A Rita, donna di alto profilo morale
che mi ha stimolato alla realizzazione del libro
e a mia nipotina Giorgia che mi ha inebriato
sillabando le prime parole.
“Quali fioretti nel notturno gelo,
chinati e chiusi, poi che il sol l’imbianca
si drizzano tutti aperti in loro stelo…”
Dante, Div. Comm, Inferno, II, 127
POESIE
Vi entro piano piano
(a mia madre)
Innesca, entrando nella casa dopo anni,
lo scrocco secco della serratura
un turbinio di fitte e sensazioni tutto a un tratto,
riapre il cerchio ormai conchiuso dalla rimozione dei ricordi.
La casa ha ritrovato le sue forme, il suo disegno.
Vi entro piano piano accarezzando della porta
il pomo del pannello, come mia madre, con un sorriso
amaro fece, per l’ultima volta, prima che una prematura
[fioritura
d’asfodeli preconizzasse il tempo della dipartita.
Vi entro piano piano assaporando la vampata di calore
che si diparte dal camino, invade
le curve dei mobili, le tende, le anse degli alari
e, vaga, la parvenza di un sorriso disarmante che rincuora
da sconforti additando strade nuove…
Dal pomario, ove s’infittiscono già le ombre,
entro nel giardino a meridione e già m’abbacina
lo sfolgorio del sole con l’effluvio delle rose
che a tardo autunno ancor sciorinano profumi.
Ne colgo una, una rosa tea, e la depongo,
come lei faceva a maggio, per Santa Rita, in una nicchia…
ancor stranito dal profumo,
del tempo andato mi s’avviluppa l’eco.
La fluidità del tempo andato e l’amara constatazione della perdita della madre innerva una sequenza di immagini dedicate alla casa natia: lo scrocco secco della serratura riaccende i ricordi del camino, delle curve dei mobili, delle anse degli alari, del pomo del pannello della porta da cui, uscita per l’ultima volta per la malattia, la madre non è più rientrata.
Una rosa colta, come lei faceva in una nicchia per la ricorrenza di S. Rita, scatena il turbinio dei ricordi di un amore indelebile.
Pan
Ricordi la promessa vaga,
ai tempi del liceo, allor che un’egloga maliarda
travolse i sensi a primavera?
E quella strofe alcaica
di quando Pan affonda puntuti zoccoli
nel ventre molle della terra,
con un balzo, ebbro, s’affaccia
fra il folto delle foglie
e plana sull’acciottolato misterioso delle stelle?
Oggi, a tardo autunno, m’inebetisce
lo sfilacciarsi immaginifico di nebbia che risale
da uno squarcio luminoso sulla valle,
il fulgore del tuo sorriso
filtrato da un opercolo di luce,
la danza arcana delle tue movenze.
Balugina un vago sole tra il fitto della nebbia
ed ancora riappare Pan ad istigarmi…
Dalla pergola, con un roccolo,
insidio la poesia fra le lane delle nuvole
e la blandisco con la mia matita
intrisa di malinconia.
Un’egloga maliarda recitata ai tempi del liceo scatena un turbinio di ricordi e scuote i sensi come avvenne in quella lontana primavera.
Pan, il dio dei boschi, indusse allora istinti irrefrenabili mentre con un balzo immaginifico raggiunse le scie misteriose delle stelle.
Passato è il tempo, la primavera ha ceduto all’autunno e dopo le macerie disseminate lungo il corso della vita, tra il fitto della nebbia si intravedono il sorriso della donna amata e Pan che ritorna ad istigare l’amore con l’afflato poetico della malinconia.
Miraggi senza scampo
Certo non fu per caso quando ti dissi
che a nulla vale struggere i sensi
per quell’inquieto trepidar dell’aria
mentre rovista fra varchi tremuli di fronde
ed un lucore intermittente di brividi
di cielo e foglie s’imprime
di labili sussulti sullo stupor dell’iride;
per lo star del lampo che folgora
all’istante l’errabondo remigare
del gabbiano nella notte in sul filo
d’intentate lontananze;
per la precarietà del tempo umano, effimero
come cumuli di pietre smosse,
erette a segnavia nel mare incerto
di rovinose frane di morene;
per il giorno stanco dei ghirigori della sorte
inabissata in grovigli di crepuscolari sfide
tra gli abbagli della luce con gli abissi della notte;
per il sentore d’alga e di salsedine
avvinghiato a bave instabili di nuvole
che il cielo dissemina stupito ancora a spaglio;
per quel mare grosso che sciaborda
ed errabonde spore semina sulle spiagge,
aspettative d’altre vite.
E tu che vuoi, vuoi ancor sperare
nel rifarsi d’altri mondi
tra miraggi di luminescenze in controsole…?
Eppur la terra, la vedi camuffarsi
di visioni senza scampo
che, illusa, sublimi e tenti d’eternare in elegie!
Poi t’accorgi che realtà non è ciò che vedi,
il senso non è in questo fingere,
pur se insiste il tarlo ricorrente
che la finzione sia via di fuga, unico rimedio
alla lancinante fitta del male d’esistere.
Ma… secche ormai sono le drupe, bacche rinsecchite
da cui estrarre essenze dal residuo degli umori,
il mistero del tuo viso, estasiato un tempo
da subiti stupori, già s’appanna increspato dalle rughe;
dall’inestricabile groppo di memorie
più non ammicca un minimo barbaglio
al fremito dell’alba.
Il corso della vita è miraggio in cui l’uomo si strugge inutilmente tentando di fissare un punto fermo alle proprie vicende eternandole in scansioni di felicità. L’uomo sa di impigliarsi nei ghirigori della sorte e d’inabissarsi nei grovigli di crepuscolari sfide tra la luce ed il buio, tra il bene ed il male; in questa dissonanza che assilla può solo sperare che la sorte (il mare) dissemini spore a spaglio per nuove linfe di vita. Pur consapevole che la terra si camuffa di visioni senza scampo e che tutto è illusione, l’uomo si rifugia nella finzione, intesa come via di fuga per rimediare alla lancinante fitta del male d’esistere.
L’amaro finale è che la finzione non lascia intravedere un minimo barbaglio di luce.
Rifrazioni di suoni e di parole
Sciara surreale di suoni antichi
son le parole che la memoria ancora attizza
e intermittente rimanda l’eco
con l’onda irripetibile del vernacolo.
Scampoli di voci umane, reificate in segni,
incistate come il fuoco fondo
di una lingua che s’attarda a raffreddare il fronte,
ancor disvelano la stranezza inusitata delle forme,
l’incanto strascicato di una filastrocca,
lo smacco plateale di una beffa,
l’arguta chiusa ironica sulla vacuità dei vezzi.
Fantasmi onirici di voci riaccendono la miccia
del tempo consumato, approdano sul pianoro
di una cengia ove occhi di fanciulli
increduli si perdono nella trama misteriosa
delle stelle e i timpani si squassano
al fragor immaginifico di mondi ascosi.
S’affollano e dileguano nella sciara
delle cose andate il fuoco che romba
nella stufa, la polenta fumante sulla madia,
nel candore immacolato della neve
il rossiccio della lepre alla pastura,
gli schiamazzi dei bambini sulla piazza,
il rigurgito del tempo che annaspa verso un esito,
la malia della tua figura che in controsole
s’illumina e vanisce col crepuscolo nel buio più fitto.
Suoni, immagini, parole, giungono ormai rifratti
come festuca immersa nella pozza,
come un fragor di tuono che fievole
si smorza e rimanda l’eco in lontananza
nel fondo dei dirupi della valle.
Come dalla sciara di un vulcano che ancora ribolle, dal profondo dei ricordi la mente attizza suoni e parole dialettali ormai desuete, ma che invece sono profondamente incistate nell’animo e che riemergono sublimate in segni, in forme strane ed inusitate di filastrocche, beffe, arguzie contadine:
colate di immagini e sequenze che si ripropongono sullo sfondo di cieli stellati scrutati da occhi di fanciulli increduli, col sentimento proprio di un amore conviviale attorno al focolare, con la polenta fumante sulla madia o con la rossa sagoma della lepre alla ricerca di qualche sparuta erba sulla distesa immacolata della neve.
Immagini di un tempo tanto lontano che quasi a fatica riemerge in superficie verso un esito reale e vivifico, distorto come l’immagine di un fuscello immerso in una pozza d’acqua.
RACCONTI
Sotto la cenere
Può darsi
che sia vera solo la lontananza,
vero l’oblio, vera la foglia secca più del
germoglio. Tanto ed altro può darsi o dirsi.
E. Montale, Satura II, ex voto.
Vi dirò come è nata l’idea di questi racconti, la cui trama, pur affievolita dalla vaghezza del lontano ricordo, dovrebbe avere un capo ed una coda, per così dire una sorta di filo conduttore.
Si tratta di un’esposizione di momenti, un’aggregazione di esperienze che scorrono dai primi giorni dell’infanzia fino ai vent’anni: proprio quegli anni di cui resta un fumoso ricordo annaffiato quasi sempre dal nostalgico rimpianto di un Eden che in realtà tale non era, ma che la luce velata del ricordo e la nostra memoria ingannevole rendono tale.
Forse questa mistificazione attraverso il ricordo è il dono più grande che ha forgiato per noi il Creatore, perché, come in un lavacro universale, si attenuano le ombre e in positivo si amplificano le luci della nostra esistenza.
Come innanzi dicevo, della mia vita ormai matura, indaffarata e conturbata da tante piccole e a volte grosse grane che fanno perdere il senso del fluire del tempo, avevo dimenticato, quasi stralciato, i ricordi della gioventù.
A volte penso che questi non si fanno riemergere volutamente e caparbiamente si imprigionano in un forziere di cui noi stessi siamo gli inconsapevoli custodi.
In verità qualcuno di questi sprazzi del passato riaffiora come a bilanciare il lato un po’ opaco della vita, ma quella volta fu un’onda prepotente con cui tutti insieme mi assalirono e mi avvolsero con le spire della dolcezza, della malinconia e del fulgore.
Un raggio di sole in soffitta
Fu proprio un raggio di sole in soffitta a far riemergere cose, volti, ricordi che si agganciano l’uno all’altro, fitti fitti come il pulviscolo che galleggiava nell’aria perforata dal raggio di sole e che attraverso una tegola aveva colpito la capanna in legno del presepe: eccola ancora intatta, forgiata a grotta, col fieno nella mangiatoia e le statuine in gesso tenuemente colorate a pastello, frammiste a muschio ormai secco, alle casette, ai ponti, ai castelli in legno in gran parte costruite con le mie stesse mani sotto la direzione della maestra o di mia madre, quando le rimaneva qualche ritaglio di tempo.
La cornice di questi ricordi è in una lontana plaga dell’Appennino Ligure-Piemontese ove le colline dell’Alto Monferrato si abbarbicano ai monti; per collocarlo topograficamente diciamo che dista venti chilometri da Novi e circa sessanta da Genova.
È Bosio il paese dell’infanzia, dei giochi, dei primi amici; ineguagliabile ed indelebile è il fulgore e il nitore del ricordo.
Qui ritorno a passeggiare e a discorrere con gli amici rimasti, quando il dolore o le avversità della vita mi inducono a interrogativi o a prefigurare tristi presagi: qui le tensioni si affievoliscono e torno a pensare in positivo e a sperare.
Basta salire verso Sud, sui primi contrafforti dell’Appennino e ammirare il paese dall’alto, adagiato a forma di S sulla sommità dei crinali collinari, con le sue case tinteggiate del caratteristico color ocra e coi tetti rosseggianti su un paesaggio immerso nel verde dei vigneti e a maggio nell’oro delle ginestre in esplosione di fioritura.
Qui mio padre Fulvio, dopo aver conseguito la laurea presso l’Università di Genova nel lontano 1924, aveva ottenuto l’incarico di medico condotto.
Laurea sudata, mi diceva, ed ottenuta con notevoli sacrifici in un tempo che seguiva di pochi anni l’immane tragedia della prima guerra mondiale.
Per il matrimonio dei miei genitori, mio nonno, dalla parte materna, aveva offerto in dote – così allora s’usava – una bella villa digradante a terrapieni sulla collina Frescaria (toponimo attribuito alla collina per l’aria frizzante che a sera scendeva dall’alto nelle calure estive).
Costruita nel 1936 sotto la direzione di un architetto, era per quei tempi quanto di meglio si potesse pretendere a livello di comodità per un paese di campagna.
Ricordo lo stupore e il pizzico di invidia dei ragazzi coetanei che consideravano dei privilegiati noi, figli del “meghu” (medico) in un periodo in cui, vuoi per i disastri della guerra del 1940, vuoi per la ricostruzione che nei primi anni postbellici si avviava a stento, le finanze e i menages familiari volgevano più sullo stento che sulla cornucopia.
D’altro canto nel paese non esistevano ville analoghe e, se v’era qualche discreta abitazione, non aveva certo le proporzioni e le comodità della nostra: composta da sedici locali, di cui quattro provvisti di tre o quattro finestre, era senz’altro accogliente con spazi ben articolati, aerati e pieni di luminosità.
Ampi terrazzamenti, sostenuti da solidi muri che digradavano sulla collina, erano adibiti a giardino od orto ed erano perennemente esposti e soleggiati nell’arco dell’intero giorno, mentre una fila alberata di acacie e qualche abete, collocato in punti adatti, consentivano riparo e frescura.
Il terreno attiguo alla villa era ben coltivato ad opera di un contadino del paese e disponeva persino di un appezzamento adibito ad asparagiaia e carciofaia.
In un remoto angolo della proprietà due piccoli locali erano adibiti a ricovero del pollame, conigli e colombi.
Vicino al pollaio una costruzione in muratura costituiva un comodo riparo per i cani che ebbero un ruolo importante nella nostra infanzia.
Sul piano stradale era situato un ampio garage per l’auto e in questo ambiente mio padre aveva fatto scavare nella roccia un piccolo rifugio in funzione antiaerea; ricordo che durante la guerra fummo condotti qualche volta in questo cunicolo in occasione di qualche raro, per la verità, mitragliamento dei caccia americani.
Il riscaldamento centralizzato, con radiatori in ghisa in tutte le camere, rappresentava il fiore all’occhiello per questa abitazione; la caldaia naturalmente era a quei tempi alimentata con carbone e a noi ragazzi toccava il compito, se ci trovavamo in casa, di riempire di combustibile appositi contenitori, per poi rovesciarli nella bocca dello stufone sempre rovente come le fauci del Minotauro.
Dei primi cinque anni di vita non mi restano che alcuni labili ricordi, come del resto capita a quasi tutti i ragazzi di quell’età.
Di certo mia madre Elsa dovette molto penare per allevare tre figli, mentre mio padre, che aveva già combattuto durante la “grande guerra” come ragazzo del 1899, sempre ligio al richiamo della patria e al senso del dovere, era partito, come capitano medico, per dirigere un campo ospedaliero sul fronte libico, percorrendo e ripercorrendo in opposte direzioni quell’enorme scatolone di sabbia a seconda delle alterne vicende belliche.
Mia madre ebbe contatti epistolari con papà con una continuità piuttosto regolare: quando nacqui (io e mio fratello gemello), mio padre fece issare due nastri azzurri sopra la tenda da campo.
Questi, in occasione di un contrattacco operato dagli inglesi nella zona di Marsa Matruk, rimase nella sacca e fu fatto prigioniero; infine, insieme a numerosi ufficiali medici, fu trasferito oltre il confine egiziano in un campo di concentramento.
Bruscamente si interruppe la corrispondenza postale e mia madre temette per il peggio; inoltre la sua angoscia fu ancor più aggravata da un compaesano (certo Fiorino) che, attendente di mio padre, era riuscito a sfuggire all’accerchiamento ed asseriva al rimpatrio di non averlo più visto.
Rassicurava peraltro dichiarando che con tutta probabilità, come ufficiale, lo avrebbero internato nei campi prigionieri in India!!
Con tale non certo allettante prospettiva, ma con il realismo che la contraddistingueva, mia madre dovette sobbarcarsi il pesante onere del nostro mantenimento dopo che si erano esauriti i pochi risparmi, peraltro svalutati da una crescente inflazione.
Poiché si era laureata in lettere antiche presso l’Università di Pisa, ottenne un incarico presso una scuola di Gavi gestita dagli ecclesiastici “Figli di Maria”.
Non disdegnò neppure (e come avrebbe potuto con i figli da sfamare!) avventurarsi più volte con un calesse fino a Frugarolo, suo paese d’origine, ove alcuni parenti le assicurarono il grano per tirare avanti; altre volte si diresse in treno verso la Liguria per racimolare quel poco d’olio d’oliva disponibile col rischio di sequestro della merce.
Come con estrema modestia aveva rinunciato ad una potenziale carriera di insegnante per dedicarsi con amore ed abnegazione ad una oscura vita, moglie di un medico di uno sperduto paese di campagna, così, nel momento del bisogno, rispolverò il suo sapere, dedicandosi all’insegnamento dei classici.
Seppe sempre svolgere alla perfezione il proprio compito e non ricordo una cuoca così raffinata, alla continua ricerca di ricette, di sapori superbamente combinati per la gioia del nostro palato, costituendo ciò buona esca per trattenerci riuniti a tavola e ad assaporare il senso più profondo dei legami familiari.
Tornando ora al papà, dopo un periodo di prigionia in Egitto, ebbe la fortuna di partecipare ad uno scambio di ufficiali medici prigionieri concordato con il comando inglese (di medici sentivano estrema necessità sia inglesi che italiani) e fu rimpatriato.
Ricordo che mia madre riferì di essersi opposta fermamente quando il marito, neppure richiesto dalle forze armate, aveva avanzato l’idea di andare volontario sul fronte russo.
Così dolce e comprensiva, quando riteneva di difendere nel giusto una propria tesi, mia madre era caparbia ed irremovibile anche con il coniuge che era noto accendersi come un fiammifero nei suoi scatti collerici.
In questo caso era del tutto fuori luogo anteporre l’ideale della patria ai figli, tanto più che mio padre per ben due volte aveva “assaporato” il fronte.
La spuntò mia madre anche perché, dopo le esperienze del fronte bellico, vacillavano in lui certi imperativi categorici che avevano sorretto la sua patria fede.
Aveva vissuto di persona le false promesse, i tradimenti di certi personaggi che, anziché inviare in Libia la necessaria benzina, facevano riempire le cisterne delle navi di acqua proprio prima delle battaglie decisive; aveva capito che non era sufficiente strombazzare i milioni di baionette, quando gli angloamericani schieravano in linea ottimi Schermann o Spitfire nettamente superiori ai nostri mezzi scarsamente corazzati od ai pochi antiquati aerei disponibili; aveva constatato che anche Rommel non aveva potuto simulare a lungo la scarsità di mezzi producendo dei polveroni con quei pochi che gli restavano.
Guerra quindi per noi persa quasi in sul nascere, soprattutto poi con l’entrata in azione degli U.S.A. che profusero nel teatro bellico tutta la loro inesauribile potenza economica.
Il fascismo cominciava a perdere il suo smalto, anche se restava l’esteriorità formale del regime, ma nelle coscienze si insinuava sempre più la certezza della sconfitta finale in un’avventura che per Mussolini era consistita in un vero e proprio gioco d’azzardo.
Mio padre da allora tirò le sue conclusioni e mise i remi in barca, non esecrando o esternando la sua estraneità al fascismo, come poi fece la maggior parte degli italiani che deposero stemmi e fasci littori, dei quali si fregiavano pomposamente il giorno addietro.
Non espresse più opinioni, disinteressandosi alle vicende del regime, come uno che ha subito una profonda ed amara delusione.
Continuò a fare il medico con grande dedizione, senza distinguere fra repubblichini e partigiani, prestando le sue cure agli uni e agli altri con il senso professionale ed etico della missione.
Forse fu proprio questo comportamento dignitoso ed imparziale a salvarlo (era stato nel passato segretario del partito fascista in un piccolo paese che vide poi formarsi i primi nuclei partigiani) unitamente al fatto che in quei tempi un bravo medico faceva comodo a tutti
Quando però si avvicinò la fine della guerra ed era ormai certo che non si sarebbero più verificate reazioni tedesche, si scatenarono odi e vendette e, peggio, alcuni, artatamente e con delazioni non certo veritiere denunciarono persone per trarne profitto.
Ricordo che a guerra ormai da tempo ultimata, si presentarono i carabinieri a casa nostra invitando mio padre a seguirli: venne rinchiuso, come prigioniero politico, prima a Novi e poi al Forte di Gavi.
Delatore in quell’occasione fu una persona che, avendo un figlio appena laureato in medicina, voleva spianargli la via, allontanando in qualche modo mio padre dalla condotta di Bosio.
La situazione si presentava estremamente grave per mia madre che cercava di sdrammatizzare e rassicurare noi figli che, però, cominciavamo ad intuire che il distacco da nostro padre non sarebbe stato di breve durata.
Un ruolo di non poco conto ebbe in quel periodo la nostra baby sitter (Rina) che, con la dedizione che sempre ha contraddistinto la sua famiglia, seppe infonderci quella sicurezza che, senza la presenza di mia madre, sarebbe di certo in noi scemata.
Quest’ultima, infatti, non confidando più sulle “istituzioni” si rivolse al comando dell’esercito inglese di stanza a Verona.
Solo il grande amore per i figli ed il marito e l’inflessibile certezza di essere nel giusto potevano spingere una donna ad affrontare l’incognita di una possibile incomprensione o, peggio, di atteggiamenti aprioristicamente prevenuti.
È certo che la sua caparbia determinazione poté rendere giustizia dell’incomprensibile e persecutoria mistificazione dei fatti che condussero mio padre alla condizione di prigioniero politico.
Il Comando inglese, dopo le necessarie indagini, intervenne pesantemente su quello italiano, che non seppe dare plausibili giustificazioni all’arresto e allo stato di recluso di mio padre, se non adducendo il fatto “che era stato od era fascista”.
E chi non lo fu?
Questa perentoria ed inequivocabile affermazione del comandante inglese che assunse il caso fu, di certo, risolutiva a fronte di possibili obiezioni. Infatti non vi fu contraddittorio e pertanto mio padre fu liberato.
Strano e non unico, ma emblematico caso questo di sottrazione giurisdizionale ad una nazione che tale, al momento, non poteva più definirsi sotto il profilo dell’equità, dell’equilibrio di giudizio, scossa da sussulti indefiniti e da rigurgiti dei più biechi e protervi comportamenti dell’uomo, piombato nella guerra civile.
Non v’è da generalizzare invero: qualche profondo senso della giustizia, della dignità e della lealtà esisteva di certo, ma era pur raro in quell’Italia del dopoguerra che stentava a ritrovare una propria identità.
Si può affermare che nei piccoli paesi, come Bosio, che avevano subito il grande peso della reazione nazista alla guerriglia partigiana, scemato il pericolo, si sentì pressante l’anelito verso un ritorno alla normalità ed un senso di netta repulsione all’ingiustizia.
Così per il caso di mio padre, oggetto della citata mistificata delazione, ricordo una manifestazione spontanea la sera stessa in cui fu annunciata la sua liberazione.
La casa della persona che dai più fu identificata quale responsabile, fu presa a sassate da gran parte della popolazione; i vetri delle finestre furono infranti e ricordo Gino, un amico sempre riottoso ad ogni forma di ingiustizia, armato da una intera cassa di gazzose mentre colpiva ogni vetro della casa.
Riconoscimento quindi alla figura di mio padre, che, nonostante il suo carattere irascibile e scontroso, sapeva infondere fiducia e rispetto per la statura morale ed il senso di abnegazione che lo portava a prodigare la sua professionalità al servizio della popolazione tutta.
Una profonda repulsione ad ogni forma di costrizione ed un anelito alla libertà, che consegue ad ogni tensione sociale, pervadeva l’Italia uscita da una guerra sostanzialmente non voluta e che, proprio per questo, costò molto cara agli italiani.
Così anche in questo sperduto paese di campagna dell’oltregiogo Ligure-Piemontese la gente faceva i propri conti ribellandosi ad ogni forma di sopruso.
Nel 1945 gli abitanti di Bosio, allora frazione di Parodi Ligure, con una manifestazione spontanea, diedero l’assalto, alcuni anche muniti di armi, al palazzo comunale, operando un po’ brutalmente la liberazione da una dipendenza storica della frazione dal Comune che risaliva ad epoca medioevale.
Del resto sia la popolazione che il territorio di Bosio erano di gran lunga più grandi rispetto a Parodi: insieme raggiungevano circa 64 chilometri quadrati, contribuendo ciò ad annoverarlo fra i Comuni più vasti d’Italia.
Questa aspirazione alla libertà svincolata da ogni potere, quasi fosse anarchia – che sfociò in questi avvenimenti volutamente provocati nella certezza che le Istituzioni pacificamente non sarebbero intervenute a sanare una anomala situazione, creando due Comuni distinti – pervadeva anche noi ragazzi che a stento fummo trattenuti dalle madri (quelli più grandi parteciparono almeno visivamente all’assalto).
A fine guerra v’era un’insana voglia di venire alle mani, un senso di competizione fra paese e paese e fra borghi dello stesso paese: probabilmente ciò fu dovuto alla ribellione al senso di impotenza che aveva pesantemente pervaso gli animi in quegli anni legati all’occupazione nazista.
Di certo, comunque, una pazza voglia di vivere serpeggiava tattilmente, soprattutto nei giovani che davano sfogo, a pace proclamata, alle pulsioni giovanili.
Noi ragazzi ascoltavamo i racconti, le epopee (almeno così tramandateci) che riguardavano il periodo bellico: l’eccidio dei giovani partigiani alla Benedicta, coloro che erano riusciti a sfuggire alla mitragliatrice tedesca che nel 1944 aveva falciato tante giovani vite, le cascine assalite e bruciate per rappresaglia, gli accorgimenti per sfuggire al rastrellamento nazista, il coraggio e l’abnegazione di alcuni montanari che diedero protezione ai partigiani.
Erano avvenimenti raccontati, a volte da chi diceva di averli vissuti personalmente con il pathos, l’amarezza o la voglia di vendetta, a volte riferiti per sentito dire e quindi con aggiunte fantastiche che allontanavano i fatti dalla verità storica.
Ricordo sempre un partigiano scampato all’eccidio che riferì di aver visto la tragedia con i propri occhi: sfuggito ai tedeschi ed infilatosi nel tronco cavo di un secolare castagno, di quelli colpiti dalla malattia negli anni ’30, aveva assistito impietrito all’esecuzione nazista; riferì di sentire ancora oggi, nel dormiveglia, il metallico suono delle mitragliatrici e le urla di morte dei giovani falciati.
Carri trainati da buoi salirono dal paese per raccogliere le salme alla Benedicta.
Strano nome questo che farebbe pensare ad un luogo di santità e venerazione ed in effetti lo fu fin dal Medioevo: allora era denominato Grangia della Bruversa, eretta dai monaci benedettini nel 13° secolo d.C. in riconoscimento delle donazioni loro fatte da Guglielmo di Parodi. Chiesa e monastero dipendevano direttamente dalla sede principale di Rivalta Scrivia e la loro importanza risulta comprovata dal diploma del 6/4/1217 con il quale l’imperatore Federico II li prende sotto la sua protezione.
Rivalta poi, dalla quale dipendeva anche il monastero del Porale (vicino all’attuale passo della Castagnola, fra Voltaggio e Busalla) venne a sua volta presa sotto la protezione papale con una bolla del giugno dello stesso anno emessa dal Pontefice Onofrio III.
Questo luogo fu anche teatro di grandi tragedie e misfatti: il 14/1/1206 i castellani di Gavi pronunciarono una sentenza a carico di un certo Guercio Tignoso di Gavi con cui gli confiscarono i beni e lo mandarono in esilio per aver depredato la Grangia, interrotto le strade, spogliato i beni dei monaci e pellegrini e fatto strage di un certo numero di uomini.
La storia dei misfatti ed eccidi si è ripetuta anche con la tragedia partigiana e forse è imperscrutabile il disegno divino di eleggere luoghi sacri a scenario di drammi umani; forse potrebbe intendersi come un avvertimento semantico per esecrare le colpe in vista di un futuro mondo di redenzione e giustizia.
I carri lentamente ridiscesero verso Bosio, trainati da coppie di buoi, sobbalzando col loro carico di morte per tre ore sulla strada sconnessa di montagna.
Poi, a seconda della provenienza, dopo il riconoscimento da parte dei parenti, i cadaveri furono trasportati nei paesi del fondovalle (Bosio, Alice, Gavi, Serravalle, Voltaggio etc.).
Una stele vicino all’attuale cimitero di Bosio fu eretta e su di essa sono stati incisi i nomi dei caduti; seguì a distanza di tempo la costruzione del sacrario della Benedicta, inaugurato dal Presidente della Repubblica Saragat.
Disturba ora osservare come il vecchio insediamento, ormai dirupato, sia lasciato in stato di abbandono e stia cedendo pian piano all’assalto della natura, fatto salvo qualche piccolo intervento di recupero; temo che, se le Istituzioni, preposte alla conservazione di queste memorie storiche, non interverranno con celerità, il territorio che insiste sulla Benedicta sarà preda dell’intrico vegetale dovuto all’abbandono.
[continua]