MONOLOGHI
UN VOLONTEROSO IN BUONAFEDE
Spendo due parole parlando a me stesso, non è un male purché non diventi un vizio. Piccolo uomo qual sono, nell’imbarazzo più di una volta riguardo alle cose da dire confesso di aver usato, per fortuna non molto di frequente, parole e locuzioni di questa lingua senza conoscerne il pieno significato.
Però fino ad oggi non ho mai usato il termine chiorba, poche volte incontrato in pagine scritte, quasi mai sentito pronunciare oralmente, e di cui lì per lì ho potuto cogliere un significato piuttosto vago. Ne sono venuto al corrente leggendo articoli di giornale, a proposito di un giornalista toscano che usava questo termine come soprannome per riferirsi confidenzialmente a qualche collega di redazione.
Così ad occhio e croce la parola mi era sembrata piuttosto pungente, com’è a volte l’ironia dei toscani disinibiti, che si direbbe non soffrano di nevrosi lessicali.
È solo da poco tempo che mi è venuto in mente di sincerarmi sul preciso significato di questo termine, cercandone le varie voci in un dizionario d’italiano. Chiorba è un vocabolo che nella parlata toscana esiste già da molto tempo. Deriverebbe sia dal latino classico corbis (cesta), sia soprattutto dal latino popolare corbula, in italiano corba, una cesta sì, ma di una specie particolare. In linguaggio allusivo chiorba significherebbe o almeno avrebbe significato anche testa, generalmente pensante.
Testa pensante, e quindi chiorba, sono anch’io che dico queste cose. Testa pensante qualche volta anche più del necessario. Meglio, molto meglio se ora avessi qui, seduta al mio fianco per condividere o commentare le mie riflessioni, una brava ciospa milanese che non rivedo da più di due settimane.
Ecco un’altra parola su cui varrebbe la pena soffermarsi. Che cosa significa, di preciso? Tenendo presente qualche termine con affinità foniche si direbbe che, a parte l’antico indio chuspa (foglia di coca da masticare per tenersi su) e il bellunese ciaspa (ciaspola), racchetta da neve che in coppia va agganciata sotto gli scarponi per fare camminate sulla neve, la parola in oggetto venga pari pari da un recente, identico romanesco ciospa, dove è sinonimo di stoppino e poi di sigaretta. Anche qui allora ci troveremmo di fronte ad uno spostamento di significato nell’uso della parola.
Ciospa è la mia amica e confidente, di nome Graziella, che guarda caso fuma delle sigarette. Non è una gran bellezza come donna ma l’ho voluta chiamare così perché fuma, e poi con una punta d’affetto. Un affetto piuttosto tiepido. Più che un rapporto affettivo autentico il nostro è diventato una routine amicale, quasi asessuata, basata più che altro su interessi culturali.
Questo è il primo messaggio importante che voglio comunicare. Avrei intenzione di dire delle cose che abbiano un senso, non so ancora quale, ma che facciano riflettere. Andando a pescare in quel marsupio di emozioni, sentimenti ed idee che è la mia coscienza vorrei esprimere delle considerazioni suggerite da un rapporto di comunicazione tra un chiorba e una ciospa o, per dare la precedenza al gentil sesso, tra una ciospa e un chiorba.
No, non sono contento di come stiamo andando, in nome della salute fisica e mentale di entrambi. Pure debbo tirare avanti, riflettere in vista di arrivare a una migliore impostazione del rapporto. Mi trovo in un clima quasi di stand-by. Quando arriverò ad un momento significativo nei miei pensieri vorrei che potessero diventare, se non proprio soddisfacenti, per lo meno non sgradevoli.
Guai a perdersi in troppe fumisterie – il potere educativo delle lettere! Penso che le cose cambino se riesco a rendere questi stati d’animo del tutto comprensibili, non vane bolle di sapone.
Sono uno dei tanti prof di lettere e non posso escludere che, data la mia personalità, in questo momento io stia pensando anche ad appunti per una lezioncina. Però debbo dire che la visuale da cui sto osservando la realtà non è molto buona e consente solo qualche scorcio sul mondo: è come guardare spiando dietro le tendine di una finestra verso due finestre che stanno dall’altra parte di un cortile, per capire che cosa succede all’interno di un appartamento sul quale è polarizzata la propria attenzione.
Con tutta la migliore buona volontà sono impedito, in un’osservazione nitida e completa, da molti ostacoli. Debbo dare quindi molto spazio alla fantasia e alle congetture. Debbo servirmi delle lenti dell’osservazione episodica, non continua, in ultima analisi della fragilità speculativa.
Mi do da fare per non cadere in una mentalità pericolosa, quella del malcontento e delle lamentele irrimediabili. Il filo conduttore di questo che si avvia a diventare il mio discorso e che potrebbe essere intitolato “la critica rispetto al narrare storie e alla poesia: comunicazioni connotative”, può comportare questo rischio. Bel tema ma non esente, appunto, dai pericoli della boria parolaia.
Sto avvicinandomi ad una delle tante facce di un mistero culturale, diciamo così, presente non solo nella vita, ma anche nella letteratura che la esprime. Mi chiedo se non sia giusto a questo proposito parlare di misteri collaudanti riguardo a fatti più o meno letterari.
Fesserie, verbigerazioni? Penso che qui non ci sia tanto da scherzare. Al riguardo un brand intellettuale come la Chiesa cattolica, che da due millenni si occupa di misteri, ha preso chiare posizioni, in via generale mettendo in guardia da un consumismo eccessivo.
Un argomento questo meno noioso, forse, di quanto si possa immaginare, anche nei primi anni del Duemila. Sono ormai entrato nel gran mondo dei libri, di chi li scrive e di chi li stampa e dunque mi posso ben chiedere se è più significativo e coinvolgente il lavoro del critico, accademico o militante che sia, oppure se il lavoro del poeta e del narratore è quello che più facilmente “prende” e fa discutere la gente. Razionalità e giudizio contro creatività e immediatezza: una questione antica di molti secoli ma emersa d’impeto tra il ’600 e il ’700, ai tempi di Ludovico Antonio Muratori e Gian Vincenzo Gravina, e tra gli altri anche del razionalista cartesiano Gregorio Calopreso, calabrese d’ingegno che scriveva in un ampio dibattito fra teorici e letterati su questioni estetiche e critiche.
Per quanto semplice o anche semplicistica possa apparire questa distinzione riconosco che in essa, almeno, c’è la consapevolezza di una questione importante, oggi forse anche più di ieri. E direi di far bene a ricordare, a questo punto, il consiglio che mi ha dato un collega affermato quando ero appena agli inizi della mia carriera di prof: prima di raccogliere dei frutti bisogna dare dare e dare, e poi arriverà il tempo in cui si riceve.
Mi soffermo un momento a ponderare l’aspetto che è venuto assumendo il problema. Discutendo di libri, del loro mercato e della loro fortuna potrebbe essere facile perdere il filo del discorso. Ma andiamo avanti, chissà che non mi vengano in mente considerazioni più proficue.
Adesso si presenta un punto da verificare: uno scrittore o un poeta, se non ci fosse un critico bravo che si occupa della sua opera valorizzandola e prospettandone un interesse in un certo territorio, difficilmente verrebbe considerato grande autore, anche se effettivamente lo è. Voglio dire che ciò che conta davvero è un lancio editoriale importante, lancio che nella normalità delle cose non si può fare senza le garanzie della critica. Analogamente un critico, per bene impostato e lucido che sia, difficilmente potrebbe fare strada, divenire influente e condiviso, se non avesse forti approvazioni e lettori impegnati che lo segnalassero per la sua lungimiranza. Ed esistono, com’è noto, critici-scrittori e scrittori-critici. Sia gli uni sia gli altri si differenziano certamente, non solo per la qualità della loro intelligenza.
Nel valutare una produzione d’ingegno letterario, bisogna guardarsi, come certo anche in altri campi, dal compiere degli svarioni. Oggi più che di gente affetta da originalismi ad oltranza c’è bisogno di gente che sappia capire. Non c’è forse un fondo di verità qui? Ragionando in termini di popolarità, un romanzo o un libro di varia narrativa e talvolta, sebbene più raramente, un libro di poesie (raro a trovarsi se deve essere bello), presentato in una suggestiva veste tipografica ha molte più possibilità di piacere al pubblico che un libro di critica. A meno che non si tratti di un’opera di grande interesse, gradevole e chiara, non pesante, da far leggere anche agli studenti delle scuole.
Un libro di letteratura creativa, com’è noto, può essere ridotto in film, in sceneggiato televisivo o in testo teatrale. È evidente allora che uno scrittore fortunato può raggiungere molta più popolarità di un critico anche geniale (soprattutto se ritenuto geniale perché vicino alle classi eminenti, quelle che ci hanno sempre tenuto a proteggere letterati, artisti e uomini di cultura).
Le differenze maggiori tra le due forme di scrittura, creativa e critica, stanno nel contenuto, nell’uso della lingua e del punto di vista e nel discorso che vogliono incrementare. Parlo secondo la mia esperienza, so di aggirarmi in un territorio dove, se per caso si sbaglia un passo, può darsi che si metta un piede sopra una mina capace di far saltare per aria tutto un ragionamento. E questo è solo il tentativo d’impostare un problema. Spostando il di-scorso dai prodotti cartacei a quelli sul web, andando a vedere sui tanti siti e blog, le cose come si può immaginare diventerebbero ancora più difficili.
È indubbiamente vero che bisogna saper distinguere e valutare senza ipocrisie. La soddisfazione che un serio lavoro critico può dare ad un lettore che s’impegni a leggerlo sta nel suo ordine interno, nell’attendibilità specifica che lo ha prodotto, nella sua non troppo sofisticata validità metodologica, nella sua fruibilità pratica non solo in una determinata stagione culturale.
Ma si è pensato, ed è anzi largamente noto, che anche un critico, essendo capace di vedere in un’opera aspetti talora impensati, può andar a finire nell’estetismo. Oggi come stanno andando le cose?
Occorre ricordare che questo interrogativo viene posto nell’era della pubblicità e che in questo campo è già stato scritto molto, secondo molteplici angolature, alcune delle quali porterebbero a bocciare la distinzione del primato tra critica e letteratura creativa. Con la seguente motivazione: non porta a risultati plausibili nella sfera del pensiero, viste le tante eccezioni che ci sono da una parte e dall’altra, e considerate le ambizioni, nel mondo odierno, di un giornalismo rampante che produce sempre nuove testate, tutte tendenti ad espandersi, e la presenza di tante web-comunicazioni e dibattiti.
Tuttavia resta il fatto che le doti di profondità, di consapevolezza delle problematiche odierne, proprie di un critico, sono requisiti non necessariamente richiesti in un narratore o in un poeta. Qui starebbe il vero valore di un critico. Difficile quindi dire, in termini di domanda e di offerta, se oggi ci sia più bisogno di poeti, narratori e creativi, oppure di critici. Soprattutto se si considerano le ragioni di coloro che si chiedono dove va a finire il mondo, se si continua così, e se quella che ancora si chiama scrittura creativa è un’arte che abbia ancora un futuro.
[continua]