UN GIORNO DI PIOGGIA
Il maestro stava alla finestra. Quando il maestro sta alla finestra ad osservare la pioggia, possono esserci due motivi: o pensa a qualcosa di serio o non pensa a nulla. Quel giorno guardava la pioggia e basta.
Quando Sakiko entrò nella sua sala, il maestro senza voltarsi le disse:
– Vuoi venire con me a camminare sotto la pioggia? –
– Sì maestro, ma come mai vuoi inzupparti di acqua? –
– La pioggia pulisce i pensieri, affoga le tensioni, potrebbe essere utile. –
I due scesero e si incamminarono lungo il viale alberato, sotto la pioggia battente.
– Maestro, io credo di essere cambiata molto in questi anni, sono molto più riflessiva, più accorta alle parole che pronuncio, ma chi mi sta intorno non è così, anzi è sempre peggio, più volgare e presuntuoso ed io quindi soffro più di prima. Qualche tempo fa non mi accorgevo di certe piccole crudeltà, di certe piccole ferite che anche solo un tono di voce può provocare. Oggi purtroppo la maggior sensibilità acquisita mi fa star male, molto più male di prima. –
Il maestro si fermò.
– Ieri il mio capo ufficio era nervoso e mi ha umiliata apostrofandomi in presenza di alcuni colleghi in modo duro e scontroso, aggiungendo pure che io non capisco mai niente. –
– Comprendo Sakiko. Come sotto la pioggia, la tua sensibilità deve essere vestita nel giusto modo.
Impara a vestire la tua sensibilità. Se oggi non avessi avuto questa cerata, ma un maglione di lana saresti scesa con me a passeggiare? –
Sakiko, rispose di getto:
– Certo che no maestro, sarebbe stato stupido. –
– Bene, questo sarà il primo passo necessario. Poi hai anche una immagine da difendere, vero? –
– Maestro, anche se mi sto spogliando del mio ‘io’, essere insultati così non è bello, poi in pubblico… –
– Chiaro, allora farai come sul tatami: la violenza e la prepotenza si combattono nello stesso modo, con fermezza e armonia. Tanto che quelle parole rimbombino nel cuore di chi le pronuncia, non nel tuo. –
– Maestro, sul tatami ho imparato a muovermi, ma c’è voluto del tempo. –
– È ben più tempo che cammini sulla terra, quindi sarà il tempo di imparare a camminarci. La tua voce sarà il tuo corpo: sicuro e armonico. La tua parola, le braccia e le gambe: rapide e forti. –
Poi il maestro si fece scuro in volto e con voce prepotente tuonò:
– Insomma! Non capisci proprio niente allora! –
Sakiko dapprima titubò, poi fece un passo avanti e con il sorriso in risposta alla faccia dura del maestro ribatté ferma e pacata:
– Può essere che io non capisca, ma può essere che tu non sappia spiegare. –
Sakiko quel giorno capì la lezione della cerata e del tatami e nessuno più riuscì ad offenderla.
Da «La Via del Maestro», 2015
APRIRE LA FINESTRA
Un giorno le quattro ragazze: Shino, Haruki, Ryoko e Sakiko entrarono nella sala del maestro.
La prima a parlare fu Sakiko:
– Maestro, tu sei il nostro grande maestro, ma oggi vorremmo porti alcune domande da donne a uomo.
Come mai è così difficile l’amore con gli uomini? Perché gli uomini ci fanno soffrire tanto? –
Haruki prese coraggio e attaccò immediatamente:
– Maestro, circa due mesi fa ho conosciuto un uomo, dice di essersi innamorato di me, mi scrive ad ogni ora del giorno e della notte. Frasi dolci e a volte anche un po’ piccanti che in verità non mi dispiacciono… La scorsa settimana ha fatto recapitare al negozio dove lavoro un fascio di rose stupendo. È sempre stato galante e cortese, facendomi credere di essere un uomo più unico che raro. L’altro giorno, parlando con una mia collega, abbiamo scoperto che quello stesso uomo che affascinava me con lusinghe, regali e corteggiamenti d’altri tempi, era lo stesso che lusingava lei, con gli stessi identici comportamenti e gli stessi identici messaggi. –
– Maestro, esco da due anni con un giovane uomo – disse Ryoko – dice di amarmi, mi desidera sempre e io ne sono felice, ieri sera ho scoperto che frequenta altre donne e locali promiscui. –
Shino timidamente aggiunse:
– Maestro io non ho fidanzati. Ho vissuto tre anni con un uomo, nei primi mesi mi è sembrato equilibrato e maturo, poi poco a poco, il suo fascino si sgretolava ai miei occhi. Osservandolo bene e meglio, capivo giorno dopo giorno che dietro la sua facciata di uomo maturo si celava una persona infantile, instabile e viziata. L’ho lasciato da sei mesi ed è da sei mesi che non mi dà tregua: lo trovo appostato ovunque, sotto casa, sotto l’ufficio, all’ingresso della palestra e della scuola di inglese, insomma ovunque. È una situazione veramente insopportabile. La cosa che mi spaventa di più è che quest’uomo, giorno dopo giorno mi sta togliendo la voglia di conoscere altre persone. –
E fu la volta di Haruki:
– Maestro, tu sai che sono sposata da dieci anni. Il mio uomo mi ha lasciata per una donna molto più giovane, credo che abbia poco più di venti anni. Lui ne ha quarantasei. –
Il maestro si avvicinò agli incensi, ne prese quattro e li accese:
– Vedete il fumo di questi incensi che sale? –
– Certo maestro. – risposero in coro
– Gli uomini che avete incontrato sono come il fumo degli incensi, come questo fumo, sale, sprigiona il proprio profumo, conquistando la stanza intera. Voi siete la stanza che li ha accolti, pazienti e delicate, ma siete anche il vento. Dovete solo aprire la finestra. –
Da «La Via del Maestro», 2015
UN GIORNO
Alessandro Pari, stava sognando. La polifonica del cellulare interruppe il suo sogno.
Alzandosi premette il pulsante per aprire la comunicazione:
– Sono De Mauro, ciao. Ti aspettavo per le nove. –
Attese un secondo, forse due, poi con la voce ancora impastata dal fumo delle Lucky, rispose:
– Scusami… se hai ancora dieci minuti per me, arrivo. Potrei essere da te tra mezz’ora. –
Dall’altro capo una voce accomodata, ma volutamente dosata con una elettrica quantità di scocciatura, gli ribattè, che malgrado tutto, lo avrebbe aspettato. Quel “malgrado tutto” faceva certo riflettere: malgrado cosa, malgrado chi, perchè malgrado…
Paolo De Mauro era il suo commercialista. In realtà non è che avesse altri impegni nella mattinata, o che la mezz’ora di ritardo avrebbe potuto guastargli l’appetito o chissà cos’altro, però… C‘è sempre un però, e quindi per un commercialista preciso, ordinato e coll’appartenenza atavica al clan dei primo del banco, non poteva non far pesare il suo tempo e soprattutto la differenza di “dinastia” con il proprio cliente.
Alessandro Pari non era uno del suo clan, anzi era quello del clan avverso. Sempre in fondo, sempre fuori, o comunque sempre al limite tra il dentro e il fuori. Da sempre.
La sua segretaria, segretamente innamorata di lui, un giorno gli disse che possedeva delle potenzialità enormi, ma che la sua infanzia disordinata, gli stava precludendo una carriera che avrebbe potuto essere spettacolare. Questa dichiarazione così intima della sua Giorgia, lo colpì molto, non si addentrò mai in un approfondimento, piuttosto da quel momento si chiese sovente come lei potesse sapere della sua infanzia, considerando per certo che lui non ne parlò mai.
Quello che lo colpì molto fù proprio l’utilizzo di una parola. Una parola specifica, che lo sorprese per quanto fosse azzeccata. Si, perchè le parole sono importanti… Quindi avrebbe potuto dire: turbolenta, aggressiva, infelice. Ecco, infanzia fa sempre rima con felice o infelice. Invece Giorgia, utilizzò proprio quella parola:
d i s o r d i n a t a.
Nessun vocabolo poteva essere più azzeccato. Giorgia aveva clamorosamente e inaspettatamente colpito nel segno, aveva studiato e compreso il proprio “capo”, molto più di quello che lui potesse immaginare. E lui quel giorno si sentì disarmato, come un cavaliere disarcionato dal suo scudiero.
Restò di stucco, come se la sua segretaria avesse indovinato la carta nascosta nella tasca.
Era una parola che Alessandro Pari non aveva mai trovato, e quel giorno si rese conto che nulla poteva essere più giusto per inquadrare la propria situazione. Era proprio quella parola che non gli era mai venuta, che rappresentava il suo tarlo, il suo tallone d’Achille.
Per tutto il giorno gli ronzò nel cervello quella parola e in ogni minuto si convinse sempre di più.
– Certo è il disordine della mia vita, che mi rende così incosciente, incostante, impreciso. Cazzo sono come il prete che predica bene e razzola male. Sono il dentista con i denti incurati, il dietologo sovrappeso. Sono disordinato, sregolato, disorganizzato. –
Alle 09,50 Alessandro fece ingresso nello studio.
– Allora, da dove partiamo? –
Alessandro Pari, poggiò il gomito sul bracciolo della sedia in pelle, di marca, come tutti quanti gli altri oggetti posti in quei venti, trenta metri quadrati di quella stanza.
Pure il proprietario dello studio era di marca. Naturalmente. E naturalmente, sempre di una marca che nel momento era quella più in voga. Tutte quelle, ultimo modello. Auto di moda, dal colore di moda, telefono di moda, penne di moda, capelli alla moda con meches brizzolate o di nuovo castano scuro secondo la tendenza, camicie di moda dalla tinta di moda e poi scarpe, portascarpe, orologi, bracciali, ciondoli, accendisigari, canottiere, calze, mutande, solette delle scarpe, tagliaunghie, carta igienica, spazzolino, tutto di moda, tutto di marca.
L’ospite aveva gli occhi ancora sbattuti e gonfi e la voce roca. Lasciando che il suo aspetto risultasse ancor più maledetto del solito.
I suoi movimenti erano lenti, posati. Lasciando il gomito poggiato al bracciolo, stese il il braccio verso il volto e poggiando l’indice annoiato sulla tempia e il pollice sulla mandibola ricoperta dalla barba sfatta, prese a dire:
– Sicuramente dall’inizio… o dalla fine, tanto poi è la stessa cosa. –
Un uomo di calcolo e alla moda malsopporta questo genere di entrate scostanti, ma che ad una analisi più attenta possono nascondere nella propria semplicità un certo tema filosofico.
Ad un uomo di numeri, proporzioni, equilibri, non interessa la filosofia. Se poi i suoi ritagli di tempo si dividono equamente fra shopping, lettini abbronzanti e dibattiti nelle sale dei circoli del golf su motori tedeschi e telefonini americani, della filosofia non gliene frega proprio un cazzo.
Il commercialista si rimpettì, erigendosi a giudice sovrano e inamovibile del destino di un’altro uomo. Un uomo del quale aveva ancora un certo timore, una certa soggezione, ma ormai l’animale ricco e vincente mostrava sprezzante la propria superiorità conquistata. L’animale codardo, odorava il vecchio avversario temuto e sentiva la sua stanchezza, la sua definitiva arrendevolezza.
E il leone commercialista era li che girava intorno, tronfio con le zampe lente e potenti a far mostra di se stesso. Naturalmente compiacendosi e godendo smisuratamente di questo momento di rivalsa verso l’ex leone dominante. Al noto revisore dei conti non piacque mai troppo il suo cliente, forse per celata invidia di personalità, forse per palpabile, immediata sensazione di diversità. Per totale differenza strutturale, culturale, etica. Due antipodi insomma. Il Pari, uomo aitante e decisionista, guasconamente spaccone e irrisorio dei problemi quotidiani, con appicicata adosso un aria di uomo impavido e carismatico, anche in t-shirt e bermuda. Lui macilento, sempre così spersonalizzato pur ricoperto di tutto punto nei suoi abiti di lusso, con costruita aria di superbia e saccenza.
La prima zampata fù come doveva essere: secca, veloce, crudele. Aggrottando le sopracciglia, con tono caustico, ribattè:
– Sinceramente in questo momento non credo sia il caso di giocare con le parole. Forse abbiamo, o meglio hai giocato un po’ troppo finora. Suppongo sia finalmente arrivato il momento di guardare in faccia la realtà. I numeri parlano chiaro. –
Così dicendo, De Mauro alzò lo sguardo al cielo, poi scosse i capelli passandosi nervosamente la mano destra fra il cuoio capelluto e i fili ondulati, oggi di nuovo colorati di castano.
Era il leone che zampava nella terra e trotterellava nervoso intorno. Certo della propria superiorità, ma ansioso. Superbo, ma timoroso della personalità dello stremato, indiscusso capobranco.
L’uomo seduto di fronte al commercialista, aveva nel frattempo allungato le lunghe gambe, giunte quasi fin sotto alla scrivania alla moda high-tech. Provocatorio e ancora un po’ sbruffone, lo osservava, concedendogli tutto quel che voleva, offrendogli il petto, come uno spavaldo condannato a morte. Alessandro Parri lo guardava così, con aria stanca e vagamente disturbata, come un vissuto adolescente di quartiere guarda il proprio professore durante l’ennesima ramanzina.
– Vero, verissimo! – sillabò rauco il Pari, che amletico seguitò:
– I numeri… certo parlano chiaro, ero il tredici a quindici anni nella prima squadra di rugby. Poi il nove nella seconda e il cinque nella terza, a ventisei anni. Terza Linea, ero terza linea con il numero cinque. Cinque è stato anche il mio numero più fraterno dalle elementari al liceo. Ah, sotto le armi ero nella quinta compagnia, Tigri! Quinta compagnia, a capo del terzo plotone. Partito col Terzo scaglione. Terzo novanta, arruolato il tredici aprile. E io sono nato il primo aprile. Primo aprile, sarò uno scherzo del destino? Eh… i numeri, che mistero, che fascino… Come vedi il cinque, il tre e il tredici ricorrono sovente. Non ho mai fatto tredici, non ho mai giocato, anzi si qualche volta da ragazzino… Se ci fai caso sono per la maggior parte numeri dispari. E io faccio Pari. Che strana cosa, eh? E tu invece che numeri mi dai? Sette in condotta e poi? Quattro, cinque, due… non classificato?! –
De Mauro lo osservava sgomento, spiazzato. Il sottile piacere che stava provando da leone vincente e assetato di potere, stava vacillando. Il disarmante sarcasmo febbricitante del suo cliente lo confuse. D’un tratto comprese, che stava vincendo il confronto perchè il suo avversario glielo stava permettendo. Capì che la sua vittoria non contava nulla, era una vittoria insignificante. Il leone capobranco era e continuava ad essere, anche se stanco e sconfitto dai numeri, lui. Il suo cliente-nemico, il suo invidiato-odiato: Alessandro Pari.
Il consulente e revisore dei conti, avrebbe voluto uscire da quella stanza. Avrebbe voluto cacciare quell’uomo sbruffone e irriverente, avrebbe voluto lanciare un urlo isterico e mandare al diavolo per sempre quell’uomo così mal sopportato da sempre.
– Ah, dimenticavo… la fondazione della mia azienda risale al cinque maggio duemilatre. Cinque maggio… dovevo immaginarlo! – Poi, schiarendo la voce, modulando teatralmente le corde vocali, recitò:
– Ei si nomò: due secoli, l’un contro l’altro armato, sommessi a lui si volsero, come aspettando il fato; ei fè silenzio, ed arbitro s’assise in mezzo a lor-
Subito dopo rise. Di un riso malinconico e amaro, poi ancora seguì:
Cinque maggio, del Manzoni. Ricordi? Noo, tu non ricordi, tu calcoli! Tre per due, sei per otto, radice quadrata di quarantotto, tre e quattordici o sei e ventotto! Equilibri, bilanci, scorpori. È il tuo mestiere, è la tua vita. –
Il suo interlocutore vide d’improvviso ribaltato il confronto, si sentiva il fiato corto, le braccia e le gambe avvolte da una improvvisa cedevolezza.
Fra se pensò:
– Ma guarda questo stronzo… non muore mai, neanche adesso che dovrebbe essere a pezzi, con un bilancio sputtanato e un fallimento ormai solo da sentenziare, viene qui e mi piglia per il culo. Questa carogna sul lastrico, con tanti debiti da non potersi permettere neanche un biglietto di sola andata per il posto più lontano e squallido del mondo, mi fa la parte del Padrino. Figlio di puttana, sei un figlio di puttana e io ti schiaccerò! –
Innervosito girò la sua mont blanc vero il suo cliente, come una spada puntata alla gola:
– Ora basta! Sei in una situazione disastrosa. A me dispiace tanto, ma non posso più far niente per te. Siamo davvero arrivati al capolinea, come tu comprenderai, io non sono più nella condizione di poter salvare ne te ne la tua azienda. –
Un silenzio irreale avvolse quella camera. Cinque, sei, sette secondi. Un minuto, un ‘ora. Il tempo si fermò. E i due, dalle opposte posizioni furono fermati nel tempo quasi avessero avuto una concessione sovrannaturale per poter comprendere meglio chi fossero, dove potessero andare e soprattutto cosa ci sarebbe stato subito dopo quel momento.
Il proprietario dello studio abbassò lo sguardo, con i polpastrelli del pollice e dell’indice tirò nervosamente i polsini bianchi, facendo roteare i gemelli d’oro e madreperla segnati dal marchio Louis Vuitton. Il suo rolex si affacciò beffardo comunicandogli che erano già le 11,30. Si distrasse subito, ricordando che prima di pranzo doveva passare dal negozio del centro per ritirare le sue “divise” estive da socio, nonché membro del direttivo del club del golf. Timidamente ruppe il silenzio:
– Scusa, se ho esagerato Pari, il fatto è che la tua situazione è davvero grave, gravissima. Ho già consegnato tutta la tua documentazione al mio collaboratore che si occupa dei fallimenti e in settimana inizieremo la pratica.. – Dopo un colpo di tosse, con tono quasi commosso, da sentite condoglianze, proseguì:
– Mi spiace, se sento qualcosa ti dico. Ora devo andare. –
Alessandro Pari non disse più nulla. Salutò con una leggera apertura del palmo della mano, alzata poco sopra il capo e uscì.
Una sentenza di morte è sempre una sentenza di morte. Per un padre, una madre, un figlio, un cane, un’azienda. La morte è sempre la morte.. Quindi passeggiò per quasi un’ora in silenzio lungo il viale che sovente percorreva con la sua ex compagna. Quando si accorse che passo dopo passo, i chilometri percorsi furono almeno sei, estrasse il proprio cellulare dalla tasca interna del blazer blu e compose il numero della centrale dei taxi.
– Centrale taxi 5845 come posso esserle utile? –
– Buongiorno signorina. Sono di poche pretese, vorrei un’auto che sulle note di my way mi portasse alle Hawaii. –
Da «Quando le nuvole tornano a casa», 2010