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In copertina: «Octopus» © Kirill Semenov – Fotolia.com
Prefazione
Il romanzo di Gerardo Passannante affronta la tematica assai complicata dei rapporti relazionali e sentimentali dell’essere umano attraverso percorsi di vita che si intersecano, sovrappongono e miscelano in un malstrom affettivo, dirigendosi in ogni direzione all’interno di una labirintica condizione esistenziale che diventa paradigma dell’esistere.
Nella complessa ed intricata trama, pagina dopo pagina, si riesce a mettere a fuoco il nucleo primigenio dal quale scaturisce l’intera commedia: le rappresentazioni sono sovente dettagliate così come le personalità dei protagonisti, che vengono passate al microscopio scandagliando le numerose mutazioni, metamorfosi sentimentali e pulsionalità, in un continuo susseguirsi di rimandi narrativi che traggono, ogni volta, nuova linfa vitale dall’ennesima esplosione dei sensi.
Il processo in divenire penetra nelle zone, spesso celate, dell’amore nella sua concezione più autentica ma anche nelle sue molteplici espressioni che sono difficili da comprendere, onerose da vivere e strazianti nel caso di perdita improvvisa: le ragionevoli corrispondenze tra i protagonisti del romanzo fanno i conti con le immancabili “assenze e presenze”, con le difficoltà del linguaggio dell’amore, con la criticità della dimensione relazionale che lambisce il territorio della stessa concezione dell’umano esistere, del significato del nostro Essere in questo mondo.
Gerardo Passannante alimenta la narrazione con studiata calibrazione e attenzione estrema alle caratteristiche dei suoi personaggi, insistendo sulle peculiarità delle loro personalità così differenti: e si capisce che fa muovere i protagonisti, all’interno di un dedalo di sentimenti, grazie alla grande passione per la scrittura che non dimentica mai di inserire, in modo sparso, alcune profonde riflessioni filosofiche ed esistenziali oltre a riferimenti classici che denotano conoscenza di ciò che si sta scrivendo.
Tutto sembra riconducibile ad una sorta di sindrome dell’amore che vive la sua esperienza progressiva, tracciabile in una complessità di interazioni con comportamenti ed evoluzioni, difformità e manifestazioni imprevedibili, che seguono fili narrativi differenziati e risvolti psicologici sui quali si può discettare a lungo.
L’interfaccia tra il corpo materiale e i sentimenti conduce al dato ultimo: “siamo unici ed irripetibili”.
Per rendere maggiormente l’idea della trama del romanzo corre l’obbligo di riportare un sintetico tracciato di ciò che Gerardo Passannante ha plasmato per far emergere la sostanza rivelatrice che potrebbe essere l’immagine idealizzata di una donna o altro ancora.
La storia prende l’avvio da quando Ugo, all’epoca del liceo, aveva conosciuto Linda: lei, straordinariamente ambigua ed ossessionata dall’idea di felicità, l’aveva conquistato con la sua dolcezza malinconica e con la sua complessità esistenziale. Il caso aveva voluto che anche Maurizio, il grande amico di Ugo, sentisse un debole per lei. Il destino però prende il sopravvento e, durante un viaggio in Svizzera, Linda si era innamorata di Giorgio, il fatidico colpo di fulmine. In quel periodo però Giorgio era impegnato a sostenere gli esami universitari e, dopo qualche contrasto, Linda era temporaneamente tornata in Italia ed aveva fatto anche una vacanza con Ugo, per ritornare, infine, da Giorgio e iniziare una relazione nel vero senso della parola. Lei aveva creduto nel grande amore ma si rendeva conto che non era felice con Giorgio: era cambiata e la sua tenerezza era diventata aggressività nei confronti dell’uomo che viveva con lei. Nella mente di Linda, in modo sempre più forte, dominava la consapevolezza che lei, in realtà, amava Ugo perché dimostrava di avere la capacità di scendere nella profondità della vita, sempre intento ad inseguire una visione di saggezza e propenso ad entrare nel mondo interiore. È inevitabile lasciare Giorgio che, comunque, continuerà ad inseguire il suo fantasma, infatti, non riuscirà più ad amare una donna e si perderà persino nell’idea “puerile” di tornare da lei.
Nel frattempo, Ugo, il “grande scrittore” non trovava conforto ma dopo aver conosciuto Elena si rendeva conto che davanti a lei, riusciva ad essere sincero e, per la prima volta, non si nascondeva dietro le parole ma si apriva all’universo dei sentimenti. Elena, che aveva già una separazione alle spalle, entra nella vita di Ugo, e grazie al suo aiuto, lui finisce di scrivere il romanzo che si fa testimonianza di una “straordinaria avventura dello spirito”.
Nel momento in cui Linda tornerà in Italia si avrà una sorta di totale ribaltamento dei ruoli, verranno in superficie le dinamiche segrete, fino alla constatazione finale alla presa d’atto che l’arte nasce dalla privazione: se il sogno si dissolve non resta che l’atto gratuito di esistere e si può riprendere a scrivere per testimoniare l’intricata commedia della vita nella quale si finisce per girare come trottole in una vertigine immane.
Gerardo Passannante naviga in questo oceano e conduce nel viaggio senza dannarsi l’anima di raggiungere ostinatamente una meta: perché potrebbe essere quella errata.
La verità non esiste perché è relativa ed è inutile cercare risposte perché tutto ciò che accade segue il suo ciclo naturale: a volte, la perdita implica la rinascita, la conquista il fallimento. La vita appare assurda e ci si rende conto di non aver mai vissuto: come beffati dalle sue tentacolari diramazioni, senza domande e incapaci di risposte, ci dirigiamo verso qualcosa che pare reale ma, in verità, è solo l’ennesimo miraggio.
Massimo Barile
Atto gratuito
PROLOGO
Un incontro casuale
Già aveva superato il capolinea e costeggiava il deposito dal lato sud, sfiorando la rete metallica che gli bagnava le dita, quando udì il primo tocco. Meccanicamente li contò tutti e dodici: e solo dopo, mentre la notte inghiottiva la città in un silenzio più irreale che mai, alzò gli occhi al terzo piano della palazzina di fronte. La mano tentò la chiave nella tasca del soprabito e la rivolse senza serrarla. Non restava che rientrare, mandare giù una pastiglia e non pensarci, se nemmeno al bar, dove aveva fatto l’ultimo tentativo, aveva colto una distrazione che gli desse un po’ di tregua. Per una bizzarra combinazione nessun conoscente era là, e dopo aver sperato di incrociarne almeno uno a cui dire due parole, se n’era andato con la convinzione che non poteva essere altrimenti. Sostò per un momento sulla soglia, e si ricordò delle volte che l’aveva fatto per altre ragioni: salutare un amico, chiamare un taxi, o fissare un appuntamento; passò in rassegna le facce che aveva scorto lì dentro; e poi, in un istante, lo sommerse una fiumana di luci e suoni confusi, di risa e persino di bestemmie; ma come se tutto si fosse svolto su uno schermo, e gliene restasse il ricordo senza il sapore. Scrollò la testa: ormai era così!
“Quanto mi resterà ancora? Cinquecento metri? Se faccio il passo un po’ più lungo potrò contare con una certa approssimazione… uno, due, tre… una vetrina… spenta! Se mi prendesse un accidente nessuno se ne accorgerebbe; anche l’ultimo tram è parcheggiato, e non trovi uno in giro nemmeno a cercarlo con la lanterna… Tutti spariti, stasera: dileguati per l’occasione… Ma sì, dormono i topi: o si godono la voluttà di un letto ben caldo e l’intimità di una donna, con un tempo del genere comprensibilissima d’altronde. Quanto all’aiuto che potrebbero darmi, sarebbe fatica sprecata: ormai col tempo non ci gioco più… Perché, l’ho forse fatto altre volte? Mi pare, sì, di averne perso, e spesso: anche se non mi sono mai chiesto seriamente cosa significhi; ed è senz’altro più facile convincersi di quanto esso sia relativo, piuttosto che rincorrere profondi significati nella realtà. Ma certo che è così, non mi giustifico: il perder tempo non esiste, perché un’azione non conta più di un’altra; come l’amore non splende più dell’odio né la bellezza seduce più della volgarità. Per questo balbettio di cellule chiamato vita vale lo stesso discorso, e a più forte ragione: ché escludendosi reciprocamente con la morte, non tollera una medesima misura. Vedo bene che il problema è futile, che il valore è una convenienza soggettiva; e fremo alla grande rivelazione scoccata nella cella del pensiero come ogni lampo di genio, mentre mi trascino per questa strada deserta. Le braccia scheletriche degli alberi danno un tono pertinente alle mie intuizioni, e tra tanta confusione tutto mi sembra ironicamente più solido, così che mi realizzo nell’atto meno stupido della mia fuga ingloriosa, contando i passi, senza preoccuparmi se vaneggio…
“Tre mesi! Sono solo tre mesi, giorno più giorno meno: e oggi è il sei novembre. Sarà per il ventuno febbraio, se la scadenza è rispettata. Qualche decina di giorni ingenerosi, ma che per ventiquattro ore quotidiane, pregne ognuna di sessanta minuti, e questi di sessanta secondi, sconfinano in un’enormità di attimi di cui faccio difficoltà a rendermi conto. E che sciocchezza, poi, la mezz’ora confusa di adesso sulle migliaia che mi aspettano a deridere la mia impotenza! Perché io, in tutta lucidità, la vedo avvicinarsi con passo sicuro: essa è là, a tre chilometri, e presto saranno due. Mi sorride beffarda, certa della presa, ed io la contemplo: non a tutti è concesso, non tutti la incontrano su un rettilineo… Ha fatto qualche passo e divorato lo spazio; restano ancora mille metri, poi saranno novecento, cinquecento, settanta, venti, tre, due, uno, e zac!… ma col silenzio che mi circonda, il buio, il freddo, davvero rischio di crollare nella via, qui, solo, indifeso… Ma no, non sono solo: quella è proprio un’altr’anima, e lì indugia un cane. Ci stiamo popolando? Il giorno si risveglia a salutarmi? Perché escono per la strada questi uomini che in fondo al loro orizzonte scorgono una barriera, un dosso, un ponte? E quel coso peloso e denutrito avrà sentito disgusto di carogna?… o forse hai percepito la mia pena e a modo tuo vuoi regalarmi un po’ di conforto? Vai, vai! Tu non puoi aiutarmi, ma i tuoi occhi sono tristi, e forse comprendono. Sei tu che mi cerchi nella tua bestiale leggerezza, così lontana dalla cristiana indifferenza di quel mio simile che mi ignora e scantona. Cammina adagio, è normale, lui nessuno lo insegue se non un pungolo da ubriaco; ma se anch’egli ha qualcosa da raccontare, trascorreremo una nottata indimenticabile…”
«Buona sera!» Giorgio si fece coraggio.
L’altro si fermò, indeciso. Aveva solo vagamente avvertito quella presenza, ed ebbe un moto di sorpresa. Poi si voltò e lo scrutò come se volesse comprenderne la totalità di colpo.
«Che c’è?» aggiunse.
Il blocco dello stupore impedì a Giorgio di stabilire se quella domanda fosse frutto della sua fantasia o se davvero fosse stata formulata. Ugo gli stava davanti in attesa, affascinandolo con lo stesso volto severo. Doveva essere di poco più giovane; e fu solo per questo che escluse si trattasse del conturbante personaggio della memoria cui lo rinviava quella diabolica somiglianza; ma risentì con fedeltà l’emozione che un uomo gli aveva causato in una stagione della sua giovinezza. Egli era soggiogato da quell’individuo dall’aria trasandata e l’espressione di una figura estranea alla terra; e lo osservava, ne spiava i gesti e gli scatti, un po’ persino innamorato di quel volto interessante. Ma al tempo stesso lo temeva inspiegabilmente si sentiva minacciato da un male che tuttavia da lui accettava con remissione. Se poi lo riguardava si calmava: l’uomo sembrava onesto; né valeva stargli lontano se la sua assenza era ancora più inquietante… finché una sera aveva cercato un posto nel bar dove Giorgio spendeva le ore sottratte allo studio.
Da allora quella presenza divenne un’abitudine, ed egli continuò a sbirciare quell’essere singolare, con le sigarette e una bottiglia, un fazzoletto al collo, la testa leonina e la barba incolta. Non parlava con nessuno né cercava compagnia. Osservava gli avventori con occhi gravi, come velati da una nebbia: tradendo uno sguardo inquieto ma buono, e il sorriso senza entusiasmo di un uomo non abituato alla gioia o bruciato da un tremendo castigo.
Una sera Giorgio era là e lo aspettava. Nel bar c’era aria di complotto: e con timore vide tre ragazzi sedersi a quel tavolo quasi riservato. I tre ridacchiavano controllando l’entrata, così che non ebbe più dubbi sulla provocazione. L’uomo comparve: scrutò la scena, e si impalò accanto ai tre che imbarazzati tentarono di ignorarlo improvvisando qualche spunto di conversazione. Ma quello restava rigido, mentre la commedia languiva e l’artificio singhiozzava. Giorgio non ne poté più, e sdegnato per la propria viltà si alzò per andarsene. In quello stesso momento, come preso da un risolutivo furore, l’uomo raggiunse l’uscita: e i due si incrociarono. Per la prima volta lo fronteggiava da vicino, e lo fissò arditamente nei grandi occhi irreali. L’atmosfera intorno era rarefatta; le voci e il chiasso soppressi; il tempo bloccato. L’uomo non batté ciglio: ma la bocca inclinò da un lato e le labbra abbozzarono un sorriso complice; poi con lentezza si volse, e uscì. Giorgio non doveva più rivederlo: l’uomo se n’era andato col suo segreto ambiguo, inumano, di quelli che monopolizzano il cuore, e lo incatenano alla memoria.
E ora, di fronte a un fremito analogo, forse a causa di quell’incredibile somiglianza, proiettò su Ugo tutto l’alone del suo mitico conoscente, e decise di vincolarlo. Ma l’altro sembrava impaziente; e Giorgio, congestionato dall’evento e al massimo della confusione, gli chiese sbrigativamente da accendere. Tanta freddezza lo rese fiero per un istante, e gli raddoppiò il coraggio di richiamare Ugo che aveva ripreso la sua via.
«Non ci siamo già incontrati noi due?» lanciò in tono persino spavaldo. L’asciuttezza di quel volto lo smontò, col rifiuto a qualsiasi tentativo di reminiscenza. Lo rincorse allora per la terza volta deciso a frenarlo, ora che quell’espressione seccata non tollerava più appelli. E non cercò neanche di ricomporsi, di conferire un minimo di portamento alla sua persona rannicchiata nell’inferiorità: ma, accentuando il patetismo fino a vergognarsene, assunse l’ebete soddisfazione del martire.
«Mi chiamo Giorgio Vani, e devo morire!»
«Anch’io, se è per questo!» sorrise Ugo per la bizzarria della frase. Ma fu questione di un momento. I suoi occhi ridivennero seri e fissarono quel volto tirato, come per scoprirvi una piega a prima vista defilata. Giorgio si ingannò sulla natura di quello scrutamento che giudicò arrogante, e vi colse compassione per il suo squallido decoro, che avrebbe però reclamato più disprezzo per ribollire d’orgoglio; ma era lontanissimo dal penetrare i pindarismi di Ugo: che, quasi a esito delle meditazioni, richiese quel nome di così evanescente costrutto.
«Come hai detto che ti chiami?»
«Giorgio Vani,» ripeté. «Ti dice forse qualcosa?»
«Vieni con me!» avanzò Ugo, e lo prese sottobraccio.
«E dove?» fu la timida protesta, che non seminava nemmeno un’ombra di resistenza, sedotta dall’invito.
«Non te ne preoccupare, lo saprai presto. Vieni!»
Un’improvvisa metamorfosi scolorò l’animo sovraeccitato di Giorgio. Egli aveva scorto Ugo e l’aveva trattenuto, desideroso di parlargli; ma quando l’aveva chiamato, quando gli aveva lanciato la frase rivelatrice, soffocando l’orgoglio con la tristezza di trascenderlo, non aveva realizzato ancora l’umanità di quel contatto. Invece ora, nel momento in cui si trovò in faccia un uomo che non lo pagava col disprezzo, scordò il suo patema e gioì di appartenere ancora alla vita!
Totalmente assorbito, Ugo trascinava la debole volontà di un uomo bisognoso soltanto di non essere solo e perciò parzialmente soddisfatto. Pure non era così che Giorgio aveva sperato di comunicare. Cosa si attendesse da Ugo non lo sapeva; ma mano mano che avanzavano sentiva crescere l’inquietudine, mischiata a un bruciore di aspettativa che alimentava l’ansia. Finché, allo sbocco di una viuzza scarsamente gratificata dall’illuminazione e sulla quale si addossavano abitazioni non immuni dalle intemperie degli anni, poté decifrare un’insegna e seppe di trovarsi in Via Mala. Quindi Ugo si arrestò a un portone preceduto da tre gradini bassi, puliti, e si scompose.
«Ci siamo!»
“Era ora!” replicò Giorgio mentalmente, grato e stizzito. I due restarono di fronte per un momento, incerti del passaggio; gli sguardi si impegnarono in una schermaglia di quesiti e fiducia; e Giorgio fissò arditamente Ugo nei grandi occhi irreali. L’atmosfera intorno si era rarefatta, il tempo bloccato. Ugo non batté ciglio ma la sua bocca inclinò da un lato, e le labbra abbozzarono un sorriso complice; poi con lentezza si volse, e spinse il portone. Con la carica di un automa che esegue un programma immutato, e quasi immemore di sé, Giorgio gli tenne dietro nel buio: mentre un novello tremore l’agitava all’idea che di lì a poco avrebbe finalmente fissato, nel suo tremendo rigore, il nemico che lo possedeva.
Ugo batté a una porta alcuni colpi convenzionali. Dei passi si avvicinarono: una donna aprì. La luce illuminò il corridoio colorandolo di un riflesso spettrale. La nuova figura indietreggiò per favorire il passaggio.
“Oddìo! Dove mi ha portato?!” intristì Giorgio; e si rivolse all’accompagnatore con fare interrogativo e deluso; ma una mano lo spinse, e si ritrovò in un’anticamera. Sulla sinistra distinse due porte: una semiaperta e l’altra adornata di un mazzo di chiavi; sulla destra un attaccapanni e ancora una porta. E davanti a lui una donna in vestaglia, con i capelli in disordine, gli occhi gonfi e due morbide pantofole, lo considerava con aria calma e materna. Ugo lo fece avanzare, mentre trasmetteva qualche parola all’amica; quindi lo invitarono a sedere, e fecero altrettanto.
Ritornato alla realtà, Giorgio avvertì tutto l’imbarazzo della situazione. Si guardò le scarpe, le mani, e poi ancora le scarpe… Come si odiava in quei momenti, quando gli capitava di fare così contro la sua volontà! Osservò i due che non avevano ancora aperto bocca, e Ugo sorrise.
“Meno male che questo lo sa fare!… Quanto a lei… è bella, sensuale, calda, ma mai come questa sera il pensiero di incontrarmi con una donna mi era stato tanto lontano…”
Improvvisamente Ugo si alzò e gli propose qualcosa da bere; poi, senza attendere la risposta, si assentò, seguito da lei. Giorgio li udì concertare; quindi ricomparvero con un vassoio che gli posero davanti. Un’ondata di calore gli attraversò il corpo e una tenera contentezza si lesse nei suoi occhi. Si guardò ancora le mani, senza capire perché una donna, svegliata in piena notte, invece di arrabbiarsi mettesse in moto la premura. Ma l’aria si era fatta respirabile, e a poco a poco il malessere che l’aveva oppresso cedeva all’impressione che non sarebbe potuto andare a finire in nessun altro luogo, come se ubbidisse a un ordine impartito da sempre; e ripensò alle parole di Ecuba:
“Figlia, vivere non è
la stessa cosa che morire:
alla morte si accompagna il nulla,
alla vita la speranza.”
E questa speranza, ora, gli si presentava sotto i panni di una solidarietà che ne prolungava l’esistenza al di là dell’atroce immobilismo di quella certezza; e Giorgio si rese conto che la vita poteva ancora essere interminabile, sbriciolata negli infiniti attimi del tempo interiore. Sentì che tutto era possibile, che essa gli apparteneva ancora fin quando permaneva anche una sola miserabile domanda irrisolta, un sospetto da sciogliere, un dubbio da appianare, un esito da conoscere; e provò un sentimento indefinibile per gli artefici della sua provvisoria rinascita. Seppe allora perché un uomo che muore non fugge la gente ma se ne nutre, e si aggrappa ai più esili pretesti: e così una maniglia, un cane, una vetrina, gli schiudono una corrispondenza quasi cabalistica. Se afferra con la mano o la fantasia quella maniglia, o segue gli annusamenti dell’animale, egli si attacca un po’ almeno alle forme sensibili del flusso che va: perché finché i suoi sensi o la sua disillusione tangono quelle forme, la vita continua. Fu dunque commosso dalla mistificazione di normalità che i due gli regalavano, e non fu solo nella sua paura. Ciò che contava era sfuggire all’inventario delle ore, per impedire alla coscienza di riacciuffare nelle profondità in cui tentava di sopprimerla quella scadenza da rispettare; e si sentì al riparo dallo spleen che la nebbia e i lampioni oscillanti gli avevano inoculato nelle fibre.
«Suppongo che tu sia stanco,» disse Ugo. «Per questa notte potrai dormire qui, se vuoi. Domani vedremo.»
La donna lo accompagnò all’uscio, e i due scambiarono ancora qualche battuta. Giorgio tentò di afferrare, invano, e in quel momento gli occhi caddero sul vassoio. Sporse la testa per specchiarvisi e quasi per leggervi un vaticinio, e per un istante si valutò problematico protagonista di un dramma.
“Il mio volto, i miei gesti, sono essenziali, perfetti; la recita è superba: tutti si complimenteranno per questa magistrale interpretazione e montagne di oscar mi subisseranno… Ma quando il sogno si infrange il grande attore che sono interpreta ben altrimenti la sua parte: e crolla il divismo e la mia eccelsa finezza, si dissipa il miraggio di un solo oscar, sono beffa la gloria e le congratulazioni, si appiattiscono le barriere della fantasia, ed io contemplo in quel metallo il mio smacco, e per così dire il mio destino…”
Si scosse. Ugo era scomparso e la donna, appoggiata allo stipite, lo considerava. Era mesta, ma una discreta provocazione emanava dalla sua persona, senza audacia, appena femminile. Giorgio ne fu turbato, e lei se ne accorse.
«Non sono stata divertente e neanche loquace,» gli disse. «Mi dispiace, in qualche modo vorrei poterti aiutare…» e un lampo le passò negli occhi.
«Non te la prendere, non è colpa tua,» replicò lui banalmente. Sapeva che le parole non contavano più, che ad altri segni era delegato il dialogo; e la natura lo catturò a quegli occhi, ai capelli, alle labbra. Prolungò la linea del seno ai ginocchi e sentì la voluttà confondergli il cervello. Le si avvicinò quindi tremante, e un attimo dopo l’abbracciò.
“Per questa notte ho dimenticato!” pensò Giorgio. “Domani riprenderò, e chissà come! Ma è certo che stanotte sentirò un respiro accanto al mio, che al risveglio troverò un altro corpo al mio fianco… Questa notte… e domani vedremo…”
Così pensava per sé, né poteva percepire le immagini che l’altra seguiva mentre gli ricambiava l’abbraccio. Ma se avesse potuto penetrare quella mente avrebbe scorto Ugo raggiungere la propria abitazione, soffermarsi sulla stanza dei bambini per controllarne il sonno come faceva ogni sera, scivolare nel letto, premere teneramente il corpo addormentato, per poi incrociare le mani dietro la testa e fissare lo sguardo nel buio, mentre un pensiero gli apriva il sipario:
“Giorgio Vani: che strana coincidenza! E lei, che ne è stato di lei…?”
SCENA PRIMA
Lo scatto del giradischi lo fece sussultare; e lentamente, fregandosi gli occhi, Ugo volse lo sguardo alla finestra e respirò l’aria fresca. Restò assorto per un po’, contrariato che un espiatorio senso del dovere lo trattenesse al tavolo coperto di libri. Sentiva che il gusto di studiare era spontaneo, e non se ne convinceva soltanto perché la scelta fosse libera da una circostanza penosa. Tuttavia, nei pochi minuti in cui la sua attenzione si fissò sulla strada, con in secondo piano il ronzio di quel conflitto, andò sempre più persuadendosi che l’indecisione era solo conseguenza della stanchezza. Gettò uno sguardo al disco fermo, si ricordò della polvere e si alzò per rimetterlo nella custodia. Quando ebbe finito, accortosi che la pienezza di quell’azione positiva aveva ceduto alla noia, si diede alla ricerca di un’altra impresa che oscurasse il suo malessere; ma non ne trovò, e si avvicinò alla finestra per guardare giù.
Era comodo osservare la gente per strada, interpretarne i segreti un po’ scherzando e un po’ con serietà; e grazie alla natura stessa dell’investigazione, alla frequenza e la perspicacia dei risultati, Ugo credeva di avere individuato alcuni rituali tipici nel comportamento e l’espressione, pur riservandosi la scappatoia di ricredersi all’occorrenza. Ed era proprio questa disposizione a confermare l’autonomia mentale e una capacità introspettiva non comune, ma dispensatrice al tempo stesso di smarrimento sociale e goffaggine. Ognuno possedeva una sua fisionomia, senza dubbio, ma quanti si rendevano conto del carattere profondo dell’alterità? Lui sì, lo sapeva: quell’occhio attento agli altri aveva sempre imboccato anche il sentiero del privato; la sua indiscrezione era partita da questa premessa su cui posava ogni indagine e su cui era vietato transigere, come si era espresso una volta con Linda.
Queste divagazioni semifacete avevano però spesso il potere di additare il punto di riferimento; ed ecco che scattava il paragone. Ed è così che quelle persone, sia che si fermassero a inventariare le vetrine, sia che aspettassero un bus o camminassero spedite, gli sembravano albergare una direzione e un volere, una presenza che inseguiva invano dietro i suoi atti: la molla della finalità, lo scopo. Lui invece si scopriva bloccato da una consapevolezza che lo inchiodava alla stasi, ma alla quale pure non avrebbe rinunciato; e tra la conoscenza e la felicità, se esse si escludono, avrebbe optato per la prima: perciò si sentiva autorizzato verso quella gente a un pizzico di tristezza paternalistica.
“Forse anche loro vanno allo sbaraglio come me, a dispetto della sicumera che involontariamente mi trasmettono, ma con un passo più deciso, refrattario ai cavilli in cui sgambetto invece io… Però può anche darsi che al solito prendo abbagli di «ugocentrismo» e non scorgo dietro ognuno di quegli individui, chissà, un cruccio più autentico dei miei sofismi, radicato nella concretezza del buon senso più che nella dinamica di una teoria che non riesco a controllare… Eppure l’invidia non mi calza, la mia apertura si vuole più umana di certezze troppo gratuite, anche se a volte è solo un palliativo per l’inettitudine. Io mi occupo di arte, di musica, di filosofia, e di una pletora di altre piacevolezze; e intanto non riesco a dare un esame, col dirmi magari che dopo la pausa al servizio della patria legittimamente annaspo. Sono uno scrittore, otiosus come un dio, che vomita quattro scene all’anno e rumina una manciata di combinazioni indigeste. Le mie idee sulla politica e sulla storia cominciano appena a schiarirsi, così che non mi comprometto con una realtà cocciuta per definizione, morso dalla tarantola di verità meno effimere… E vivrò sempre in attesa? Fino a quando rimanderò quest’impatto con la prosa di tutti i giorni, che dogmatizza bugiarde profezie e sintesi di emergenza? E come capire la mia epoca senza spulciare tra le ideologie, i conflitti, i movimenti di cui si nutre? E come valutarli senza risalire ancora a ritroso? Ma io non ho tempo per questo: devo scegliere per la mia età che ha fretta di sapere perché smaniosa di giudicare; e mentre mi sforzo di rimuovere una storia irrinunciabile per conoscermi oggi e sezionare il mondo in cui vivo, scivolo per distrazione in un passato più privato, sul quale solo, mitico atollo in un pelago di derisoria morbosità, s’acquieta l’irriverenza e l’ironia si spunta.”
Nato in una famiglia modesta di uno sperduto paese di montagna, Ugo ne conservava ancora i modi di «provinciale»: così come custodiva la nostalgia di un’intimità buona accanto al fuoco nelle fredde serate di neve, mentre il vento brontolava tra i vicoli bui; quando il timbro inimitabile della nonna animava la penombra di luminose presenze di fate e cavalieri insidiati da megere e briganti, come di fantasmi e diavoli; e sebbene qualche brivido ne agitasse i sogni, con la luce ritornava la libertà e l’esaltava l’avventura.
La morte della madre modificò il ritmo delle sue giornate. Ugo divenne muto e diffidente, ridusse i contatti ai pochi amici che gli testimoniavano una spontanea solidarietà, e disimparò il mercimonio delle convenienze o la leggerezza dei conversari. Ma in un paese in cui ognuno conosceva tutti, quel riserbo di difesa si caricava di provocazione; così che, tramontata l’indulgenza per la sua sorte, fu bollato di presunzione e insolenza, e alla solitudine si coniugò il dileggio. Pertanto, spinto dagli eventi e dal rigore di un’avventura interiore tesa a un indistinto bisogno di luce, si ritirò poco a poco in se stesso, sazio di amarezza, di sconsolati soliloqui e di esaltanti disamine con l’amico del cuore.
Nei loro incontri risuonavano parole gravi sull’uomo e il suo destino, sul dolore, la morte e su Dio. Entrambi convinti della stravaganza della condizione umana, ne inseguivano un senso e le leggi, spesso azzardando soluzioni di sorprendente maturità e appena inquinate dalla vanità che le inavvicinabili ispiratrici cedessero a tanta profondità. Ma le muse di solito restavano tali, e se talvolta li degnavano di un ammicco, un attimo dopo sfoggiavano la più glaciale albagia che li gettava nello sconforto. Ci scappò qualche notte insonne, con geremiadi e propositi roboanti: «Non voglio più vederla!» giuravano in un accesso di costernazione. E significava piantonare il giorno dopo per un grammo di grazia.
I nuovi impegni li divisero quando Ugo dovette trasferirsi in città, per iniziarvi il ginnasio con un austero senso di responsabilità. Sentiva che mai più sarebbe stato protetto contro la fiumana degli eventi, che fino ad allora aveva soltanto cullato una fantasia, se ora apriva gli occhi su un mondo stranamente severo. E mentre veniva portato via, quasi strappato al passato, uno sguardo fuori dal finestrino appannato per i primi vapori dell’autunno gli mostrò ancora una volta il profilo delle sue montagne. Si stagliavano nitide sotto il cupo del cielo nelle mattine ventilate di primavera; sfumavano nelle nebbie di novembre: ma dispensavano con puntualità il tepore di un’ancestrale tutela. Ugo le seguì deformarsi poco a poco; e nell’attimo in cui le scorse per l’ultima volta, già tanto straniate, gli sfuggì un saluto segreto, come un patto suggellato in extremis da una complicità definitiva.
Volse la mente al futuro ed ebbe un fremito: era soltanto il brivido della libertà che l’agitava, o quell’infida percezione di inappartenenza che l’aveva penetrato e ammonito? Per un momento non comprese e stette immobile a valutare; ma quando salì al viso fu turbato e sorrise: stava per diventare un uomo! Anche se lo scontava con un altro distacco. Asciugò una debolezza d’orgoglio, e si volse a guardare che fuori, intanto, la nebbia regnava sovrana.
La vita di città gli riserbò altre disfatte. Con l’età si accentuava l’esigenza di avere una ragazza e la frustrazione per gli insuccessi. Vedeva i compagni andare a ballare, eccitati, ma non sapeva risolversi a seguirli. Sperava ancora che una creatura onnicomprensiva e dolce gli cascasse in braccio in virtù delle sue magnifiche doti, che, invece di catapultarlo nelle sacrosante ebbrezze dell’adolescenza, lo folgoravano con le esemplari epopee degli eroi meno sanguigni che la letteratura gli insegnava ad amare. Più che nel vortice dello stordimento è in queste rivelazioni di saggezza, negli impersonali surrogati di una dolcezza sottile, che gli imporporava il volto un impegno di gloria. Sì, perché ormai sapeva la sua vocazione, anche se essa lo ripagava col tarlo dell’ambizione e il morso di un isolamento dapprima sdegnoso e poi implacabile.
Ma anche a costo della condanna che fatalmente colpiva il poeta, Ugo sentiva che questa gloria se la doveva meritare: occorreva studiare, discutere, osservare, con mente sgombra, acutezza di giudizio e precisione analitica, senza irretirsi tra le formule di comodo e le ricette collaudate, poiché l’arte era essenzialmente libertà e conoscenza; e se pure sconfinava nella tortura gratuita di un vizio depistante ed esigente, non tollerava di imbrigliarsi entro canoni di scuola. E fu così che l’esercizio curato per fatuità converse in una più sana voracità di bellezza. Ugo capì allora che la gloria non valeva una ricerca che si giustificava da sé, e che non importava dare alla vita la celebrità quanto un valore, benché spesso i due obiettivi si confondessero, e nessuna considerazione gli impediva di riservarsi un posto tra i venerati immortali. Occorreva però non esaurirsi in uno sterile solipsismo, ma rendersi utile, entrare nelle altrui solitudini e sostenerle col sentimento di una comprensione fraterna per il destino comune. Allora Ugo si affacciò sugli uomini, li osservò con occhio indiscreto, ne soppesò gesti e pose, ne scompose la magniloquenza in atomici balbettii e seppe che anch’essi si volgevano intorno smarriti.
SCENA SECONDA
Camminava senza meta tra i passanti che lo ignoravano, e ancora speculava su quegli individui prigionieri dei loro retroscena o delle passioni, eppure tanto spersonalizzati. Tra tali vertigini si lasciò andare su una panchina nel parco semideserto, benché la vita gli soffiasse alle orecchie un lamento di juke-box. Tese l’orecchio e intese la ragione di tanto strazio: una donna era sparita, sorda ai richiami, non diversamente da Linda, che pertanto gli si accampò davanti. Tentò di non badarci e di trarre vaticini dalla canzone, ma non si illuse sul ritorno della fuggitiva. Certo, sarebbe stato un trionfo, ma quale brivido in quello struggimento! Anche se ammetteva che lui la sua pena non l’avrebbe gridata così. Tuttavia quella voce gli comunicava una volontà di rivivere, una rabbia che non si riconosceva se non in avvinazzate velleità, ormai consunto di vegetare nella frigida tensione dell’intelletto; nauseato del risolino accademico e dell’anacronismo dell’età; e stanco, infine, persino d’essere quel grande scrittore che riteneva, e che poco a poco gli rivelava la propria aridità, quasi la cosa non lo riguardasse.
Si spinse nel bar e si ristrinse nella prima sedia libera in cui urtò, maldestro per la tensione di dominarsi. Inopinatamente ebbe caldo, e sillabò la richiesta con pena, scontando la sicurezza atteggiata all’entrata; ma si sventolò solo a convincere un eventuale curioso delle cause centigrade del suo rossore, non sapendo ingannare se stesso. Era importante superare quella fase per avere il coraggio di rimettere il disco che lo facesse sentire come gli altri, ma la gratuità dell’operazione lo frenava; la scarsa abitudine ai bar e l’esclusivo interesse per la musica classica lo costringevano a chiedere informazioni. Il prezzo era troppo alto per la sua fragile motivazione. Un sospetto di snobismo lo rannuvolò, immediatamente neutralizzato dal giudizio sull’inappetenza del brano. Tirò allora due sorsi per darsi contegno, ma l’onestà prese il sopravvento sull’amor proprio, e riconobbe l’artificio.
Quanto sarebbe stato più comodo ignorarsi e sbagliare! Egli poteva invece svendere tutte le pose che gli pareva, ostentarsi secondo le molteplici aspettative della società, ma mai riusciva ad abbindolare il segugio che alimentava. Pure, violentato dall’interno, non rinunciava al tentativo di domare quelle reazioni che non aveva autorizzato; pretendeva di controllare ogni atto consapevole, almeno, dacché aveva appreso che un universo sotterraneo lo tirannizzava, e se non sapeva penetrarne le ragioni più remote, sentiva l’obbligo di schiarirsi ogni aborto della volontà. Solo così poteva regalarsi la torpida illusione di non essere totalmente vissuto e di custodire un barlume di libertà.
Riprese a camminare senza itinerario tra la gente indifferente e l’aria appena più fresca, che già il cielo si tingeva di rosso e le ombre strisciavano lungo i muri della biblioteca comunale. Un tramonto non poteva lasciarlo indifferente dopo che tanti libri ve l’avevano preparato; un tramonto di fine estate, poi, sanguigno tra cirri, toccava il punto più nevralgico della sua corda crepuscolare. Un’immagine si presentò dietro un’altra; e senza scegliere, senza rifiutare, il tutto si condensò nella bellissima figura di Elena.
Si trattava di una conoscenza conturbante, pronta ad emergere nei luoghi più impensati con gli accompagnatori più diversi, e a sparire con altrettanta celerità. Non si salutavano nemmeno, ma a Ugo bastava incrociarla per scoprirsi risibilmente agitato; anche perché lei lo squadrava in maniera tutt’altro che neutra. Ma non aveva mai osato parlarle, bloccato da una tensione che gli faceva battere il cuore, e soprattutto dalla rassegnazione a uno struggimento senza ricompensa. Come sempre era il divieto ad acuire il desiderio; e il tormento dell’impossibilità gli riempiva la mente e la bocca di sequenze e frasi concitate, nella cui retorica il suo tumulto si placava… finché un giorno era stato audace: forse perché le mani si erano orientate (per caso?) sullo stesso schedario e lo choc non gli aveva concesso l’agio di riflettere; e le aveva balbettato un invito. Elena, indecisa e sconcertata tra la seduzione e l’impegno con Marco che doveva essere già là, sorrise materna, dicendo che aspettava qualcuno. Ugo sfoderò un commento aggressivo mentre voleva soltanto essere spiritoso; né valse a rimediare che poi si aprisse in una smorfia autoironica. Ma Elena insisté con tenace dolcezza, senza polemica, in un tono che voleva allontanare ogni dubbio, senza però scoraggiare Ugo che le ispirava una curiosa tenerezza.
Per Elena era importante che egli sapesse che non tergiversava civettevole, e valutava con istinto la portata di quel dettaglio, ma quel qualcuno lo aspettava davvero, anche se adesso sperava che ritardasse. Ugo però, cui quella perentorietà non aveva levato dalla testa che lei stesse giocando, e che dopo tanto ardire non sapeva decidersi a desistere senza scolorare di imbecillità, incalzò che potevano trangugiare in tutta fretta, e che quel fantomatico qualcuno avrebbe potuto aspettare un po’. Elena sospirò, e infantilmente allargò le braccia rassegnata, pensando che Marco poteva bene pazientare un momento. Né si sentiva colpevole per quei minuti che gli sottraeva per dedicarli a un altro che possedeva un numero non trascurabile di chances. Il pensiero che appena lo ingannasse la sfiorò sì, ma senza turbarla più di tanto: non solo perché si riservava il diritto a nuovi incontri – e l’aveva prevenuto più volte in proposito – quanto perché quella conoscenza le trasmetteva un piacere che minimizzava ogni critica.
Poco dopo, con davanti due bibite e un’Elena nervosa, Ugo considerava la lontananza di quello sguardo che pure lo catturava. E mentre la fantasia gli approntava deliziosi elisi, il buon senso lo scuoteva dal sogno. L’attitudine, l’agitazione, le parole di Elena, la somma di minimi segni, gli avevano infine insinuato che quel qualcuno esisteva, che non si trattava semplicemente di uno dei tanti paladini con cui era abituato a vederla, ma di un avversario temibile che presto sarebbe arrivato per prendersela davvero. E si ritrovò davvero impotente, ora che il nemico non andava più individuato nel suo ambiguo scetticismo o nella sua ludica timidezza, di cui poco si curava se credeva di poterli dominare, no; ora era in presenza di un ostacolo obiettivo, che forse aveva contribuito a creare per non esserci deciso prima, ma contro cui non poteva più niente. Questo ragazzo esisteva e lei l’amava! E quanto gli pareva divina Elena, mano mano che il dubbio cedeva a una certezza che lei stessa non conosceva: lei che tante volte aveva tentato di stabilire se fosse ancora capace di amare, tradendo una pericolosa disponibilità. Ma questo Ugo non poteva saperlo; e non solo si rifiutava di supporlo, al sicuro del suo magnifico pessimismo, ma nemmeno riusciva a intravederlo nelle allusioni della ragazza, che gli suonavano pertanto provocatorie e beffarde. Ormai nemmeno quella malia poteva catturarlo più con l’evidenza, che l’amarezza traduceva in derisione; e anche se riuscì ad essere urbano, non seppe controllare una vena di ostilità che gettò l’altra nell’angoscia.
Elena, poco abituata a simili rinunce, ripensando a Marco che forse aspettava si sentì invadere da una dolcezza dolorosa e fu sul punto di piangere. Sapeva di avere accettato con la speranza che una parola o un invito la mettessero nella condizione di rivedere Ugo, ma anche sotto il proposito che mai quella parola o quell’invito sarebbero venuti da lei. E sentiva crescere l’agitazione nel vedere i pochi minuti scadere senza che egli abbozzasse alcuna manovra in quella direzione. E quando fu certa che neanche ce ne sarebbero state; quando le convinzioni più o meno arbitrarie dell’altro ne inacidirono i commenti, si alzò per uscire. Desiderò che egli la trattenesse: sapeva che si sarebbe fermata, anche se il volto di Marco non fletteva più col suo sguardo carezzevole. Ma Ugo non le rivolse che un saluto abbastanza formale perché lei non ne indovinasse tutto il rancore; e confusa e affettata lo lasciò. Ugo restò inebetito e scontento per la sofferenza e la cattiveria, e le inviò mentalmente un addio risentito.
Ed ora era là a carezzarsi quel suo idillio dolciastro, mentre imboccava Via Mala, notorio feudo di «proprietarie di corpo» che gli trasmettevano una blanda pietà. Non vi era entrato di proposito, ma quasi trascinato dai passi, come udisse un richiamo. E molti anni dopo ricordava ancora come quella sera ne aveva ricevuto un’inspiegabile buffata di calore umano, forse anche di vita che si sgretola, ma che non fa paura perché il vicino dà coraggio. Una vita forse miserabile, quella, ma di una miseria che non invidiava al benessere, paga di se stessa, delle sue leggi, del suo corso: rassegnata al domani e al più grande flagello. Era forse l’autonomia di quella vita a toccarlo, la sufficienza di un’esistenza dominata; ed egli se ne commuoveva, cittadino oscuro e nemico, in un’adesione sentimentale ma non sociale, e pertanto inopportuna.
Notò soprattutto una biondina dal volto delizioso. Con la borsetta in spalla, un piede e la schiena contro il muro, metteva nei suoi gesti un’audacia forzata. A un metro da lei tre gradini bassi, sporchi, ospitavano una grassoccia matrona. Spettinata, le labbra e le ciglia indurite, le cosce prodiganti un misto di cellulite e di calze, dipingeva con disinvoltura ai passanti le meraviglie della mesta adolescente che sembrava ignorarla.
Temendo di essere interpellato, Ugo scantonò. Ma sussultò nel sentirsi chiamare per nome; e voltandosi si scontrò con l’espressione mansueta di una ragazza carina, mentre Maurizio festeggiava l’incontro con sonore pacche sulla scapola.
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