La critica è indulgente coi corvi e si accanisce con le colombe.
Decimo Giunio Giovenale
Abbandonate la piccola e facile critica dei difetti per la grande e difficile critica delle bellezze.
François-René de Chateaubriand
La critica è una spazzola che non si può usare sulle stoffe leggere, dove porterebbe via tutto.
Honoré de Balzac
I giovini non possono generalmente esser critici; e, per due o tre che riescano, cento lasciano ai rovi della via i brandelli del loro ingegno o ne vengon fuori tutti inzaccherati di pedanteria e tutti irti le vesti di pugnitopi: la critica è per gli anni maturi.
Giosuè Carducci
NOTA INTRODUTTIVA
È stata la bontà di Gesù, tramite la lungimiranza di mio marito, a farmi conoscere – molti anni fa – don Giovanni Maurilio Rayna, rettore del Santuario di San Filippo Neri in Savigliano.
Ci eravamo appena trasferiti, dalla natia Casalgrasso, nella santarosiana città ed io, dopo cristiano matrimonio, non avevo più ripreso il mio lavoro d’insegnante elementare.
Poiché ero molto provata a causa della scomparsa della paterna nonna Francesca, in casa mi si consigliò di partecipare alla Santa Messa mattutina che, già allora, veniva celebrata nella suddetta chiesa.
Lì imparai ad apprezzare don Maurilio: l’esile figura, la dolcezza del volto e l’angelica sapienza delle parole emanavano copiosi fiotti di perdono e di carità, cristallini tesori di cui era (ed è tuttora) colmo il suo ministero.
Sotto la pacata (ma ferma) direzione di tanto presbitero, lo storico tempio di via Taparelli si andò via via trasformando: più luminoso e gioioso d’accogliere il Santissimo, a lungo esposto sull’altare e in attesa dei numerosi fedeli bisognosi di prostrarsi a Lui.
Essi – nel pur iperbolico 2012 – ancora consegnano, alla Sua infinita pietà, lacrime e sorrisi, incubi e speranze, titubanze martorianti e taumaturgiche certezze.
Nell’ampia sagrestia (silente e odorosa di legni nobili, nonché d’avìte memorie) campeggia – solennemente esortativa – una scritta in caratteri cubitali: “Celebra la Messa come se fosse la prima, come se fosse l’unica, come se fosse l’ultima”.
Infatti don Maurilio segue costantemente sì eccelsa massima, vivendo – con raccoglimento assoluto – il mistero di Gesù (Uomo-Dio), soffermandosi a lungo durante l’Elevazione, come misticamente rapito. Egli accarezza, con sguardi colmi d’amor filiale e traboccanti contagiosa devozione, l’Ostia appena consacrata.
Intensi minuti (quanti non è corretto sondare) di profondo raccoglimento, utili per schiere ragguardevoli di oranti, desiderosi di sempre meglio comprendere (e apprezzare) il sacrificio immenso e redentore del Verbo fattosi Corpo e Sangue.
La celebrazione della Messa – agli occhi di don Maurilio – è la miglior poesia che si possa comporre, giorno per giorno.
Mamma Adelina, nel nascondimento delle sue incomparabili semplicità e bontà, un dì gli affidò (facendone perno del proprio testamento) un compito da far tremare i polsi: «Voglio che tu sia un sacerdote santo!». La prese in parola e, da decenni, ci si va dedicando
– non glielo si riconosca! – senza risparmio d’energie e sacrifici.
Seguendo l’esempio del canonico, capisco che noi tutti possediamo non solo una prima casa qui in Terra, ma anche una seconda dimora – prenotata dal Crocifisso, per ciascuno, in Cielo – dove non si stanca d’attenderci una madre dolcissima: la Beatissima Vergine Maria.
Attorno a lui, presso l’altare, accorrono le Ancelle della Madonna: piccole bimbe e mansuete fanciulle che lo aiutano durante le funzioni.
Fuori del confessionale attende, senza tregua alcuna, una variegata coda di penitenti, perché, dopo avergli dischiuso sinceramente il ventaglio delle violazioni della legge etica e divina, ci si sente sollevati, sereni come quando si respira una boccata d’aria pura, in alta montagna.
Il mite rettore – rimessi i peccati e impartita la benedizione – sussurra: «Gesù non è un ragioniere, bensì Misericordia infinita!».
E si può, allora, riprendere la sconnessa strada della poesia e della vita, con la propria croce sulle spalle…
Francesca Cerutti
I
Quando Rayna incontra la Luce
Era giunta (dolce) l’ottobrina mestizia quando avevo osato immergermi, su amicale invito d’uno degli autori, nello specchio limpido del loro terzo florilegio antologico: “Dai fondali azzurri del cuore”.
Già accostando “Il mistico giardino” (1995) e il “Respiro d’infinito” (2003), ero giunto a tu per tu con percorsi tematici e stilistici non di poco conto; di quelli – intendo – che mettono alla frusta (e nel contempo deliziano) anche il lettore più esperto e l’uomo più sensibile, ché critico è termine, forse, foriero di soverchianti sgomenti e poco s’attaglia a chi – come lo scrivente – quotidianamente predilige i misteri soteriologici ed escatologici del lirico universo.
La lama affilatissima e breve del bisturi linguistico – che per lo più incide, seziona, pone in luce e analizza, in modo rigorosamente anatomo-filologico, i tessuti molli dell’etica e dell’estetica di un’opera letteraria (sia in prosa sia in versi) – non mi si confà, se non per rade licenze. Ma, in nome d’una granitica amistàde, a quale impresa non ci si accingerebbe?
Mi sono dunque avventurato, guidato dal provvidenziale lume della fede e spinto dalle flessibili pinne della speranza, nelle profondità più sconfinate e intime del poeta-sacerdote, desideroso e felice d’appurare che, tra le vicende dei due, non v’è poi differenza. Tra vita (in questo caso, presbiterale) e poesia (serratura, la prima, e chiave privilegiata per tentare di coglierne i sensi più riposti, la seconda) non sussiste dissonanza alcuna (né poca né leggera), accomunate entrambe da una sorta di elettivo apostolato artistico-ecclesiastico e da una cristallina trasparenza, che non ammettono reticenza alcuna.
È infatti noto, a quanti in varia misura e modalità corteggiano le geniali Muse (dispensatrici parsimoniose di alati canti, di sacri silenzi e di assonanti sussurri), che – citando l’aèdo livornese Luciano Luisi – «solo chi compie l’operazione di scrivere poesie si consegna fino in fondo: non solo l’ingegno, ma il carattere, gli umori, la natura, le idee, la moralità: la sua intera personalità è in gioco. I suoi versi sono specchio e radiografia».
La luce (spirituale o ambientale che sia), purché inondi il volto e, ancor più, i misteri del cuore, non dà facoltà di mentire o di imboccare repentine vie di fuga, anche solo parziali o temporanee: sulla resistente levigatezza dei fogli patinati si sono perciò sedimentati irripetibili capolavori di calligrafia (dal greco kalo`ß calòs “bello” e grawi´a graphìa “scrittura”) e di fotografia (termine derivante dall’unione di due parole egualmente di origine greca wv˜ß phôs “luce” e grawh´ graphis “scrittura”).
Bello – voglio dire – per cifra sostanziale e formale, ricca di apporti fondamentali l’una e singolare per leggiadria l’altra, ma corroborate ambedue (benché la poesia nessun rincalzo invochi, tanto meno quella angelica e ottimamente calibrata di Rayna) da traslati iconografici mozzafiato, ascrivibili alla naturale attitudine del marenese di elezione Enrico Vignolo ad entrare in mutualistica simbiosi con don Maurilio, quando vi sia da contemplare l’operosità di Dio, foss’anche nell’umiltà estrema del «colmar di sole il calice d’un fiore» o nell’apocalittica e fragorosa possanza del «curvar la selva sotto la bufera».
Abilmente destreggiandosi fra progressive chiusure/aperture di diaframmi, tempi di posa, scelte prospettiche, sensibilità di pellicole, esili calami intinti per costante impulso (senza limite e senza fondi) negl’inchiostri mutevoli (in tinte e densità), fra mille impennate di gioia e di tensioni, sottese ai più sacri fervori (emozionali e sentimentali), i Nostri con movimenti sincroni e con «bianche mani frugano la stoppia»: ricercano – nelle più riposte pieghe dell’anima – manciate di semplici chicchi di bene da offrire, nell’istante del supremo inventario, a Chi permetterà loro (e al lettore) di contemplare, oltre il tempo sapientemente donato e il temuto trapasso, l’orizzonte divino.
Il pio rettore di San Filippo e il suo devoto sodàle percorrono ed esplorano (ciascuno seguendo, con acribia, i dettami della propria conformazione artistica, nondimeno mantenendo intatti e saldi i vincoli di cooperazione fra il moderno-obbediente obiettivo e l’avita-indipendente Euterpe) il selciato qua e là ferito della vita (costellato di ciottoli d’ineffabili amaritudini, tondeggianti sassi levigati dal pianto sommesso, per lo più inconsolabile, d’alme generose o grette, serene o inquiete). Testimoni eloquenti e irrefutabili del dolore che – pungente rammarico, acuto supplizio, lutto particolare o universale – imperversa sull’umano consorzio, senza neanche risparmiare i «bimbi innocenti», strumenti docili all’inverosimile nel disegno salvifico del Padre e coadiutori del Figlio, immolatosi sulla croce redentrice.
Il dolore, a tratti delicato e spontaneo come «perle di rugiade», talvolta s’inabissa nel carsico terreno del mondano patire, vanificato dalla dilagante indifferenza dell’evo contemporaneo, sperperando (almeno a prima vista) l’oneroso tributo versatogli in sangue o in brandelli d’anima. Non c’è, però, tempo bastante per abbozzare una strategia che tenti di garantircene provvidenziale scampo o, almeno, di formulare una qualsivoglia (seppur impari) controffensiva: i versi corti e scarniti di “Fugacità” e di “Pietosa terra” (l’ascendenza ungarettiana ne è dote palpabile e condivisibile con apprezzabile parte di questo coinvolgente spicilègio) sottolineano, garbatamente, la caducità di tutto ciò che è, sostanza corruttibile – piaccia o no – a guisa d’un capriccio di sole su gocce d’acqua sospese nell’aria o d’un solingo sfrascar di foglie. Poi, “Quando la sera imbruna” e s’inseriscono in un registro eucaristicamente catartico “Le mani che splendono”, balena sagàce un “Pensiero d’autunno”. Nel suo corpus centrale, all’omofonia dei singoli enti (materiali o spirituali, sfumanti nel pianto sommesso e nel ricordo delicato di quanti sono ormai scomparsi) s’intreccia il mesto e poliedrico contrappunto della stagion terza. In essa (a poco a poco «sera/ fatta di silenzio e di foschia») già s’indovina il dissolversi dei terreni affanni nella crescente predisposizione all’estinzione fisica e all’acquetarsi, secondo il canovaccio noto soltanto a Dio, delle cullate (e infine deposte) ripromissioni, a tal punto che «già riposano/ le speranze morte nel nostro cuore.» Giusto, allora, che venga progressivamente definendosi il commovente “Turno di partenza”, parzialmente stemperato dal romantico parallelismo fra l’emigrazione (irta di insidie) delle rondini schierate sui concisi sussurri del telegrafo, «umili e attente» nell’attesa di spiccare il volo verso più clementi e propizie latitudini, e il giorno in cui (chissà quando) ai Nostri sarà dato varcare la labile frontiera che, eterea, delimita la materica caducità dall’eternità, immuni – in Dio – tanto dal giogo limitante del principio quanto dalla schiavitù mortificante della fine. «Ma nel cuore dell’uomo/ la Speranza può morire?» In un serrato tête-à-tête con l’accademico prussiano Friedrick Nietzsche (considerato, da alcuni, uno spartiacque fra la filosofia tradizionale e un nuovo modello di riflessione, aperta e provocatoria tramite “La gaia scienza” IV, 315), il canonico dell’insigne Collegiata di Sant’Andrea, implicitamente, ci convince che «questo nostro giorno è soltanto/ una vigilia» che, pur dibattendosi tra i perigli della quotidianità, consegnerà l’uomo al finale salvamento.
Vinta l’incruenta, ma decisiva, ‘battaglia’ contro l’antesignano dell’esistenzialismo, «l’oro dei colli» (futura sostanza e forma a venire del tondo-immacolato Pane degli angeli), i «rossi papaveri» (quattro petali fiammeggianti d’altrettante virtù cardinali imbevute del sangue, vivo e vivificante, dell’Agnello di Dio) e gli «azzurri fiordalisi» (espressioni fra le più spontanee dei campi e delicati emblemi di quella particolare beatitudine che, nella Corte celeste, darà facoltà di godere della contemplazione di Colui che è) giovano non poco al poeta, impegnato – fianco a fianco con l’attento Enrico Vignolo – nella gioiosa fatica d’un ancor lungo cammino lirico.
Ma i passi dell’anima – è assodato – sono di piombo; il tragitto martoriato e martoriante della vita (a prescindere dalla maggiore, o minore, longevità) non agevola il calcolo autonomo e la sicura sorveglianza di rotte esemplari. Nessuno è in grado di decodificare, a priori e con rassicurante nettezza, le caratteristiche peculiari della realtà che, di volta in volta, ci si para di fronte, recando sporte di luminosi sviluppi o di infausti sbocchi. Non resta che ricorrere – e non solo “Per un augurio” gratificante e un fondato presentimento – alla ‘bussola’, di cui ogni credente è stato prontamente equipaggiato dall’Increato, per gli effetti sacramentali del Battesimo: la Croce avvertita come unico, benché talvolta schiacciante, strumento di guida liberatrice da ogni male, che procede in primis al seppellimento dell’uomo “vecchio” e alla conseguente rinascita dell’“uomo nuovo”.
Essa lo inonda di “Innocenza”, comune denominatore fra l’infanzia (età scevra di colpe e ribalderie) e la vecchiaia (tempo di disinganno, affinato dalle impietose mole degli anni che, ad arte sovrapposte, hanno progressivamente avuto ragione delle naturali reità, masticandole «come ulive nere nel frantoio», sino a recuperarne l’oro zecchino del primigenio e gnomico candore).
Nel rarefatto sentire e nell’ancor più elevato vivere, le «strade» e «i prati», che ospitarono l’esuberanza dilettevole di chiassosi trastulli, sono svaniti nei meandri del divenire: a lisi acciottolati e a mille fiori campestri ora tenta di supplire «una rosa fiorita/ al davanzale», dispensando gli effluvi leopardiani d’una vagheggiata (e, forse, un po’ temuta?) “Solitudine”.
L’ascendenza dell’insigne Recanatese assume ulteriore consistenza sulle remiganti penne della Storia che, nell’altalenare di fatti ordinari o straordinari, dilegua e trascina via con sé i tesori più riposti dell’universo e dei figli di Adamo in (e con) esso vocàti a destreggiarsi. Tra loro si fa notare, anzitutto, la purezza fidente e pretta dell’età novella che pare dispensare stupori e attese lì per lì gratificanti, ma destinati, al contrario, a soccombere all’offesa del domani, incline (o giocoforza condannato) a nutrirsi di meri ricordi.
Se un capillare consuntivo dichiarerà la nostra coscienza deficitaria quanto «vuota la conchiglia/ sulla spiaggia del mare», non resterà che elevare uno stremato miserère a Dio, proprio a quel Dio rifiutato e respinto dal glaciale disamore dei mostruosi corifèi dell’ateismo (agonizzanti fra i marosi irruenti della vita, nicchia inondata da assurde chimere se non addirittura colma del nulla tipico del più desolato, e desolante, materialismo). Turbato da tanta aridità spirituale, il sacerdote-poeta (notoriamente scevro dalla blandizie morbosa della dissipazione del terzo millennio) si dispone, quasi riparatrice vittima sacrificale, ad offrire a Cristo, per cui «non c’era posto», una calda e piena accoglienza in sé, sino a riempirsi (e riempirci, se vorremo) della Verità rivelata e nondimeno vilipesa.
Di rimando la sera (breve intervallo nell’anàbasi verso la Corte celeste) e i più disparati, ma compunti, elementi del cosmo metaforicamente (o realmente?) cangiano nei riverenti strumenti dell’ecumenica liturgia, tanto che «la montagna è l’altare,/ le betulle son candelabri d’argento,/ l’incenso è il profumo delle acacie in fiore,/ dove s’inerpica il sentiero/ alla cappella del paradiso.» In un acconto d’empireo, versato con materna premura dalla Vergine (intenerita dal graduato e accordato «carillon delle campane», che melodiosamente La onora), felici e degni di benevola invidia saranno coloro che assumeranno coscienza della precarietà che li accompagnerà, a poco a poco, verso «l’autunno della vita.»
E il cuore di Rayna sussulta (privilegio dei vati e dei più illuminati fra i penitenzieri) al cospetto di pupille che gli permettono di penetrare nell’intimo mistero dell’innocenza infantile, della sollecitudine materna, della rigenerazione a nuova vita, del languore del morente, del livore insito nell’iroso, del buio di chi privo della vista giace in un baratro senza fondo, della rassegnazione muta di coloro «che non hanno più lacrime da piangere» eppure possono essere uditi e compresi da chi sa santificare il presbiterato.
Ma la bellezza (o apparenza) dell’aspetto esteriore non di rado inganna, come “Civettuola al vento candida betulla” o “Come il fiore del campo”, in un baleno carpìti «alla festa del prato».
“La grande sera” ci condannerà – è cosa sicura – al gorgo della transitorietà e finànco dell’«ultimo addio», allorquando solo l’altrui mente rinverrà, nel tramaglio del presente mutatosi ex abrupto in memoria, «la spensierata letizia dei novelli anni,/ non più nostri».
Mai doma, però, la cifra francescana («saprò amare/ senza chiedere in cambio di essere amato») torna a fare capolino e, cimando lo scoramento svettante, riprende a guidare il poeta (e i suoi più tenaci figli spirituali) verso un contesto sommessamente dialogico, nell’assidua ricerca del «sentiero che conduce a Te», consapevole – don Maurilio – che, unicamente quando avrà «fatto olocausto» della propria carne e lasciato «il corpo/ all’amata terra», gli sarà possibile appagare l’ardente sete dell’anima e vedere, all’unisono con il Salmo 42, «il volto di Dio».
Ma la voracità del divenire (dantescamente «carco nella sua magrezza») avrà sorprendente epilogo nella «dolce quiete dell’inverno». «Il tempo» proseguirà infinitamente oltre il segmento cronologico soggettivamente toccatoci in sorte e, nella sua (talora angosciante) limitatezza, ci indurrà a riconoscere che «è sempre più tardi di quanto pensiamo».
Ci rincuora (e non poco) la propensione del poeta ad essere “Una povera fontana” dal getto consolatore, vivificante e dilettoso, utile soprattutto nei frangenti più difficili o incerti a cui, nel ginepraio della quotidianità che «intristisce la pianura», deve far fronte anche il Nostro, creatura pur sublime a cui tende comunque agguati quell’insidiosa sete che da sempre assedia l’umana progenie e «scolora l’aceraia», nella costernazione che ne può conseguire.
[continua]