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Ombre di stelle cadenti
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Questo libro è stato scritto a quattro mani da Gabriella Dell’Orto e Rosario Castelli
Prefazione
“Fu il vermiglio tramonto del sole, dietro la collina di Lahayo, a suggerire a S’aj l’improvvisa necessità di una sosta”.
Ed è l’improvvisa malattia del padre, dopo anni di lontananza e gelo, a suggerire ad Albanna, protagonista del romanzo, l’improvvisa necessità di una sosta.
Eccola dunque, questa ragazza triste, il corpo lieve e flessuoso accovacciato su una poltrona, mentre assiste il padre semincosciente e cerca compagnia in un romanzo, eccola mentre apre quel libro avuto quasi per destino, e in quelle pagine trova un segno – la storia dell’ascetico vagabondo S’aj’- che le indica come per caso una via possibile d’uscita. Dalla sua solitudine, dai suoi rimorsi, dai suoi rancori.
Un romanzo, quello di S’aj, metaforico e limpido come una storia di Gibran Kahlil o di Herman Hesse, che brucia impalpabile come un incenso dentro il romanzo di Albanna, dentro il romanzo che leggiamo, che è insieme la sua vita e la sua narrazione.
Insomma, un ingranaggio a scatola cinese che non è certamente nuovo dal punto di vista letterario, ma che acquista più interesse per il doppio gioco della scrittura a quattro mani snodata e scambiata via e-mail fra i due autori, Gabriella Dell’Orto e Rosario Castelli. Due stili completamente diversi, molto “occidentale” e femminile il primo, “orientale” e sapienziale il secondo, ma che perfettamente si corrispondono nel delineare le contrapposte modalità di vita e di ricerca esistenziale, peraltro destinate a ricomporsi alla fine tra senso e mente, volontà e sperdimento.
Anche Albanna, infatti, compie un suo viaggio iniziatico all’interno di una fredda stanza ospedaliera, dinanzi a un padre muto (il che è anche un dato simbolico), nell’attesa di una morte-vita che finalmente spezzi la paralisi, inneschi un nuovo moto liberatorio.
Le sue esperienze passate, i tradimenti, le incomprensioni, tutto il deserto chiassoso della sua vita le si proietta davanti come un film allucinato e confuso, abitato da ombre, fantasmi, replicanti. A poco a poco, mentre procede la sua lettura del romanzo di S’aj, una debole luce illumina tutto questo, ne ridefinisce i contorni, appiana i solchi e le rughe, riscalda e orienta in modo nuovo le prospettive incerte e le inquadrature malferme.
Il viaggio à rebours verso il padre, nella propria adolescenza beffata, gradualmente si avvita su se stesso come una spirale, inverte la marcia, s’impenna in alto verso una nuova luce. Di consapevolezza, di nuova audacia da spendere con quella saggia sventatezza e malinconica generosità che molte donne possiedono, molte donne nascondono. O non sanno di avere.
Elvira Seminara
DUE RIGHE DI PRESENTAZIONE
Una volta una mia amica mi chiese: “Come nasce un romanzo?”, dando per scontato che un’opera letteraria sia, in un certo senso, un qualcosa in gestazione nelle pieghe profonde dell’io dell’autore e che, compiuto il rito del tempo stabilito, quasi per un moto naturale venga alla luce, come un bimbo attraverso il travaglio del parto.
Per quanto ne so io, questo libro è frutto di un gioco.
Un giorno, dopo qualche incontro in chat-line e tante e-mail, un chat-friend, che chiamavo per scherzo ‘Prof.’, mi manda due paginette che parlano di uno strano personaggio di nome S’aj, sfidandomi a continuare il racconto.
Non era il mio genere e così gli risposi con tutt’altra situazione, inventando il personaggio di Albanna.
La cosa l’incuriosì e lo spinse a continuare.
Alla fine mi sono ritrovata una cinquantina di pagine dattiloscritte e il brogliaccio di una storia intessuta su due binari, apparentemente incompatibili, però di fatto con molte situazione e problematiche comuni.
Poi io ho smesso di chattare, anche le e-mail tra noi sono state sempre più rare…, ma quelle pagine sono rimaste ancora per me come una sfida.
Erano lì, quasi implorassero di non lasciarle cadere nell’oblio, come già era capitato per altre opere, meno fortunate di loro.
Non ho saputo resistere a lungo: le ho rielaborate in ondate successive, finché non ha preso forma questa storia, trasformatasi nel frattempo in un lungo epitalamio ‘per le nozze di Albanna’.
A questo punto è arrivata la decisione di pubblicare lo scritto, insieme alla proposta-invito del ‘Prof.’ di rivedere il tutto insieme.
Così nel gennaio del 2002 i due amici, una del nord e l’altro del sud Italia, che si erano sentiti fino allora solo telefonicamente, decidono d’incontrarsi in terra di Sicilia, per dare un vestito decoroso a questa loro strana ed esigente ‘creatura’.
Nei giorni passati insieme molto è stato corretto, alcune cose sono state cambiate, capitoli interi sono stati rifatti.
“Come nasce un romanzo?”
Forse per gioco, ma poi diventa una cosa seria, bella e impegnativa, ...come un’amicizia.
Gabriella Dell’Orto
Ombre di stelle cadenti
METEORE
E nessuno sa o vede
le lunghe ombre
di polvere nera
sospese tra il cielo
e il nostro cuore;
poi che rapide e lucenti,
nell’attimo stesso
che il desiderio invola,
appaiono e spaiono
come stelle cadenti.
Uno strano regalo di nozze
All’interno della redazione del settimanale femminile in cui lavoro, dalla porta a vetri del mio piccolo ufficio, ne ho visti di tipe e tipi strani passare: alcuni vocianti, altri ingrugniti, figure snelle e grasse, eleganti o sgraziate, altezzose o cerimoniose, insomma una bella fetta di umana varietà!
E ormai non ci faccio più caso.
Ma oggi… sarà perché è quasi l’ora di pranzo, o per via della stanchezza accumulata la scorsa notte, festeggiando la prima Befana del nuovo millennio, o forse è una sorta di strano magnetismo, fatto sta che alzo la testa e lo sguardo viene curiosamente attirato da una specie di palandrana sormontata da un floscio cappello di panno nero.
Chi se ne può andare in giro così per Milano, con un mantello berbero stretto in vita da un’alta fascia di pelle rossa decorata da disegni neri e oro?
E muoversi in quel modo!
Muoversi tra la selva delle scrivanie su altissimi tacchi a spillo, ondeggiando appena, come se tutto il mondo per lei fosse una nuvola: inconsistente, evanescente, senza spessore né peso.
Non faccio in tempo ad alzarmi per curiosare meglio, che la figura si è già dileguata, come un miraggio.
Scuoto la testa e ritorno al lavoro.
“Ancora mezz’ora e poi stacco” penso.
Ma, mentre giocherello a infilzare sul monitor le parole con la freccetta del mouse, due labbra rosso fuoco comparse all’improvviso mi salutano gioiosamente: – Ciao, Giulia…! – Qualche istante d’imbarazzo e poi: – Non mi dirai che ti sei dimenticata di me? – Io la guardo piena di meraviglia mentre lascia scivolare il mantello sulla sedia, gli occhi attratti dallo scintillio della sua corta tunica cilestrina con ricami di trasparenze lunari, sopra lunghi pantaloni bianchi di taglio maschile, classici.
Impeccabili.
Lei si lascia amabilmente osservare e poi continua con allegra ironia: – Quinta ginnasiale, la tua compagna di banco, non ricordi? – Io rammento, invece, di averla già vista su qualche rivista di moda e finalmente la riconosco. La chiamo per nome e di slancio mi alzo per abbracciarla, stringendo a me il suo morbido calore, finché lei non si stacca, mi guarda con un sorriso di complicità e mi dice in un soffio: – Giulia, mi sposo! – E da una lunga borsa bianca, come dal cappello di un prestigiatore, sguscia fuori un pacchetto di pelle scura accompagnato dalle sue parole: – Questo è il regalo di nozze che voglio da te! – Mi tende il pacchetto, mentre io perplessa le domando meccanicamente: – Lui chi è? – - Non lo conosci, lo vedrai alle nozze e sono sicura che ti piacerà.
Ha anche un fratello, nel caso tu voglia farci un pensierino…
Gli anni passano per tutti, Giulia, ed è meglio sposarsi giovani. – - Scherzi! – le ribatto con una smorfia, mentre la guardo ancora incredula e, dopo un attimo di silenzio, le chiedo: – E questo pacco che significa? – - Lo capirai quando l’avrai aperto. No, non adesso, voglio che tu lo faccia a casa, con calma; devi sederti su una poltrona comoda, toglierti le scarpe, rilassarti, e …sì, prendere in mano una tazza di tè.
Mi raccomando tè alla menta e coi pinoli.
Il tè è un rito importante! – - Ma scusa – le dico – fammi capire… – - Non ora, sono appena arrivata dall’aeroporto e devo ancora cambiarmi!
La data del mio matrimonio è il 26 aprile.
Ti mando in ogni modo i dettagli con l’invito.
So che, anche dopo tanti anni, posso fidarmi di te, della tua lealtà alla nostra vecchia amicizia… – “Perché rimango senza parole?”
“Perché non la trattengo per le necessarie spiegazioni?”
Mi rigiro tra le mani imbarazzata quel pacchetto di pelle morbida come nappa, mentre lei si calca il cappello nero sui lunghi capelli biondi e lucenti, eclissandosi rapida dietro alla porta, con un – ciao e grazie di tutto! – in modo da non darmi il tempo di riprendermi dalla sorpresa e replicare.
Così chiudo l’articolo che stavo scrivendo, e con quel pacco tra le mani mi avvio verso casa.
Per strada, però, entro d’impulso in una drogheria: – Tè alla menta… e anche un sacchettino di pinoli, – mi ritrovo a chiedere.
E dentro di me penso: “devo essere impazzita!”
Il pacchetto di pelle scura è morbido, emana uno strano profumo speziato che mi ricorda gli odori e i colori dei suk: il suo aroma intenso m’intriga i sensi e sollecita la mia curiosità a caccia di sorprese, spingendo avanti la mia fantasia.
Ora nello studio la teiera sta ancora fumando. Da un lato del pacco aperto sul basso tavolino da tè di fronte al divano, tra carte, cartellette, fotografie e materiale vario, viene fuori un libro. Ha un segno infilato a metà, una striscia colorata con su scritto per il lungo in caratteri ricercati la parola “leggimi”.
È chiaramente un messaggio dell’amica del cuore della mia adolescenza, un invito che mi sfida a non tirarmi indietro.
PARTE PRIMA
I fuochi di Gahél
Fu il vermiglio tramonto del sole, dietro la collina di Lahayo, a suggerire a S’aj l’improvvisa necessità di una sosta.
Esausto, il giovane cominciò ad assaporare il rapido trascolorare del cielo.
Inseguiva, ormai, solo la tiepida carezza della luce che lambiva i crinali tutti intorno, ma con la sommessa certezza di quanto fosse effimero il conforto di quelle ore.
Srotolò la pelle che teneva appesa sulle spalle, quindi sistemò tra due sassi il miserando fagotto che portava con sé e si sdraiò lentamente sul giaciglio che aveva improvvisato.
Estratto dalla bisaccia che portava a tracolla un flauto, lo puntò verso le nuvole per soffiare un canto a tratti sgraziato ed impreciso, come una maledizione al cielo.
Ebbe appena il tempo di soffocare uno sbadiglio che gli montava in gola prima di smarrirsi in quel sonno che aveva lungamente atteso.
Gli spettri dell’incoscienza cominciarono a danzare nella sua mente come animelle di fuochi fatui.
Nel sogno, si accendevano di tanto in tanto cupe visioni, ma come indistinte, sfuggenti, tremanti al pari di riflessi in uno specchio d’acqua.
Avrebbe voluto risvegliarsi, ma era come se quelle immagini volessero risucchiarlo ancora di più nell’incoscienza.
Si sentì, allora, come un insetto che sbatte le sue alette senza requie, nella chimica impossibilità di staccarsi dalla carta moschicida che lo invischia.
Quando, dopo molte ore, riaprì gli occhi, riuscì a recuperare solo un ricordo sfocato di ciò che aveva sognato.
Una fune su cui si arrampicava con le mani piagate da vesciche purulente. E da un’indefinibile altezza la visione di un’enorme pignatta, ricolma d’acqua rugginosa, su cui galleggiavano fagioli sfatti e fette di pane, simili a zattere su un mare torbido.
La notte si era già posata da un pezzo sul mondo, con la sua coltre che sembrava pietrificare tutto.
Anche il tempo.
In un’eternità senza soluzione.
Nelle tenebre di quello smarrito angolo del mondo S’aj riuscì a scorgere una capra che si aggirava smaniosa tra anfratti e rovi, trascinando le mammelle avvizzite che non promettevano più neanche una goccia di latte.
La presenza di quell’animale e la sua inappagata ricerca di cibo gli fecero pensare che oltre l’altura avrebbe scorto finalmente una meta, e forse era proprio il villaggio di Gahél.
S’aj realizzò come il gelido silenzio delle tenebre ormai fuggenti avesse una sorta di liquida risonanza.
Trattenne il respiro per qualche secondo, quasi non volesse turbare con l’insolenza dei palpiti del suo corpo quell’inatteso momento di serenità, e finalmente scorse nel chiarore del mattino i fuochi di Gahél.
Decine di minuscoli bagliori gli davano il benvenuto, rassicuranti quanto le promesse di una stella cadente, con la sua istantanea chiarezza, la discreta evidenza, la scia d’illusioni che sa condurre con sé.
S’incamminò verso il villaggio con la trepida baldanza di chi anela ad arrivare puntuale ad un appuntamento.
Ogni ciottolo che i suoi piedi prendevano a calci rotolava davanti a lui sollevando esili scie di polvere, su cui morbidamente il giovane sembrava planare nel diafano avanzare dell’aurora.
Il risveglio d’Albanna
Attraverso i vetri serrati, la luce cruda e fredda del mattino cominciava a gareggiare con il lume acceso, andando a caccia delle ombre acquattate nel silenzio inamidato della stanza.
L’orologio digitale sul comodino segnava le 6 e 20 di martedì 29 settembre 1999, mentre il telefono che squillava fu prontamente interrotto dal sussulto di una mano incerta, accompagnata dal sussurro della voce ancora assonnata: – Chi è? – Ciao Banny, sono io. – Alberto, sei tu? – Ti ho svegliata, sorellina? – No, no. Mi ero appena assopita. – Come sta papà? – Dorme. Si è lamentato tutta la notte fino a qualche ora fa. Ma è ancora sotto l’effetto dell’anestesia, credo. – Albanna represse col palmo della mano un altro sbadiglio e cercò di stiracchiarsi, poi si alzò dalla poltrona e con voce smorzata, mentre si avvicinava alla finestra, riprese: – Va bene, va bene, non ci sono problemi. Posso rimanere qui anche per tutta la mattina… – Suo fratello le stava comunicando che a causa di un improvviso impegno di lavoro avrebbe dovuto prendere il primo aereo da Linate per Roma e Tina, sua moglie, non sarebbe arrivata in clinica a darle il cambio prima delle 10,30.
E lei non era più riuscita a stargli dietro mentre le diceva della moglie che avrebbe accompagnato i figli a scuola e della spesa che avrebbe dovuto fare.
Quindi lo aveva ascoltato parlare del suo ménage familiare senza prestarvi molta attenzione, la mente ancora intorpidita e il corpo assonnato.
“Mi ci vorrebbe un buon caffè” – stava invece pensando – “caldo e forte”.
Così, quando la voce dall’altro capo del filo cessò, sentì quasi con stupore la sua che rispondeva bisbigliando: – Va bene, d’accordo. – E sul “ciao” di suo fratello chiuse la conversazione.
Diede un’occhiata assente al giardino di sotto, rischiarato appena dall’umido mattino di pioggia, poi rimise a posto il cordless prima di entrare in bagno. Sentiva il bisogno di sciacquarsi la faccia e togliere dagli occhi l’ultima traccia di rimmel impastata di sonno, che ormai le disegnava un alone nero intorno alle palpebre.
Si guardò allo specchio e fece una boccaccia al suo giovane viso dai morbidi lineamenti, attraenti anche sotto il trucco ormai sfatto, e all’improvviso fu assalita da un’assurda sensazione di vuoto allo stomaco che per poco non la fece mancare.
Sorrise a se stessa e sulle labbra si disegnò una smorfia, mentre il suo pensiero correva alla giornata precedente:
“Sì, l’ultimo pranzo”... quel cibo insapore lasciato quasi intatto sul volo Palermo-Milano, e poi la corsa in taxi dall’aeroporto alla clinica, e l’attesa lunga, angosciante, camminando avanti e indietro per il corridoio in punta di piedi per non far sentire il rumore dei tacchi a spillo sulle liste di marmo tirate a lucido.
E suo fratello con sua cognata che guardava sempre l’orologio e non vedeva l’ora di andarsene, e l’ansia di sua madre, che non smetteva mai di lamentarsi ad alta voce, stropicciandosi le mani: – Glielo avevo detto io, che sarebbe finito così...
Il medico gli ripeteva ogni volta che doveva smettere di fumare…
Ma lui “no!” diceva “no!”
che non mi preoccupassi, che sarebbe campato cent’anni!
Dio mio, che uomo testardo! – E lei che non ce la faceva più e ripeteva in silenzio, quasi a volerla condizionare mentalmente: – Finiscila, stai zitta! Non ne posso più! – Ma la madre, come se beneficiasse di una continua ricarica, continuava: – E tu, Albanna, arrivi solo ora. Ti spedimmo un telegramma tre giorni fa. – Ora la parola “Basta” risuonava come un urlo esasperante nella sua testa e si mescolava in un angolo della mente a un pianto affettuoso e infantile:
“Papà..., papà, non puoi andartene così”.
E quando il prof. Rizzoli aveva fatto avvisare che il paziente aveva superato la crisi, e che l’operazione di impianto era ben riuscita, anche se la prognosi rimaneva riservata, aveva avuto ancora la forza di mandare a casa tutti: sarebbe rimasta lei a vegliarlo tutta la notte.
E, dopo aver ascoltato le loro proteste, disse: – No, non ho bisogno di niente, va bene così. – Alberto le avrebbe dato il cambio l’indomani alle sette.
C’era da vincere ancora la resistenza di sua madre. – Sì, mamma, ma tu sei sfinita e ti devi occupare anche degli altri. – Poi, per aggirare ogni possibile altra opposizione, aggiunse: – Nella stanza c‘è un telefono. – Se ci fosse stata qualche complicazione li avrebbe chiamati. – Non vi preoccupate. – concluse.
Alberto aveva annotato il numero di telefono della stanzetta e lei aveva guardato l’ascensore richiudersi sul terzetto famigliare.
Quindi, con un sospiro, era entrata nella camera dove stava suo padre.
“Banny”. Erano secoli che non si sentiva più chiamare così.
Da quanto tempo non incontrava più suo fratello maggiore, né la sua famiglia!
E in quanto ai suoi due nipoti, Andrea e Romina, li aveva visti crescere solo in fotografia.
Una sorda fitta allo stomaco la riportò alla realtà.
Non mangiava da quasi ventiquattr’ore e mentre si teneva al bordo del lavabo, le apparve davanti la strana visione di un’enorme pignatta, ricolma d’acqua rugginosa, su cui galleggiavano fagioli sfatti e fette di pane, simili a zattere su un mare torbido.
Represse un’altra smorfia, rientrò in camera e raccolse da terra il libro scivolatole dal grembo al primo squillo di telefono.
Le avventure del giovane S’aj le avevano tenuto compagnia per buona parte della notte.
Si tolse le scarpe e si mise un po’ più comoda sulla poltrona, chiuse gli occhi e lasciò vagare senz’ordine i suoi pensieri.
“Che strano nome, S’aj, come anche Albanna”.
In vero papà voleva chiamarla Alba, la mamma Anna, come la nonna materna.
Quel compromesso aveva finito per accontentare tutti, ma ad una condizione: – Nessun diminutivo! – Ed era stato così.
Solo suo fratello Alberto, che allora aveva quasi quattro anni, l’aveva ribattezzata “Banny”, come il peluche con cui andava ancora a letto, un simpatico coniglio bianco-grigio, simile a quello della serie dei suoi cartoni animati preferiti.
E per lui affettuosamente era rimasta ancora “Banny”, nonostante lo scandalo in famiglia e le successive dolorose vicende, che l’avrebbero allontanata definitivamente da casa.
“No, non ci devo pensare, se no me ne vado di nuovo”, si disse.
Così il libro fu riaperto da mani nervose che cercavano velocemente il segno, inseguite dallo sguardo di un paio di pupille dilatate nel mare grigio-azzurro di due iridi feline. – Occhi da gatta, infidi e bugiardi! – le diceva talvolta sua madre, quando con lo sguardo impavido la sfidava. – Occhi da miciona, sopra un musino furbo da coniglietto. – le faceva eco scherzosamente suo fratello, per prenderla in giro.
E il padre zitto, perché quegl’occhi erano teneri, timidi e fuggenti. Come i suoi.
“Che c’era in comune tra lei e il vagabondo S’aj?” si chiedeva ora in silenzio.
La solitudine, l’amarezza dei ricordi, forse le visioni notturne, divenute incubi ricorrenti. O quelle promesse di felicità improvvisa che ti attraversano la vita d’un tratto, come una stella cadente nel buio. O gli spettri della sua giovane incoscienza, che l’avevano spinta lontano da casa e poi lasciata cadere, perduta e smarrita, nel momento in cui tutte le sue belle illusioni si erano pietrificate per sempre, come il suo cuore.
Si alzò di colpo interrompendo il filo dei suoi pensieri e spense il lume a parete sopra la poltrona.
Il padre nel letto accanto si stava agitando nel sonno; lei lo guardò con infinito affetto:
“Papà, perché mi hai lasciato andar via? Non mi hai fermato. Mi hai guardato partire senza dirmi niente”.
Tuttavia dalla sua bocca non uscì nemmeno un suono, solo un sospiro accompagnò quelle mute parole che attraversarono il silenzio della stanza sino a infrangersi contro i vetri e a confondersi con la luce tiepida e grigia, che ormai entrava, discreta ma sicura, attraverso la grande finestra sul giardino.
Albanna inghiottì, e risentì quella morsa allo stomaco, come se qualcuno tentasse di premere dentro la sua cavità tutto il vuoto impersonale di quella camera d’ospedale.
Guardò con affetto il padre, il cui respiro alla fine si era fatto regolare e lasciò che i suoi occhi stanchi tornassero a quel libro, compagno della lunga notte, per correre di nuovo, estraniandosi, sulle illusioni consumate tra quelle pagine.
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