Storie del Monte Faudo

di

Gianni Fassina


Gianni Fassina - Storie del Monte Faudo
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 68 - Euro 7,00
ISBN 978-88-6037-7791

Clicca qui per acquistare questo libro

Vai alla pagina degli eventi relativi a questo Autore

In copertina e all’interno disegni di Gianni Fassina


Prefazione

Gianni Fassina è un autore che ha già al suo attivo numerose pubblicazioni, ed ora, con “Storie del Monte Faudo”, raccoglie sei interessanti racconti che riportano la mente a vicende divertenti, ad avvenimenti sicuramente insoliti e a storie strane e misteriose legate al paese di Costarainera, un piccolo borgo dove anche un fatto “inaspettato o misterioso” poteva diventare un evento memorabile.
Gianni Fassina mette in mostra tutta la sua capacità narrativa e riesce a rendere in modo fedele le atmosfere dell’ambientazione, di quel piccolo luogo di mondo che diventa simbolo delle contraddizioni, delle fragilità dell’uomo, delle credenze popolari e delle condizioni di vita legate in maggior parte agli anni Cinquanta quando il paese di Costarainera era zona di contadini che coltivavano ulivi e vigneti o allevavano animali domestici e da soma.
Non è un caso che la raccolta si divida in tre sezioni che offrono già un’idea precisa delle tematiche che vengono affrontate: storie di contadini, storie di buontemponi e storie di diavoli e streghe.
Ecco allora, che con mano sapiente, Gianni Fassina passa agilmente da racconti surreali a divertenti vicende burlesche che hanno contrassegnato quella terra per finire a storie pervase da un alone di magia e mistero legate alla vita che “corre sempre uguale” nel piccolo borgo di Costarainera.
Tutto pare nascere dalla fantasia e dall’inventiva dell’Autore ma è da sottolineare che molte storie raccontate siano tratte da un passaparola da cantastorie che ha tramandato fino ai giorni nostri tali sapide e inimmaginabili storielle che hanno sicuramente allietato molte bevute o chiacchierate nella piazza del paese.
Nei sei brevi racconti ritroviamo tutto questo sapore contadino, queste atmosfere piene di gusto, di sapore anche per la cucina, di costante ironia nell’affrontare l’esistenza.
Ecco allora che possiamo leggere la storia surreale delle esequie di un uomo quando ancora v’era la consuetudine di vegliare la salma per tutta la notte e, a Costarainera, l’incarico era affidato a Bacì e Fransè. Purtroppo a Bacì piaceva bere e, in quella notte d’agosto, la sete era così forte che aveva mandato Fransè a prendere un bel fiasco di vino: poi aveva pensato di fargli uno scherzo, uno di quelli che lasciano senza respiro…
Poi ritroviamo la storia davvero incredibile di Zio Pipolo che era completamente sordo anche perché si arrabattava a fare il campanaro, e non aveva sentito i belati strazianti della sua povera capra che era morta impiccandosi da sola alla corda che la teneva legata dopo essere caduta in un pozzo che lui aveva scavato. E ancora l’impresa giocosa di alcuni ragazzi che, durante la nevicata formidabile del 1956, avevano deciso di fare una gigantesca palla di neve da far rotolare per il paese salvo poi accorgersi che era molto più difficile del previsto poterla governare: alla fine ostruirà l’unico passaggio per la casa del parroco e produrrà una serie di incidenti e imprevisti che rendono omaggio alla più fervida fantasia.
La realtà supera la fantasia: come quando la signora Marion, la misteriosa strega, una donna di età indefinibile, che lascia in eredità la sua casa, il suo ulivo centenario e le sue piante a persone che vogliono tagliarle… ma Re Ulivo chiama gli spiriti della terra e dell’aria per riavere il suo antico magico potere…
Non mancherà di certo la storia di Rebecca, una strega che ammalia il prete fino a renderlo completamente succube, fino a fargli pensare che il Demonio si era ormai impossessato della sua anima: tragica fine nelle mani di Eros.
Gianni Fassina, con pochi cenni, qualche dettaglio, rapidi sguardi ai personaggi e alle atmosfere, alcune stoccate legate alla condizione di vita d’un tempo, riesce ad alimentare l’energia attrattiva di questi racconti che riportano ad un tempo passato, ai ricordi del proprio paese, della terra dove si sono viste avvicendarsi le varie stagioni dell’esistere: la vita e la morte, il sorriso e il dramma, in una miscela narrativa che è traboccante di freschezza e di humour, senza dimenticare la profonda umanità distillata con poche parole tra le storie di questi racconti.

Massimo Barile


Storie del Monte Faudo

I
Storie di buontemponi


Esequie

Agli inizi del secolo scorso, prima di seppellire un cadavere era consuetudine vegliarlo per un’intera notte nel cimitero del paese.
Addetti a questo non invidiato incarico erano, nel piccolo borgo di Costarainera, due beoni che chiameremo Bacì e Fransè. Il cimitero a quei tempi sorgeva poche centinaia di metri a nord del paese, sul terrapieno dove era stata costruita la chiesa di San Antonio Abate, che la tradizione vuole eretta dai frati Benedettini nel lontano milleduecento.
Gli abitanti del luogo non erano che quattro anime, e altrettante erano quelle che riposavano nel camposanto.

Quella stupenda notte di agosto Vega splendeva superba nel cielo; la luna quasi piena sarebbe tramontata poche ore dopo dietro le vicine colline.
I nostri due eroi, seduti su sgangherate sedie, bevuto il fiasco di vino che si erano portati dietro cominciavano a sbadigliare per il sonno, mentre il morto giaceva nella sua bella bara di pino ancora profumata di resina.
Nonostante il campanile del paese, sotto di loro, avesse battuto le due di notte faceva ancora molto caldo, e a Bacì venne sete. Era il maggiore fra i due e faceva pesare la sua anzianità al povero Fransè che subiva continuamente le sue stravaganze.
Bacì non ci pensò due volte a svegliare l’amico che già russava.
«Fransè, mi è venuta sete. Prendi le chiavi della cantina e corri a pigliare un fiasco. Mi raccomando: prendilo da quelli in fondo, dietro la botte grande, che è più fresco.»
Al poveretto non passò neppure per la testa di disubbidire: prese le chiavi e si incamminò mestamente lungo la strada che conduceva al paese.

La mulattiera, in leggera discesa, attraversava una magnifica pineta; ma il nostro Fransè non fece caso all’odore pungente della resina, né al bel mare argentato. Passato un quarto d’ora era già giunto alle prime case.
I tetti d’ardesia delle poche costruzioni in pietra risplendevano sotto la luna; il profondo silenzio era rotto dal miagolio di qualche gatto in amore e dal raglio di un asino affamato.
La casa di Bacì era l’ultima sul limitare della piazza; era piccola, con due stanze e sotto una stalla che lui s’intestardiva a chiamare cantina; c’era poi un orticello protetto da un muro, con una piccola cappella votiva coperta di glicine – quando era la stagione –.
Ironia della sorte, proprio accanto al tugurio di Bacì sorgeva la casa che tutti chiamavano “il castello”, perché era la più bella di tutte.
Fransè prese il fiasco, non prima di aver spillato un paio di bicchieri direttamente dall’unica botte del compaesano; a malincuore, ma un po’ confortato, riprese poi la via del ritorno.

Nel frattempo Bacì, rimasto solo col morto, gli rivolgeva la parola così, tanto per ingannare l’attesa.
«Caro mio, ma com’è che sei morto così giovane?»
Quello era morto in effetti a quarant’anni.
«Scommetto che è per la rabbia che ti sei fatto per colpa di quella sgualdrina di tua moglie: lo sanno tutti che se la faceva col macellaio, quando tu sputavi già sangue in Lona1 a tagliare fieno. Eh le donne, le donne, caro Ciuà, bisogna metter loro le briglie come alle mule quando te le sposi, se no, prima o poi, ti mettono le corna. Ma lasciamo stare, ricordiamoci piuttosto delle belle bevute che abbiamo fatto insieme, eh Ciuà?»
A questo punto, un po’ sull’onda del ricordo di quelle bevute, un po’ perché era un’idea che gli frullava in testa già da tempo, decise di fare uno scherzo al povero Fransè.
Tolse il coperchio dalla bara, prese in braccio il corpo già rigido di Ciuà che pesava poco più di trenta chili, e con non poca fatica e l’aiuto di qualche “Cristo” lo sistemò come poté sulla propria sedia.
«Stai bravo Ciuà, che non appena arriva Fransè te ne bevi un bicchiere con noi.»
Rimase un po’ a guardare l’effetto che faceva. Poi, quando udì i passi di Fransè che arrivava col fiasco di vino, entrò nella cassa, calò il coperchio e attese.

Il disgraziato, sudato per la camminata e le sorsate di vino, era mille anni lontano da quanto stava per capitargli.
La luce della luna s’era spenta e ogni cosa era nell’ombra.
Tutto contento di aver svolto così presto e bene il proprio compito, si avvicinò a quello che sembrava Bacì addormentato sulla sedia.
Diligentemente riempì i bicchieri e chiamando l’amico gliene offrì uno. Ma quello niente, non rispondeva: dormiva che sembrava morto.
Spazientito Fransè toccò con il bicchiere la spalla dell’altro.
«Lo vuoi o non lo vuoi questo benedetto vino, visto che mi hai fatto fare una camminata della malora?»
Allora dalla cassa si levò una agghiacciante, lugubre voce.
«Se non vuol bere lui, dallo a me!»
A Fransè gli si spaccò il cuore.
Al mattino presto, prima che il sole si alzasse, fu scavata un’altra fossa.
Nessuno fece la veglia per il povero Fransè.


La palla di neve

L’inverno dell’anno millenovecentocinquantasei fu eccezionale.
Cadde tanta, ma tanta neve che ricoprì Costarainera come un branzino cotto al sale.
Gli ulivi… Gli ulivi bruciati dal gelo! E i pochi animali da lavoro chiusi nelle stalle a morire di freddo e fame.
I contadini del borgo, tappati in casa attorno alle stufe e ai camini, cercavano invano nella memoria un’annata simile.

Nel letto dei miei genitori, febbricitante, trascorrevo le giornate spiando dalle gelosie via Dottor Raineri sommersa dalla neve, che contemplavo per la prima volta. Immaginavo che il mondo intero dovesse somigliare a una grossa palla coperta di quella soffice coltre.

E fu proprio una gigantesca palla di neve che i ragazzi più grandi decisero di fabbricare quella domenica mattina: volevano costruirla vicino alla chiesa di San Antonio Abate, poco fuori dal villaggio, e farla rotolare giù, fino al centro del paese, per regalare a tutti gli abitanti l’imponente trofeo della loro impresa. In un batter d’occhio la voce si sparse, la curiosità montò caricando l’ambizioso progetto di un’aspettativa epica: e in effetti per la gente di Costarainera quello sarebbe stato un evento memorabile.

Aveva smesso di nevicare. Nella piazza un timido sole carezzava i volti di coloro che avevano deciso di assistere all’avvenimento.
Qualcuno aveva portato un tavolino sgangherato sul quale altri avevano posato pagnotte, olive in salamoia e un fiasco di vino.
Antonio, Giuseppe, Giovanni e Libero – questi i nomi che la storia ha tramandato –, stretti gli ultimi accordi, intrapresero l’avventura, lasciando gli amici a discutere sulla fattibilità dell’opera.
S’incamminarono per via San Antonio; cento passi, ed eccoli al limitare del paese, poi su attraverso la pineta imbiancata, finché giunsero sul piccolo slargo davanti alla chiesa.
L’aria del mattino era frizzante, il cuore dei ragazzi caldo.

Intanto in piazza cresceva l’attesa e si accendevano animate discussioni.
Min, un ometto piccolo piccolo con l’erre moscia, era scettico: «I nu ga fan, ma se i ga fan a saa’ grande in metru2».
Tumiatti, ex combattente della repubblica di Salò, ribatteva: «Ma che metro, sarà alta due metri!»
E l’altro: «Durerà poco… Appena u sciorte u su3…»
«Ma che poco, durerà una settimana, se il freddo tiene.»
«E duve a metemu?[4]» interveniva Sensolo.
«Sutta a muaia dell’ortu de Manipola5» era l’idea di Stefano.
Didè non era d’accordo: «E bravu, propriu duve u ghe picca ciu u su! Mi, a dievu de mettila in tu mesu a ciassa cume a fusse ina funtana6
Intanto qualcun altro, cui l’aria del mattino aveva messo appetito, addentava fette di pane secco con un pezzo di cipolla.
I colombi si occupavano di ripulire le neve dalle briciole.

Nel frattempo lassù la palla aveva preso forma, anzi, aveva percorso le prime centinaia di metri e aveva già raggiunto una considerevole grandezza.
Se all’inizio i ragazzi avevano faticato a spingere la massa di neve verso il basso con l’intenzione di aumentarne il diametro, ora si sfiancavano a trattenerla. Si correva il rischio che sfuggisse al loro controllo uscendo dal sentiero e sfasciandosi contro il tronco di qualche pino.
All’altezza della pia7 di Stevanuccio – un enorme, antico pino che la leggenda diceva nato da un seme perduto da un soldato di Napoleone – era diventata così grossa che i nostri decisero di fermarsi e cercare aiuto tra i buontemponi che li stavano a guardare prima di affrontare l’ultimo tratto, una ripida discesa.
Il piccolo Giuanin corse giù trafelato mentre le campane battevano le dieci.
«Agiutu, agiutu! A le troppu grossa… Pe a discesa a ghe scappa da e mae… Caicun u vegne a agiutali, se nu in ciassa a nu ga riva8
Grande concitazione.
Non si capiva quello che il piccolo Giuanin dicesse.
Fattogli bere un bel bicchierone di vinetta9 perché si riprendesse, i presenti si fecero raccontare per bene quel che stava succedendo.
Quando finalmente la situazione fu chiara, un manipolo di volontari giovani e forti si lanciò in soccorso.
La notizia in un baleno fece il giro delle case.
Chi non era già in piazza vi si affrettò; qualcuno si spinse fino al grande pino dove l’immenso totem aspettava di essere portato al centro del borgo.

Ma a quel punto le campane suonarono undici tocchi: l’ora della messa. I parrocchiani dovettero rassegnarsi ad abbandonare lo spettacolo e si raccolsero di malavoglia nella piccola chiesa a una navata che custodiva la statua del patrono, San Giovanni Battista.
Con in testa quell’idea, però, nessuno prestava grande attenzione all’omelia: ce l’avrebbero fatta i ragazzi? Dove avrebbero messo la palla di neve? Che bell’effetto avrebbe fatto in mezzo al paese… Insomma, i pensieri dei fedeli volavano tutti verso la salita di via San Antonio.
Il parroco se ne avvide e, curioso pure lui, tagliò più corto che poté per concludere presto la funzione.

Quando la meridiana dell’oratorio sfiorò il mezzodì la piazza brulicava di gente: uomini cappello in testa e pipa in bocca, donne avvolte in grandi scialli neri, bambini in poveri abitini, col viso blu per il freddo, tutti rivolti verso lo sbocco del carruggio da dove sarebbe sbucata la palla.
I quattro ragazzi, insieme coi rinforzi, imboccarono cautamente l’ultima parte della discesa, quella che portava dritta in paese.
La tensione era giunta al massimo. Pareva che persino le case, come esseri umani, trattenessero il respiro.
I colombi smisero di tubare nascosti nei buchi dei muri dell’oratorio.
La palla di neve a ogni metro acquistava peso e velocità. Sembrava una valanga. In un batter d’occhio era già davanti al portico del “castello”.

Questa grande casa a due piani color rosa antico, che gli abitanti del borgo chiamavano così per le dimensioni e l’aspetto signorile, era di proprietà di un famoso canonico, Don Bernardo Amerigo (lontano parente del grande navigatore Vespucci) che però non ci veniva quasi mai. L’edificio si affacciava verso la piazza con un grande giardino-vigna dal quale si poteva ammirare la bellezza del mare. Aveva poi un’ampia cantina con un molino per la macina delle olive e un torchio per la spremitura dell’uva, nonché una cappelletta dove nelle feste principali del paese si celebrava la messa.
Un portico correva lungo le sue mura chiudendo l’ultimo tratto del carruggio con un soffitto a volta.

Il portico del “castello”, alto quattro metri per altrettanti di larghezza, venne affrontato con non poca difficoltà: per un momento parve che non ci fosse nulla da fare, ma con qualche abile manovra i valorosi riuscirono a imboccarlo.
Dieci passi più avanti c’era, però, un’altro portico: piccolo, molto più piccolo del precedente. Quando la videro scendere ormai con la rapidità di una slavina, tutti compresero che la palla di neve di lì non sarebbe mai passata.
I giovani, scorati, non poterono far altro che lasciarla andare, e quella si schiantò contro la campata otturandola completamente.
La delusione di tutti fu grande.
Quel mezzogiorno si pranzò di mala voglia. Non si pensò neppure a liberare il carruggio dalla palla di neve: il sole prima o poi l’avrebbe sciolta; nel frattempo la gente del “castello” sarebbe riuscita a entrare in paese infilandosi attraverso il giardino della villa, seppure ingombro di neve.
Nella notte fra domenica e lunedì la temperatura irrigidì ulteriormente; la palla di neve ghiacciò del tutto formando un tappo duro come un sasso.

Ma nell’aria aleggiava una più pesante sventura.
Il mercoledì seguente era il 17 gennaio, festa solenne di San Antonio Abate, secondo e non meno importante patrono del borgo.
In quella data era consuetudine far benedire gli animali da lavoro e domestici.
Un tempo, prima che la chiesa parrocchiale fosse ultimata, le bestie venivano condotte alla chiesetta appena sopra il paese, la stessa dove i ragazzi avevano iniziato a costruire la palla. Lì veniva celebrata la messa in onore del santo, di cui era custodita la statua.
In epoca più recente era la scultura del santo, in occasione della festa, a esser portata in processione sino alla parrocchiale e poi, conclusi i riti, riportata nella sua sede originaria.
Ma quell’inverno, come sappiamo, era tutto particolare. Portare in processione il santo sarebbe stato impossibile: il percorso era sommerso dalla neve, e soprattutto l’unica via percorribile era ancora ostruita a causa dei fatti descritti poc’anzi.
In fretta, durante una concitata riunione fra i fedeli e il parroco, si decise di spostare la celebrazione alla domenica successiva, nella parrocchiale e senza alcuna processione.

Così, il sabato seguente, gli abitanti del paesello diedero il via ai preparativi culinari, come era in uso alla vigilia della festa.
I tempi non erano floridi ma per le feste patronali, come per il Natale e la Pasqua, ognuno si sforzava di portare in tavola i migliori cibi della tradizione: i ravioi de magru, u cunio in ta casseolla a messugiurno, puntette o fidei – secondo i gusti – in tu brodu de carne de sima a cena10 non mancavano quasi a nessuno.

***

Domenica 21 gennaio si levò una giornata bellissima. La temperatura era ancora molto rigida, ma il sole illuminava la campagna innevata. Le foglie degli ulivi scintillavano come contorti diademi.
Una buona mezzora prima della messa delle undici, Piazza Vittorio Emanuele II era già colma. Accostati al muro dell’oratorio, fumando, gli uomini discutevano di quell’inconsueto inverno.
«Stamattin a sun riusciu a dà in po de fen a mua… Speamu che a nu moie11» diceva Battista.
E Bacì: «A lo puia che stannu oiu a ne faemo pocu… E uive i sun quasi tutte zeae12
«Ma che zeae… Sta prima i botti i riturna13» ribatteva Meneghin.
Le donne chiacchieravano non meno dei loro mariti.
«O donne, cuse i cuscei de bon14
Era Maria, una bella donna in carne considerata, con un po’ d’invidia, un’ottima cuoca.
Lorenzina, la prioressa, le rispose per tutte: «Cuse ti cosci tu, Maria15
Nel frattempo i bambini più grandicelli erano entrati in chiesa per adempiere al loro dovere di chierichetti; i più piccoli giocavano con i colombi, che sbucando dai nidi cercavano qualche briciola di pane uscita dalle tasche. Sarebbero stati gli unici animali a ricevere quel giorno la benedizione di San Antonio.
Suonò la campanella e la piazza si svuotò.

La messa era iniziata da qualche minuto quando Pipolo, il sagrestano, sordo come le campane che suonava, tutto trafelato entrò nella chiesa. Bisbigliò (si fa per dire) qualcosa all’orecchio del parroco.
Questi sembrò per un attimo impallidire.
Si rivolse ai parrocchiani con voce greve: «Fratelli e sorelle, tra un momento saranno qui con noi il nostro vescovo con il canonico Don Bernardo Amerigo… Il calesse è stato avvistato alla Torre del Poggio.»
Lo sgomento corse fra i fedeli… Guardarono il loro prete, si guardarono fra loro sbigottiti. Tutti pensarono alla palla di neve che ancora ostruiva il portico del carruggio, l’unico che conduceva alla casa del prelato.

Spieghiamo quell’improvviso, improbabile arrivo dei due religiosi in quel freddo – freddissimo, a memoria d’uomo – gennaio.
Don Bernardo Amerigo, proprietario del “castello”, come abbiamo detto, viveva per la maggior parte dell’anno a Genova, dove insegnava nelle scuole pubbliche e si dilettava, tra un pranzo e l’altro dai ricchi signori della città, a scrivere volumetti educativi di cui si è persa la memoria.
Ritornava a Costarainera d’estate per ritemprarsi dalle fatiche scolastiche e per qualche particolare occasione liturgica durante l’anno.
Informato della gran nevicata, essendo proprietario di molti uliveti coltivati a mezzadria dai contadini del posto gli era venuta l’idea di verificare di persona i danni di cui tutti parlavano. E la solenne festa di San Antonio Abate gli era parsa l’occasione giusta per una visita pastorale.
A tal proposito qualche giorno addietro aveva mandato un messo al vescovo, pregandolo di accompagnarlo, e questi a malincuore non aveva potuto rifiutare.
Già, perché Don Amerigo nel corso degli anni aveva fatto ristrutturare la parrocchiale diverse volte di propria tasca, e aveva donato preziosi oggetti e ornamenti religiosi; per queste ragioni era tenuto in gran conto dalla curia vescovile.

Così quella domenica i due prelati, l’uno proveniente da Genova, l’altro da Ventimiglia, si erano incontrati alla stazione ferroviaria di Cipressa-San Lorenzo.
Dopo un breve saluto ai fedeli della piccola cittadina rivierasca erano saliti sulla carrozza del canonico diretti al “castello”.
Gli unici a non essere informati del loro arrivo erano stati gli abitanti e il parroco di Costarainera.
Quest’ultimo in fretta e furia mise insieme una piccola processione di benvenuto.
Il Sindaco indossò la fascia tricolore che portava sempre con sé… anche a letto: non si poteva mai sapere.
La carrozza ben presto apparve in fondo alla strada che conduceva alla piazza.
Scesero in quattro: i religiosi con i rispettivi giovani segretari.
Si fermarono sul sagrato per salutare il parroco e i paesani, poi fecero il loro ingresso in chiesa per partecipare alla funzione.

Terminata la celebrazione della messa, salito sul pulpito, il canonico prese la parola.
«Caro reverendo, cari fratelli e sorelle di Costarainera, con grande rammarico mio e del nostro vescovo non vedo tra noi la statua del glorioso San Antonio Abate. Presumo che ciò sia stato impedito dall’eccezionale nevicata che ha colpito il nostro piccolo borgo e tutta la Liguria di ponente.»
Respiro di sollievo generale.
«Comunque», riprese «sono convinto che il buon Antonio protegge voi e i vostri animali anche dal suo piccolo eremo su, tra i pini imbiancati di neve, e certamente ascolta le vostre suppliche.» (Forse per l’abitudine acquisita scrivendo libelli per le scuole, egli amava ornare i suoi sermoni con descrizioni legate particolarmente al mondo della natura.)
Un asino ragliò in una stalla vicino alla chiesa.
«Ringraziamo il nostro buon vescovo» continuò «per essere venuto, nonostante la pessima stagione, qui fra noi, per portarci il conforto della Chiesa in questi momenti difficili per lo spirito ma, francamente, anche per i bisogni materiali essenziali alla nostra vita.»
Il buon vescovo, infreddolito, abbozzò un debole sorriso.
L’asino ragliò per la seconda volta.
Continuò Don Amerigo: «Sarebbe stato desiderio mio e del vescovo celebrare il vespro ma, considerate le circostanze, lo faremo in una occasione più propizia.»
Altro respiro di sollievo.
«Quindi, dopo aver fatto visitare a Sua Eccellenza la mia modesta dimora e consumato un pasto frugale, ritorneremo nel trambusto delle città, lasciando con rammarico questo tranquillo e meraviglioso borgo.»
A quelle parole scese un pesante silenzio.

Di questa storia sono stati tramandati due finali.
Nel primo si narra di come il povero parroco, al termine della messa, avesse confessato agli ospiti che la strada che portava alla casa era ostruita da… un’enorme palla di neve.
I due, incuriositi, avevano voluto dare un’occhiata; si erano fatti una gran risata (il vescovo un po’ meno) e, dopo aver accettato l’invito a pranzo di una facoltosa signora – la cui casa dava anch’essa sulla piazza attraverso uno stupendo giardino – erano ripartiti verso le loro rispettive destinazioni.
Stando al secondo finale i due religiosi, piuttosto seccati (specialmente il canonico), si erano arrampicati lungo il sentiero sommerso dalla neve che portava al “castello” attraverso il giardino. Avevano pranzato con scarso entusiasmo, avevano ascoltato dal custode gli aggiornamenti sulle proprietà e le conseguenze del maltempo e, dopo il caffè e un vin santo, avevano infine lasciato il paese.

Comunque fosse andata, qualche tempo dopo, quando della palla di neve era rimasto solo il ricordo, il parroco fu trasferito in un paesino fra i monti della valle Argentina.
Non se ne seppe più nulla.


Note:

1 Località di montagna dove si andava a tagliare il fieno.

2 «Non ce la fanno, ma se ci riescono sarà grande un metro.»

3 «Appena esce il sole…»

4 «E dove la mettiamo?»

5 «Sotto il muro dell’orto di Manipola.»

6 «Bravo, proprio dove batte di più il sole! Direi di metterla in mezzo alla piazza come se fosse una fontana.»

7 Qualità di pino che produce pinoli.

8 «Aiuto, aiuto! È troppo grande… Per la discesa scappa dalle mani… Qualcuno venga ad aiutarli, altrimenti in piazza non arriva!»

9 Ultimo vino della spremitura delle uve con abbondante aggiunta di acqua.

10 Ravioli con erbette, coniglio in casseruola a mezzogiorno, puntine o fidelini nel brodo di carne di cima a cena.

11 «Stamattina sono riuscito a dare un po’ di fieno alla mula. Speriamo che non muoia.»

12 «Ho paura che quest’anno si farà poco olio… Le olive sono gelate.»

13 «Ma che gelate… In primavera metteranno le gemme nuove.»

14 «Donne, cosa cucinate di buono?»

15 «Tu cosa cucini, Maria?»


Se sei interessato a leggere l'intera Opera e desideri acquistarla clicca qui

Torna alla homepage dell'Autore

Il Club degli Autori - Concorsi Letterari - Montedit - Consigli Editoriali - Il Club dei Poeti
Chi siamo
La Rivista
La voce degli Autori
Tutti i nostri Autori
Per iscriversi
ClubNews
Il notiziario gratuito
Ultimi inserimenti
Homepage
Per pubblicare
il tuo 
Libro
nel cassetto
Per Acquistare
questo libro
Il Catalogo
Montedit
Pubblicizzare
il tuo Libro
su queste pagine