Da coni di luce
Gli ha macchiato di sangue vivace il pollaio.
Nel buio la volpe è vorace e si sente già in fuga
quando il vento a saccheggiare l’aiuta anche i sogni.
La tagliola (se il lupo affamato ci cade)
all’astuta rossiccia non nuoce
e i denti digrigna d’acciaio alla luna
e alla fredda rugiada.
Ha ruggine antica coi nodosi villani
che ci perdono il sonno, sbarràti.
Allunga il muso nell’ombra
e mai placa la gola vermiglia
(che terribile squarcia ed umilia)
l’arsura furente.
La donna all’alba ne ride
– senza schiuder le labbra ed il cuore –
ché non l’ama da tempo.
Il figlio (più forte di sempre sull’ali del vento)
nel sole pedala accecante
e non pensa alla cova violata
che attizza suo padre.
Il traguardo ha striscioni troppo lontani.
Occorre il ragazzo si stanchi prima che l’erta salita
(sfiancante)
la strada e il respiro sconvolga.
Dietro, degl’inseguitori il colorato gruppo è folto
e, ansante, fiuta la giovane preda sul grigio tornante.
Ha coda anche folta l’orrenda assassina
e a memoria conosce
– in cascina –
di caccia un sentiero brigante.
Alla catena, oltre il pagliaio squadrato,
gl’irsuti cani non vanno
e gli strozza in gola il collare un urlo
(o un verso?)
alla ribalda, in perenne libertà.
Talvolta (Dio si muove a pietà)
accade che l’anello di ferro si spezzi
e il latrato (accecato dall’ira)
nella notte del bosco si perde.
Han forza e coraggio da vendere i nostri guardiani,
ma non sanno cunicoli e tane.
Renard, accarezzata da coni di luce,
scompare nella pena queta del fiume.
Lungo il soffice ciglio
Dei dolci ciliegi ritorna la neve sul fosso d’aprile
(l’acqua fra elastici steli serpeggia)
e sarà fuoco di maggio.
Seguitare il soffice ciglio vien bene
se l’occhio (socchiuso nel sole) l’umile alga asseconda
e il fiato di robusti guardiani ripete il tuo passo.
È pigro questo andare (senza riuscirvi) cercando
rettilinee rotte di motori lontani.
I nostri son campi di terra lucente
(se l’aratro, a piccole onde, li fende)
e non hanno tumulti di poggi e di vigne
che scendono al mare.
Al mare (già bronzei) neanche d’estate scendiamo
ché ci voglion bestie alle stalle e spighe di grano.
Ci vogliono – rugginose – le chiuse
a dirigere l’acque più ghiacce
(le ore preziose sono contate)
e i fidati guardiani (quant’è vero Dio)
li daremmo a nessuno.
Son sangue del sangue più nostro
e da sempre ubbidiscono al volo, gli costasse la morte.
Pelosa e forte la gramigna (tenace) si perde
ché ci fanno, furiosi, la guardia
lungo il campo e alla casa e non dormono mai.
Se ti fermi nell’ombra del salice in pianto
a coda ritta s’arrestano e fiutano il vento.
L’erba folta è più verde lungo il soffice ciglio.
Furtiva ci passa, ogni notte, l’astuta Renard.
Li accarezzi e nel sole
(che fuori già abbaglia)
cogli occhi abbracci tuo figlio.
I salici solo piangono all’alba
I salici solo piangono all’alba, quando nessuno li vede,
e ancora non sai se, da est, il sole scavalca il tuo muro.
Nel granturco l’acqua ristagna che i trattori, al buio,
han lanciato alle chiuse e nei fossi
e l’han tolta alla terra.
I fossi son gole profonde
ove i vecchi han dato di falce e di vanga.
Nell’ombra più folta han visto
la verde natrice gonfiarsi
e, feroce, colpire l’incauto fanciullo
che ne ha teso il collare.
Un cenno di mano, da sempre, è il nostro saluto
ché il fiato e la forza li diamo alle zolle
e il nome, nel sudore, non conta.
Ha brividi anche il motore
(fra gli argentei spruzzi)
e sudore d’olio pesante
ma, inesausto e rombante, saccheggia il gelido pozzo
ove candida luna mai giace e lo perde lontano.
La voce (una sola) bassa la diamo
ai guardiani dalle nari sagaci.
Col pelo, d’estate men folto, ci annusan le mani
e, al trotto, lavoran di coda se andiamo per campi.
Ci tengon da conto, come fossimo figli,
e, ansando, rifiutan la corsa per starci più accanto.
Tra i salici all’alba, quando nessuno ci vede,
spendiamo parole (con le labbra e con gli occhi)
e promesse d’amore.
Acquattàti, sospiri lievi di Rex e di Fama
fan carezze sul cuore.
Passasse lungo il soffice ciglio,
anche faremmo salva la vita alla scaltra Renard
che fra i bracci segreti scompare del Maira,
nell’arsura più mite.
Quando nessuno lo vede, da est, languido un sole
scavalca in foglia la vergine vite.
E son fiotti d’aurora silenti sull’aia che, libera, indora.
Come spose promesse
Come spose promesse
là sempre emergono pie cappelle
dove quei di città tentennano, persi.
Il silenzio (se non gli appartieni) immenso
ha rombi sommersi
e tempie sudate e bivî schiude d’angoscia
nei mari nostri di verde.
Oltre il ciglio,
che il fosso profondo accompagna e tra gelsi disperde,
onde di soia e granturco non hanno mai fine
e non stanno negli occhi e sfogliano stelle.
I più stanchi, ai fianchi di bianche colonne,
polverosi telai affidano e selle
e volti arrossati alle grate, a riprender coraggio.
Gli occhi, se li proteggon le mani,
svelano sangue ed arcani
nel ventre buio (del tutto e del niente)
ove spada d’improvviso fulgore
(per un attimo solo lucente)
ben teso un candido raggio
mai sopìta incide la preghiera del cuore.
Al santo, sul muro ferito, schiere d’angeli
in canto rendono omaggio
nell’ora
(che non cessa e ha mai fine)
del supremo dolore.
Senza rumore crollano i prepotenti bastioni del tempo
ed è un farsi docile ostaggio
(quei di città mai lo diranno)
di gaudiosi misteri d’amore.
Come spose promesse nella notte
li manderanno, in voci cantilenanti/rotte,
stridule donne
(fra lignei grani loro soggiacciono nerboruti villani)
ai piedi del patrono novello dei campi.
Fra i sussurri del Maira più ampi
(già con Francesco lo fece
di Gubbio sconvolta il ‘terrore’)
furtiva rispetterà Renard
la settembrina tregua del Signore.
Una montagna ci vuole
Una montagna ci vuole, non fosse che per supporre
cantando ne scenda l’acqua che nel fosso mi scorre.
Noi – da San Grato – le montagne le vediam di lontano
(se sappiamo sostare e portare agli occhi una mano)
quando il sole, raggiante, la piana brucia più forte
e campi immensi riempie luglio di mais e di grano
e ricolma anche il cuore.
Lassù i giorni eguali e le ore,
fra declivi che non hanno mai fine, se non per burroni,
spighe di pendula segale maturano piano
fra mulinelli capricciosi di vento e rovi gonfi di more.
Una montagna ci vuole, non fosse che per increspare
il limitare (perfetto troppo) a ventaglio
del remoto orizzonte
e sapere che anche la Terra ha avuto sussulti,
come l’uomo che soffre e corruga la fronte,
proprio là, ove attizza ceppi d’albe e tramonti.
Soffron, su balze scolpiti, brandelli vuoti di baite
in un tempo
(i vecchi – pietre fumanti nel sole – eccome lo sanno)
che non ha più stagioni
e sogni di quete marmotte
e sentinelle di fanciulli attente
e fughe argentine a frotte
e aguzzi campanili appesi al cielo
e d’organi diafane canne
e limpide fonti soffocate dal gelo.
Lassù i giorni eguali e le ore,
fra giogaie che non più eterne hanno coltri di neve
(se non dove il sole le tinge d’un rosa più lieve),
fra corsieri agili e fieri
incubi grondano (e morte) di rapaci bracconieri.
Una montagna ci vuole, non fosse che per avvistare
(rapiti) in volo aquile reali, nidi fra rupi scoscese,
sfide accese ai più gagliardi venti, becchi adunchi,
artigli lucenti
e vincere mai stanche
(fra cattedrali di pietra e di silenzi)
sepolcrali candor di valanghe.
Là sotto il diavolo ha sepolto tesori, ingoiato case,
tentato pastori, prosciugato torrenti,
scavato caverne, incatenato innocenti,
inventato masche e seminato furori.
Là sotto Lucifero – orrendo – ha saccheggiato
il ‘Comando’ (libro dal dorso vermiglio)
e con sadico piglio
ha fatto ruggire, tra forre e serre,
fatui fuochi ed epiche guerre.
Quei di lassù e noi della piana
a reggimenti abbiam fatto le guerre.
Senza fiatare, a ranghi serràti, abbiamo servito
con fedeltà ed onore
ché la penna nera, la cima gigante,
l’aquila fiera, lo zaino pesante,
l’antico cappello, le verdi mostrine e il caduto fratello
li portiamo nel cuore.
Una montagna ci vuole, non fosse che per issarvi
(non importa se a dorso di mulo e a forza di braccia
la fatica è più greve)
un’umile croce
ché la copra e la culli
– in abbraccio d’amore –
il nostro canto più lieve.
Certe ore
Certe ore Rex (ansante) ti osserva
e, lungo il grano, passa nessuno.
Nessuno passa, ché il pennino aguzzo del sole
rado il ciglio raschia
e la carta incide (candida) del cuore.
Se dalla cascina dei Franco, certe ore,
sbucasse di botto un trattore
e, con fragori crescenti, in saluto ci alzasse una mano,
morderemmo (pazzi e roventi) grani di polvere,
ma – sorridenti – penseremmo lontano.
Lontano, certe ore, è oltre
l’azzurro pennacchio di scarico
che, silenzio tornato, nel ventre
del nuovo granturco dilegua
e (supìno) più non ha il rimorchio colore o sussulti,
ma fuga di rapida rondine.
Rizza il pelo Fama e (inesausto furore)
esige, ancor latrando, arcane parole d’ordine.
Lontano, certe ore, è oltre le spighe gialle di Lino
ove notti stellate compassi dirigono mùrmuri di vento
(falangi buie di sogni e di paure)
e, a terra, punte infiggono d’argento
magie d’agognate mietiture.
Lontano, certe ore, è bronzeo l’uomo
(o un dèmone iroso)
che, nel fosso melmoso, affonda possente vangata
e l’estrae pesante
e solo sai chi è se indovini
dove la terra (di fresco rullata) fosco ha confine.
Lontano, tra fiamme d’ortiche assassine,
è – su tremuli pioppi – di trasparenti ronzii un velo
che (di vergine miele rabescato)
alate regine ha incoronato
e (se il giorno è più luce) circolari d’api
danze conduce, certe ore,
a fonti vive di nèttare e d’amore.
Lontano, certe ore, è il passo di Renard
che, terso sommesso il pianto delle paratìe,
mai doma cercando va (nel brullo gèrbido dei secoli)
un rosso filo che a vigne solatìe
la conduca (subdola e sgusciante come un topo)
e (forte) famelico in un niente
il balzo innalzi (suo finalmente)
all’odiato grappolo di Esopo.
Certe ore, affilate ardono auree stoppie
e, lungo il campo lontano, passa nessuno.
Nessuno passa lontano, ché il pennino aguzzo del sole
rado il ciglio raschia
e la carta incide (candida) del cuore.
Dopo anse di pioggia
Ancora
è sull’ali di garrule rondini
la nostra gioia.
Radici
Quando la terra più è dura del cuore dei superbi
strade lasciamo al vento e, a flebili sussurri, il campo.
Il campo
(onde di galaverna crestate o d’antico sudore)
volti ha di gente che bussa
– con garbo e a fatica –
alla porta del cuore.
Il cuore,
se callosa una mano lo sfiora e l’invita lontano,
la gola annerita risale pian piano
e, nel buio tepore, attende
e vuole ascoltare chi, a cavallo d’un raggio lunare,
nel comignolo scivola lento
e pianti e rimpianti porge alla fiamma
e (mistero di Dio immenso) vorrebbe infine sostare.
Sostare è ruga profonda
che, ai confini dell’ora solenne, tu scopri vermiglia
e ha scampo (eco preziosa e ribelle)
all’adunca mano del tempo
che urge, divora e scompiglia.
Fuori, nel composto letargo d’erbe e fanghiglia,
lunghe e nostre fremono possenti radici.
Radici son coppi ricurvi
che, dal gomito secco dei Bori,
con teneri occhi all’orizzonte tu cerchi
ché il sangue d’uno – alla lunga – è il sangue di tutti
e un avo materno ci nacque e, oggi, a vedere ci torna
che ancor ami il silenzio e la Terra.
Di terra (asciutta credo) e di pietra ha il volto,
d’umida terra il pensiero
e gli occhi d’acque azzurre fieri
che han mai visto il mare.
Da sempre son le nostre donne il mare,
il glauco mare immenso di silenzi (o d’esili sospiri)
ché, negli abissi, rade chetan burrasche
e, appena, al sole
vagìti tenui l’increspano e biondi figli.
I figli – un giorno – voce metton di terra
(asciutta credo),
di pietra il volto
e cessan di correre (uomini acerbi nella feria d’agosto)
dietro cani fedeli e intensi tigli.
La fatica
(retaggio d’uno che, prima della casa, già era)
di schiena c’è dentro e di braccia
ma ogni sera, curvi e callosi un poco,
a falce seduti la gettiamo nel fuoco.
Il fuoco ha l’ansito pesante e desueto il nome
d’un (lontano ancor) parente che, tenue lucore,
senz’orme aizzando vien (da dove?) i cani aperti,
a mezzo del cammin di fosche ore.
I tartufi, alti nel vento, non colgono odore
e ombra all’uscio nodoso non sosta.
Il campo (onde di buio e d’inviolabili sussurri)
volti ingoia di gente che bussa
– con garbo e a fatica –
alla porta del cuore.
Di paonazzo turgore
Venissero – quell’uve – da Coazzolo, Calosso,
Santo Stefano o Canelli
gracili m’enfiavan le dita di paonazzo turgore
e m’inarcavano timide spalle
ché il cuore (bigoncia colma di sogni)
ancor non sapeva sussulti d’amore
e le vigne solo oscure eran parole e strette di mano,
sotto cieli lontani.
Imboccare ripide scale era calare
(dolevano i denti alle labbra serràti)
nel tepido ventre d’una cantina vorace
e il Rosso sul carro
(più vuoto e più alto nel palmo dell’umida sera)
con foga l’acuminato tridente nella botte affondava
e l’estraeva, di gradi parlando,
lucente di sangue un poco e azzurro di bava.
Nelle gorbe sfrigolante e vischiosa agonia calava
di neri racimoli e tonfi sordi di grappoli,
grossi e magnifici quasi,
ché si staccavan
(capovolte piramidi, pesanti troppo di terra e di sole)
senza cesoie in carezze furtive d’api, di vento
e canti d’uomini e donne,
coevi intatti dei colli e del tempo.
Fra rulli nodosi remissivi acini
(dolci li si sapeva da sempre)
e raspi (riottosi e burberi invano) a reclamare
tralci e pampini larghi di fuoco
e lenzuoli tersi di cielo che, all’orizzonte estremo,
ingannatrici tendevano e, a notte, ricamavan
(d’oscuri poteri ebbre) le masche
che, nella succosa follia d’autunno, coll’uve
(per questo le gorbe sussurravano grevi?)
furenti guadagnavano tini e attizzavano mosti.
«Costi quel che costi,
questa è linfa per uomini
che han groppi saldi alle vene»
– sentenziava solenne mio padre –
«polsi larghi di quercia e mani pesanti
che sanno di terra, di ferro e di calce».
Odorava di forte trinciato
– mio padre –
e, paziente, riprendeva a fongare
e fongava con la calma di chi, nella vita,
già un dì sfiorato aveva la morte e l’aveva fissata
e (sortilegio di masche anche quello?)
l’aveva potuto narrare.
Ansando, colma d’issargli sognavo l’estrema bigoncia
e vischiosa riaverla più lieve
d’un tenero bacio di madre
e darla al Rosso sul carro
(ancora più vuoto e ancora più alto
nel palmo dell’umida notte)
col tridente fermo sul fianco
che, di bianco sudore imperlato, parlava
e parlava di gradi e batteva la botte.
«Più adagio… Giovanni… più adagio!»
Sentori di mammole viole e rose di macchia fragranti
vestivano asciutto il Barbera.
«Barbera dla bota stopa»
diceva – schietto – mio padre
che aveva groppi saldi alle vene
e polsi larghi di quercia e magli possenti alle mani
e mia madre che annuiva
(senza più forza e sorriso),
vite mansueta in un canto.
Calda di latte e di morbidi fratelli,
Renard (innocente ancora)
latrare udiva i remoti cani degli uomini.