il proprio fabbisogno. Ma questo lo dico adesso, che sono trascorsi molti anni. Nella mia testa di sedicenne incontravo Roman, gli vendevo le patate e me ne dimenticavo. La sera, qualche volta vedevo la luce accesa nel suo appartamento di scapolo. Quando mi addormentavo, la sua finestra, che era di fronte alla mia, proiettava ancora un’ombra opaca sulla parete. Roman usciva presto per andare in fabbrica. Prendeva il tram ad un’ora talmente fredda che il ghiaccio non aveva ancora sbrinato dai vetri. Spesso discutevamo di libri. Gli piaceva prestare libri, che è una cosa rara. Mi aveva dato per tre volte da leggere il mio preferito, “Robinson Crusoe”, e mia madre lo aveva avvolto in una copertina di cartone scuro affinché non lo sciupassi. L’occupazione nazista, diceva mia madre, aveva convinto molte persone ad abbandonare le ore buone, di svago, per fare cose utili. Si compilavano liste, si scrivevano lettere, si fabbricavano sacchi di sabbia e si cercava di risparmiare sul cibo per mandare i bambini con le pentole e i piatti nelle case di quelle famiglie che erano rimaste senza un uomo o un ragazzo per lavorare e guadagnare il pane. In genere questa mansione era svolta dalle bambine, ma nel mio isolato le ragazze erano tutte troppo piccole o troppo grandi, perciò restavamo io e Frantisek, del piano terzo. Ricordo Frantisek come un ragazzo svagato, con i calzoni larghi, che non sorrideva mai, e se ne stava spesso ad osservare gli animali nel campo di segale dietro casa. Quando si incontrava con Roman, non si salutavano, ma facevano una specie di fischio, un richiamo come quello per le anatre selvatiche, e si passavano oltre. Frantisek viveva solo con la madre. Il padre era uno dei tanti di cui si erano perse notizie, anche se Frantisek sosteneva di ricevere lettere, ogni tanto. Tutti ricevevamo e scrivevamo lunghe lettere, allora. Ma io ti sto annoiando. Forse vorrai sapere a chi scrivessimo, e che cosa. Scrivevamo con l’idea che qualcuno condividesse i sentimenti, le idee. Volevamo essere certi che le idee e i sentimenti esistessero ancora, e mandare una lettera lontano, ad un amico, ad un parente disperso, con il dubbio segreto che poteva anche non ricevere quelle parole, comunque ci allenava a provare dei sentimenti umani. La guerra cancella i sentimenti, o li relega negli angoli. Noi ci accovacciavamo in quegli angoli a scriverci. Ho sempre pensato che anche i tedeschi lo sapessero, e che sia per questo che sono rimasti uccisi, negli anni dell’occupazione, tanti postini. Pensavano che portassero comunicazioni partigiane? Non credo. Le comunicazioni partigiane avevano i loro binari preferenziali, i corrieri, gli infiltrati. Non era certo alle poste che si dovevano gli assalti o gli attentati. Però, quelle lettere erano la nostra forza segreta. Un popolo ha bisogno di sentirsi unito, solidale, e noi scrivevamo ai vivi e ai morti, indifferentemente. Sapevamo che ci avrebbero ascoltato, anche se la posta non sarebbe arrivata mai. Fai un giro per Praga. Vai alle poste. Ci troverai la lista dei portalettere ammazzati. È incredibilmente lunga. È inspiegabile. Quegli uomini mettevano in spalla le loro borse e prendevano il tram, o andavano via a piedi: con ogni tempo, col gelo o quando la neve scioglieva. Uscivano presto, sciamavano dall’ufficio in Na Prikope. Persone di tutte le età. Padri di famiglia, ragazzi. Il nostro portalettere, durante l’occupazione, è cambiato almeno tre volte. Puoi dire che si trattava, in fondo, di una mansione statale, che il postino era un pubblico ufficiale ed era un ceco, per questo il tedesco ci faceva il tiro a segno. Ma ti assicuro, più che quegli uomini, volevano colpire le nostre lettere.
Dunque, stiamo divagando e non sono ancora arrivato al punto: come ho conosciuto Baumann.
Baumann non era una figura di richiamo. Molti altri ufficiali nazisti comparivano più di lui. Noi vedevamo i loro nomi sul giornale in lingua tedesca, che era l’unico che si trovasse facilmente durante l’occupazione. Non lo leggevamo mai. Lo adoperavamo per fare i pacchi, per tappezzare il pavimento, per assorbire l’acqua dalle pareti umide. Ma, durante queste operazioni, certe lettere e certi nomi saltavano comunque all’occhio. E poi c’erano le voci, che si diffondevano rapidamente per tutta Praga quando uno di loro si spostava da un quartiere all’altro, prendeva residenza in un albergo, o pranzava in un ristorante del centro. Avevo visto passare le loro automobili. Non quelle della truppa. La truppa viaggiava sui camion aperti, con la neve che fioccava sulle giubbe e sui berretti. No. Avevo visto passare quelli come Baumann. In automobili chiuse, coi vetri scuri, con un autista dell’esercito che apriva le portiere. Andavano al comando in Loretanska, comparivano un attimo – il momento in cui dall’auto una scorta li accompagnava nel quartier generale. In quei pochi passi, gli occhi dei praghesi erano loro addosso, anche se pareva che tutti stessero guardando altrove, o che, anzi, fossero voltati.
Il colonnello Heydrich era diventato una leggenda. Una leggenda del male che faceva tremare le vene ai polsi delle mogli e delle madri. Di Baumann, invece, ancora non si sapeva niente. Era arrivato in settembre e aveva firmato delle ordinanze, fra cui quella che stabiliva il coprifuoco. Lo vidi per la prima volta in mezzo ad una folla che correva. Mi ero spinto fino in centro col mio sacco semivuoto, con l’ordine di portare un biglietto al signor Hasek, e il biglietto stava in mezzo alle patate. Non era una novità, che recapitassi messaggi del genere. E il fatto che trovassi o meno il destinatario, dipendeva esclusivamente dal caso. Ero un ragazzino vestito male, con i pantaloni rivoltati in fondo, le scarpe grosse da neve e una giacca che era stata di mio padre. Quella giacca mi stava tre volte e in tutto quel vestiario mia madre mi riteneva al sicuro come se avessi avuto una corazza. Ciononostante, raramente mi spediva a Stare Mesto, dove i nazisti giravano in continuazione.
Circolavano a Praga leggende sull’aspetto del tenente Baumann. Alcuni lo dicevano orrendo. Un mostro dell’inferno salito sulla terra. Altri invece ritenevano che avesse l’aspetto di un angelo e il cuore di un demonio. Anzi, che avesse ucciso un angelo del cielo, si fosse impossessato del suo corpo e ci avesse nascosto dentro l’anima di un assassino. Io, come ti ho detto, lo vidi per la prima volta nel mezzo di una folla che correva, e tutto quel che vidi fu una divisa circondata da altre divise grigioverdi.
E il viso, quello era pallido.
Guardava verso di me, questo mi parve. Ma il parapiglia era tale che non ebbi il tempo di giudicare.
Fu sicuramente una mia impressione, quella che Baumann stesse guardando proprio me. Ma ricordai la sua faccia e la descrissi e Frantisek e a Roman.
“Non è un mostro. È giovane.” E nei miei sedici anni non trovavo altre parole per spiegare quello che avevo visto. Le parole si aggiungono al nostro dizionario con le nuove esperienze, la nostra maturità ne forgia di adatte. Ero semplicemente troppo immaturo per trovare le frasi giuste per Baumann. Ma il suo viso pallido e contratto entrò a far parte del mio repertorio di immagini, insieme ai santi del Ponte Carlo, alle cupole della chiesa di Tyn, alle facce degli amici, ai vestiti dignitosi e poveri di mia madre e a quel senso scuro di desolazione che aveva avvolto tutta Praga.
Il fatto che mi fosse comparso nella concitazione di un incendio, quando un ordigno era esploso davanti a Peckuv Palac, il quartier generale della Gestapo, mentre la gente fuggiva impazzita per non cadere nella retata che ne sarebbe seguita, lasciò per un anno intero nella mia immaginazione quel volto, insieme ad un punto di domanda che sarebbe stato per il resto della mia vita la risposta ambigua ad un quesito sul bene e sul male.
2.
Roman, mia madre e mio padre
In primavera si seppe dal fronte che mio padre era morto. Vegliai a lungo mia madre, che non piangeva e non parlava, semplicemente dormiva per lunghe giornate, lasciando la casa in un abbandono misterioso e grigio. Non avevo mai visto i piatti dimenticati nel lavello, le montagne di vestiti e biancheria nel bagno, il letto costantemente sfatto e vuoto. Era il mio letto, che giorno dopo giorno diventava una belva acquattata in fondo alla stanza. Mi abituai a dormire su di una poltrona accanto a mia madre, a leggerle di sera lunghi brani di “Robinson Crusoe”, come lei aveva fatto con me quando ero piccolo, per divertirmi prima del sonno. Cercavo di risvegliarla alla vita, e, proprio come nelle favole, risvegliarla era impossibile, o forse ci voleva la pozione magica che io non avevo.
La vidi a poco a poco perdere il sorriso, smettere di uscire sul pianerottolo a parlare con la vicina, lasciar andare me e gli altri come se non fossimo più parte del suo mondo. Cominciai in quei mesi a frequentare più assiduamente l’appartamento di Roman Rosenthal e a capire in che modo viveva. I primi tempi, mi affacciavo timidamente a sera tardi a guardare la sua finestra, in ore in cui da tempo, se mia madre fosse stata presente a se stessa, mi avrebbe invitato ad andare a letto. Alle undici o a mezzanotte, Roman leggeva chino sulla scrivana, rischiarando le pagine con una lampada di metallo che sembrava quella di un ufficio del catasto.
Imparai nei mesi dal mio amico adulto che cosa significa essere solo. Vivevamo attorno alla scrivania e al letto sfatto, era come passare da una casa abbandonata ad un’altra. I muri riverberavano fino a notte alta delle nostre parole. Ci appassionavano Verne, Wells e altri scrittori che avevano creato un loro mondo lontano da quello quotidiano. Soltanto dopo mesi, Roman mi chiese di Baumann. La frase con la quale iniziò quel discorso me la ricordo ancora. Stavamo scaldando del latte. Era ricavato da una busta di latte in polvere di cui qualcuno aveva trovato una partita intera prima che fosse smistata nella mensa di qualche ospedale. Roman diluiva con attenzione il latte nell’acqua bollente. Adoperava per questo un cucchiaio con metà manico, che produceva un suono gradevole sul pentolino. Mentre versava disse:
“Mi hanno detto che hai visto in faccia Baumann.”
“L’ho visto.” confermai.
“Te lo ricorderesti? Sono pochissimi, in città, che abbiano un’idea chiara del suo viso.”
“Se lo rivedessi.” dissi indifferente, pregustando il sapore del latte zuccherato.
Roman mi mise davanti la tazza fumante:
“E se fosse vestito diversamente, senza uniforme, senza visiera sugli occhi?”
“Non lo so.” risposi sinceramente. Non capivo che cosa stesse progettando Roman, ma intuivo che doveva far parte di uno dei gruppi di resistenza che brulicavano dietro le finestre di case e di fabbriche, in ogni quartiere dove fossero rimasti degli uomini e persino là dove non ce n’erano più, tanti ne aveva fagocitati il Moloch della guerra.
“Ero in mezzo alla gente che correva, dopo la bomba sulla piazza.” aggiunsi.
“Quella di due giorni fa?”
“Quella. Non ha fatto molti danni, ma è scoppiata quando sono arrivati i tedeschi.”
“Era circa mezzogiorno.”
“Circa.”
Il viso di Roman si era fatto affilato, il suo sguardo era come annerito dalle pupille dilatate. Capii che provava un’emozione simile all’odio o alla paura, e che il comprimerla gli costava fatica. Ma mi parlava con voce pacata, e intuii che lo faceva per non spaventarmi o suscitare sospetti.
Trascorse qualche mese. Fatti nuovi avvennero in fabbrica e Roman cambiò i suoi orari. Adesso usciva più tardi di mattina, ma tornava a notte alta. Le nostre chiacchierate serali si interruppero bruscamente, ma in compenso mia madre ritrovò sé stessa. Cenavamo in cucina, dicendo poche parole. Un vapore caldo appannava i vetri e la minestra povera e acquosa fumava nel piatto. Cercavo di riordinare la casa, di tenere le nostre poche cose al loro posto e di creare un ambiente piacevole. Un giorno incontrai una vecchia per strada che vendeva piume di pavone a mazzi, come fossero fiori. Ne comprai qualcuna, che sistemai in un vaso nell’ingresso. Fu una gioia per mia madre, che non fece che lodarmi quella sera. Notai che aveva ancora bei capelli scuri, che il sorriso le si era approfondito in una sorta di pudore triste, e che le mani, con l’inattività, si erano fatte più belle.
“Un giorno ti racconterò di tuo padre. Di quando era giovane. “disse con gli occhi lucidi, in uno slancio di nostalgia. Avrebbe voluto farlo rivivere. Forse sperava che io, ascoltando quei fatti, imparassi da lui, che fisicamente era stato tanto diverso da me, ma che, nel cuore, mi assomigliava.
Nei giorni seguenti portammo la zuppa a due o tre inquilini anziani, lavammo una quantità di biancheria e parlammo dei tedeschi. Era il passatempo nazionale. Non c’era persona a Praga che non parlasse dei tedeschi. Era per esorcizzarli, o forse per placarli, o per essere sicuri di sapere tutto al riguardo della persona che ti avrebbe ucciso. Io avevo visto le vetrate colorate della casa sulla Kaprova. Mia madre mi ci aveva portato apposta quando ero piccolo. C’erano uccelli sospesi in volo, grandi alberi intricati e volti di donne dalle labbra rosse. Pensavo che il Paradiso fosse qualcosa del genere, e mi esercitavo a immaginare, quando sarei morto, di poter camminare fino alla Kaprova per entrare in cielo. Mio padre aveva certamente avuto un posto del genere dove andare, quando era morto. Anche se certamente la strada che deve percorrere l’anima di un soldato lontano da casa è molto lunga.
Quando stavo sdraiato con gli occhi chiusi, prima di dormire, cercavo di figurarmi con gli occhi della mente tutte le soste di quel percorso: pietre miliari, alberi, lapidi, chiese, che costituivano gli appigli lungo i quali si inerpicava l’anima di mio padre per tornare. All’inizio era tutto luminoso e colorato, e si vedevano anche i fiumi, e i ponti, e quasi ogni foglia di siepe e ogni fosso, poi tutto si faceva sfocato e il paesaggio da Smichov a Praga – proprio gli ultimi chilometri – diventava una sorta di serpente grigio che si snodava perdendosi in mille rivoli. Lottavo allora col sonno per ricostruire ogni millesimo del tragitto, ma un confuso mondo onirico mi vinceva, e mi addormentavo con una oscura sensazione di colpevolezza.
Roman lo vedevo dalla finestra, una sagoma scura infagottata nella notte che precede l’alba, quando mi svegliavo per accendere il boiler e rimettermi nel caldo delle coperte. Sembrava un corvo nero nella neve, la nebbia lo rifletteva e lo inghiottiva, e tramandava la sua ombra ai cancelli dei giardini e alle distese di mattoni e di malta sul terreno brullo in costruzione.
“Quell’uomo ha un dolore segreto.” diceva mia madre quando le raccontavo di Roman. “È giovane, ma è troppo serio. Tutte le persone con un dolore si comportano in quel modo.”
“Forse sta nella resistenza.” azzardai. La parola resistenza pronunciata dalla mia voce adolescente fece paura a mia madre, che s’incupì e disse: “ Tu lascia perdere queste storie. La guerra è la guerra. A morire bastano quelli sul fronte.”
Le strade erano piene di gente che camminava. Vedevo le loro spalle, il loro viso, i loro cappotti. Sapevo che in mezzo a loro c’era qualcuno con dei documenti, con delle lettere, forse con dell’esplosivo: la mia testa era piena della voce di Roman che leggeva Verne. Roman era ebreo. Per noi cechi questo significava che qualcuno sarebbe morto perdendo di più di quanto stavamo perdendo noi. Eravamo abituati e vederli perdere. Il Ghetto a Praga era stato istituito nel XIII secolo. Ferdinando I, verso il 1550, aveva addirittura minacciato di cacciare tutti i cittadini israeliti dalla Boemia. Dopo la felice parentesi del regno di Rodolfo II, quando la loro comunità sembrava essersi ristabilita, e addirittura guadagnata un posto nella storia ceca per averci appoggiato nella guerra contro gli Svedesi, erano stati scacciati davvero, ma poi riammessi, quando l’economia aveva preso a languire. Senza altro motivo che “l’impulso inarrestabile della modernità”, tra il 1893 ed il 1910, il Ghetto era stato smantellato. Al posto delle vecchie case era stata creata un’arteria elegante che si chiamava Parizka Trida. Una di quelle vie larghe e salubri che facevano di Praga una capitale mitteleuropea. Anche di Jozefow, il quartiere ebraico di casupole che crescevano e si affastellavano come funghi attorno alle sinagoghe, nell’insieme era rimasto poco. Edifici nuovi avevano sostituito le vecchie case, le stradette erano state asfaltate, e il progresso aveva chiesto l’ennesimo sacrificio.
Lo aveva chiesto agli ebrei per il fatto che erano più deboli di noi, o per il motivo che erano meno amati?
Roman era sempre più spesso assente da casa, e i miei discorsi con mia madre trovavano sempre più vie strane, vicine ai concetti di lotta, guerra, armi e divise tedesche. Sapevo che quegli argomenti la disturbavano, e quando capii che non voleva o non poteva dirmi di più, andai da Frantisek e gli chiesi quello che sapeva sulla resistenza.
Frantisek era un ragazzo allampanato, troppo magro e troppo infantile per la sua età. Aveva compiuto diciassette anni ma ne dimostrava quindici, e nel quartiere, nonostante fossi più giovane, ero considerato io il più forte nei giochi e il più abile a trattare di soldi o di mercanzie. La madre di Frantisek mi raccomandava di portarlo con me, dato che facilmente si distraeva e bighellonava, dimenticandosi le commissioni e perdendosi gli spiccioli che aveva in tasca. Li spendeva, a volte, per il miglio e il grano che metteva nelle cassette degli uccelli sparse sugli alberi del vicinato. Frantisek aveva una passione per i volatili. A casa aveva un libro illustrato che riportava la figura di ogni uccello che si possa immaginare.
Le ali spiegate, erano ritratti in volo, oppure su fioriti rami di ciliegio e in nidi ben intrecciati. Alcuni non si sarebbero mai visti nel nostro clima, altri li riconoscevo facilmente, per averli osservati becchettare le briciole sul davanzale delle mie finestre.
“Frantisek, Roman è nella resistenza? In qualche gruppo legato all’esercito o alla cospirazione nelle fabbriche?”
Frantisek alzava le spalle. Mi faceva quel viso lungo e vago che aveva imparato nelle sue passeggiate solitarie, e sembrava più pallido e indifeso che mai. A Frantisek questo genere di domande interessava quanto i giornali che qualche volta recapitava, senza leggerli mai.
“Mi regala il fil di ferro, qualche volta, per fare i nidi artificiali.” mi rispose, e poi aggiunse, con un sorriso dolce come quello che aveva avuto sua madre quando era incinta del bambino morto “Ma se lo fosse, voglio dire, se ci stesse in mezzo, non lo direbbe mica a te.”
“Io starei zitto, e tu?” dissi con impeto a Frantisek.
Frantisek alzò le spalle, come per far capire che zitto ci stava sempre. Trovavo le sue impronte nella neve in quel campo di patate e cavoli dietro casa che d’inverno era silente come un cielo gelato.
Spesso ci si trovavano, poco lontano, i segni appuntiti delle zampette di un ciuffolo o di un corvo.