Cap. 1
L’ASSENZA del FONDAMENTO. I PARADIGMI
della TEMPORALITA’:
il “TEMPO IMMAGINARIO”
Il pensiero filosofico, la ragione classica sono stati costretti ad abbandonare le “grandi narrazioni” di fronte alla “nuova” scienza; ma, solo con Heidegger, la natura (=fusis) ha in sé la stessa essenza del “chaos”: si è in presenza di una visione del mondo governato dall’assenza del fondamento o da una temporalità caotica (=wildniss).
L’ordinato, il lineare, lo stabile, abbandonano, con Heidegger, la filosofia.
Nel pensiero calcolante si eventua l’indicibile, l’impredicibile. Sul versante scientifico: da Euclide ad Hilbert, al fondo della scienza matematica, c‘è stata la speranza di poter decidere sulle asserzioni concernenti i numeri interi se fossero vere o false.
Con Gödel, nel 1931, il disegno hilbertiano va a gambe all’aria.
Il teorema gödeliano mostra che ci sono asserzioni formulate in modo esatto per le quali non si può mostrare né che sono vere né che sono false: c‘è incompatibilità tra rigorosità e completezza.
Il teorema di Gödel è il grimaldello della “crisi della ragione”, dei fondamenti, del soggetto.
La crisi dei fondamenti è ancora presente nel futuro della mathesis, ma nessuno si è inoltrato nel sentiero interrotto della crisi della fondatezza della matematica.
La noematica godeliana ontologica annulla le paradossalità categoriche della metafisica influente, ininfluente ed eventua il sentiero della sinestesia con il pensiero poetante.
L’ontologia godeliana può essere in sinestesia con il pensiero ontologico poetante, quale grund, fondatezza.
La singolarità della prova ontologica godeliana, disvela l’essenza della fondatezza metaontologica in relatività con la poiesis.
La noesis si getta nell’abgrund, nell’abisso dell’essere, oltre la metafisica influente.
La sinestesia tra il pensiero ontologico e l’ontologia godeliana della mathesis eventua la disvelatezza della verità ontologica.
Di fronte al “knowledge” ed al “general intellect” non si impone più la semplice energia (=argon”) esclusa da implicazioni intellettive.
Nasce l’intelligenza “altra” vale a dire in possesso di sapere-sapienza, avviene così il passaggio dall’“argon” alla “technè”.
Il “knowledge” non appare più subordinante, coercitivo, ma suadente, giocoso, seduttivo, pervasivo: la sua pervasività si insinua in ogni aspetto dell’esistenza: istituzioni, cultura, scienza, immaginario.
Il potere immateriale ed i sistemi informatizzati creano quella “differenza” che farà implodere, tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, interi paradigmi culturali.
Sia la filosofia, sia la scienza ma anche la letteratura (Proust) nell’ultimo secolo hanno affondato lo sguardo sul problema del tempo.
La classica visione del tempo procede per spostamenti progressivi e lineari: di Bergson è la nozione del tempo fondata sulla metafora dello srotolamento del passato verso il rotolamento del futuro; di Heidegger, la metafora del “sentiero” che sale sulla montagna: si passa dall’immagine bidimensionale ottocentesca del tempo ad una tridimensionale.
Ma è Hawking che, per la prima volta, ci fornisce la possibilità di calcolare una temporalità non lineare e quindi ci dischiude una visione della temporalità “altra” dai paradigmi delle narrazioni ottocentesche, con la teoria dei “numeri immaginari”.
In ogni forma della comunicazione dilaga un’espressione: “caotica” come sinonimo di coacervo di fenomeni, di situazioni instabili e conflittuali, di assenza di certezze e finalità.
Forse il “chaos” è compresente in tutto l’universo ma risulta ancora incomprensibile al sapere codificato.
Il “chaosmo” joyciano e lo “zeit-raum” di Mozart potranno, come si vedrà successivamente, essere utili strumenti di lavoro, per disvelare al pensiero poetante, ma anche epistemico, l’evento dell’essere che si dà dal nulla.
Se, nel mondo post-moderno, filosofia e ricerca scientifica rimettono in discussione la ragione classica, la possibilità di misurazione dai “frattali” di Mandelbrot alle “catastrofi” di Thom, al “dadaismo epistemologico” di Feyerabend fino a Medawar per il quale “non esiste un metodo scientifico” e lo scienziato è uno che “racconta storie” è inevitabile un ritorno al “mythos”.
Il mito “ha abitato tra noi” e come gli dei ci ha lasciato, oppure può essere ancora principio attivo del pensare?
Giorgio Colli dispiega l’interpretazione nicciana di mito e “logos”: soprattutto negli inediti conservati nel Fondo degli eredi:al di là della differenza canonica tra dionisiaco ed apollineo, per eventuare un nuovo chiasma mitico.
“Cose senza riso, né ornamento, né unguento la sillaba, con bocca folle, dice”, il frammento eracliteo non sembra oscuro: la sapienza origina dalla “mania” (da: mantica=arte della divinazione).
Apollo “l’obliquo”, dall’occhiata che conosce ogni cosa e con la parola che “non dice né nasconde ma accenna”, comunica all’uomo la sapienza.
Il mito si eventua dalla fonè, dalla mistica voce della divinità che si getta nella fondità.
Il dio “parla per enigmi” e l’enigma, coessenziale alla divinazione e alla sapienza, è sempre crudele e tragico infatti “risuona dalle mascelle feroci”.
E l’enigma si eventua, anche attraverso i paradossi del logos, dell’eristica, dell’indicibile.
La sapienza, la conoscenza si manifestano attraverso l’enigmaticità apollinea (non nel senso nicciano): la parola “ama nascondersi”. G. Colli ci svela il chiasma enigmatico e mistico del mito che si dà quale essere che si eventua senza canone e senza fondamento.
La parola (il “logos”) tesse trame in cui può perdersi Teseo nel labirinto che è già simbolo del “logos”. “Logos” e (è) parola sono inganno, insidia, perdizione così come, ricorda Eraclito a proposito di Omero e dei pescatori, è inganno l’enigma; anzi, la sua anfibologia si disvela nella metis e nella sofia e si eternizza nell’icona.
Contro l’uomo sono tese l’arco e le parole di Apollo che “si slancia” “sfrecciando veloci pensieri”: è il dio che si eventua senza essere né evocato né immaginato, giacché il divino si dà, è, c‘è, senza perché.
La parola, attraverso cui il dio manifesta la sapienza, è collegata alle frecce; Apollo è “colui che agisce, colpisce da lontano, distrugge totalmente”: parola, sapienza, distruttività e crudeltà del dio sono strettamente intrecciate.
La preesistenza, il pre-esserci dell’evento che si dà prima della differenza tra ordine, armonia e disordine, chaos.
La parola, il discorso, appunto il “mythos” in Omero sta anche per progetto e macchinazione.
Il “logos”, elaborazione razionale, contrapposto a “mythos”, nasce col passaggio dall’enigma alla retorica, dal mistikòs all’epistemico, dalla gettanza della metis alla fondatezza ideale dei modelli poetici.
La mutazione del “logos” originario (=un discorso, appunto un “logos” che accenna ad altro, vale a dire allo sfondo divinatorio) si completa con la scrittura e soprattutto con la letteratura filosofica di Platone.
Givone nel corso di Perfezionamento in Epistemica Ontologica, ci ha disvelato come, nella ermeneutica della Verità o Disvelatezza o Aletheia della Radura, la “sofia” si sottrae: nasce la filosofia.
Forse nell’ontologia e nell’ermeneutica del mito della verità o nella disvelatezza del mito del logos c‘è la differenza ontologica tra la verità epistemica, la verità ermeneutica e la verità ontologica.
Esaustiva l’interpretanza di Givone: in ogni verità fondamentale c‘è l’abisso, c‘è la fondatezza abissale dell’Essere che si eventua nella poiesis e nel mito e si dà quale ontologia strutturale della verità o struttura ontologica della disvelatezza nella physis, nella mondità, nell’icona, nella phonè, nella psychè.
Né si sa di più del cos‘è. Lo spazio vuoto o la radura, lo spazio sgombro o svuotato dagli enti, anche dalle entità in sé e per sé, la pianura platonica, disvela l’ontologia della verità dell’Essere, dell’Essere nella physis, dell’Esserci nella natura e nella mondità.
L’interpretazione nicciana del “mythos” e del “logos” è stata rovesciata da Heidegger: “la filosofia non nasce dal mito. Essa nasce dal pensiero”.
Ambiguità, duplicità, compresenza di significanze nella parola “mythos”.
Il percorso: “mania” – sapienza – enigma – labirinto e “logos” porta alla “Signora del labirinto”, ad Arianna, la donna-dea che salva Teseo.
Il filo del “logos”. Ma quale “logos”?
Ma nel contempo la gettatezza dell’essere è sub-sidente ad ambedue.
Questo il percorso etimologico heideggeriano: “mithos” significa: parola che dice. Voce misterica della divinità che si eventua nella metis, nella poiesis.
Dire per i greci significa: manifestare, far apparire ciò che è. “Logos” significa la stessa cosa”.
È l’essere o il suo evento mitico che si dà quale mistica della poiesis, della metis,dell’eristica.
“Logos” da “leghein” sta per “raccogliere, accogliere, parlare”: in greco: parlare significa “far comparire, lasciare apparire qualcosa nel suo aspetto”.
Anzi il senso è ancora più profondo: raccogliere ed accogliere la presenza dell’essere che si eventua.
Il significato originario dell’“essere” si coglie in una radice dell’etimo: bhu-bhue=schiudersi, imporsi, predominare; da qui “fusis-fuein” (“fui”, latino).
“Fusis” è “ciò che sboccia da se stesso (come ad esempio lo sbocciare di una rosa) cioè il dispiegarsi aprendosi ed in tale dispiegamento “fare apparizione”.
Ancora due radici: “fu=fa” servono a ribadire il legame «“essere” – “fusis” – apparire – “fainestai“».
E, l’“essere” (=“einai”) sta per “venire-a-manifestarsi-dentro l’ambito di ciò che è disvelamento, e, apparendo così, durare e dimorare”.
Heidegger parla di coappartenenza di “essere” e “fusis”: “essere” e pensiero coincidono e l’“essere” che appare (=“fusis”) porta con sé il raccoglimento, (“logos”).
L’oblio della coappartenenza di pensare ed “essere” produce la perdita del senso originario del termine “logos” che viene così considerato solo come “discorso, proposizione”.
La ricostruzione di Colli, sia pur con l’innovazione, rispetto a Nietzsche, di Apollo come dio dell’invasamento e non dell’armonia, non pare sufficiente.
Le radici del mito sembra vadano ricercate altrove: nell’entousiasmos, nell’essere abitati dal mito e dal mistero che si eventua nel mondo e nell’essenza dell’esserci.
Per parafrasare il filosofo: cos‘è il “logos”, nell’“abisso senza fondo”, nell’assenza del fondamento, nel “ab – grund” che costituisce l’“esser-ci”, in cui l’“esser-ci” è gettato?
In breve: cos‘è la razionalità nella crisi del fondamento e nel trionfo della “techne”?
“Logos” e “techne” prevalgono veramente sul mito o sono solo una sua singolarità?
In questo tempo segnato dal trionfo del pensiero tecnico: dove si è nascosto il “mythos”, cos‘è il pensiero, la conoscenza, il “logos”?
È temerario forse affermare che l’interpretazione del mito si intreccia alla riproposizione della questione della natura?
Il mito sembra cooriginario, coessenziale alla natura ed avere la stessa essenza strutturale della “fusis” (forza che cambia e trasforma) più che quella della “hyle” nel senso proprio del termine di “materiale per costruzione”.
L’interpretazione del mito implica una ripresa del concetto di materialità inteso però come interpretazione della sua origine, della “fusis”.
Non un materialismo della “hyle” ma della “fusis”, un oltrepassamento della materialità verso l’immaterialità.
Intanto la crisi del “logos”, della “techne”, delle grandi narrazioni sembrano indifferenti alla temporalità “immaginaria” del mito in quanto questo non si impone al mondo come un “epistéme”.
Siamo “gettàti nell’enigma”, nel “próblema”: un ostacolo da superare, una sfida da raccogliere ma anche siamo “gettàti” nella “formulazione di una ricerca”.
Per parafrasare Heidegger l’“esser-ci” è “gettàto” nell’“ab-grund”.
L’“ab-grund” costituisce l’“esser-ci”. Siamo in “esso” ed è “da esso” che bisogna partire: dall’“abisso senza fondo”.
Se “il linguaggio della metafisica non poteva servire” ad Heidegger, a noi serve fino in fondo il linguaggio heideggeriano?
Non possiamo dire, con Heidegger, che “tutto” deve “capovolgersi”?
La domanda fondamentale (=“grundfrage”) è allora. “qual è il senso del “logos” nella crisi del “grund”?