Storie di viaggi lavori incontri

di

Giovanni Tini Brunozzi


Giovanni Tini Brunozzi - Storie di viaggi lavori incontri
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 120 - Euro 11,00
ISBN 978-88-6587-7890

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In copertina e all’interno fotografie dell’autore


Storie di viaggi lavori incontri


Dal copialettere


Nakorn Sawan (Thailandia) 07-07-1962.

– …a proposito di piogge, quaggiù sono in fase crescente ostacolando oltremodo l’andamento dei lavori. Quando viene giù, sembra una maledizione. Al mattino il cielo è una concentrazione di nuvoloni scuri e bassi, e già a quell’ora, il caldo afoso toglie il respiro. Poi, poco prima di mezzogiorno arriva un vento fortissimo, il monsone, che piega le palme e gli alberi e trascina via tutto ciò che non ha radici. Seguono quindi rovesci d’acqua simili più a cascate impetuose che alla pioggia a cui siamo abituati. La gente locale non corre a ripararsi, anzi, ne approfitta per rinfrescarsi un po’ ed ognuno seguita la propria attività o il proprio andare con la flemmaticità di sempre. Alle donne che lavorano con noi, perché circa il dieci per cento della manodopera è al femminile, il sottile vestito di cotone, unico indumento che portano addosso, bagnato dalla pioggia, si appiccica ai loro corpi come carta velina facendo risaltare in modo evidente le loro protuberanze ed infossature; ma nessuno sembra farci caso all’infuori di noi italiani. La sera, quando salgono sugli autocarri per rientrare al campo centrale, cantano accompagnandosi con tamburi improvvisati con i “pintò” (pentoline portapranzo) traendone improvvisazioni musicali di grande effetto. Qualcuno balla sul cassone del camion e la frenesia della danza si trasmette anche alle persone lungo la strada, che per un momento, si agitano ondeggiando il corpo e le braccia. Il loro spirito folcloristico ha qualcosa di poetico ed originale anche se lontano dai nostri schemi. Spesso mi è capitato d’imbattermi in contrade in festa, matrimoni o ricorrenze religiose, ed è impressionante vedere come ornano le strade con archi floreali e di come infiocchettano le case e gli alberi con nastri, campanelli e luci colorate. La parte musicale viene risolta, quando non c’è un’orchestra, da un giradischi a tutto volume con gli altoparlanti messi sui quattro punti cardinali. La baldoria va avanti per giorni e chiunque, anche se non invitato, può fermarsi a banchettare e ballare in piena libertà…


Bangkok 05 agosto 1962.

…non ho ancora letto la risposta alla mia del 07.07.62, ma essendomi allontanato da Nakorn-Sawan per una ventina di giorni, la troverò al mio rientro. Spero mi racconterai del viaggio in Umbria con la tua famiglia, di dove sei stata e cosa hai visto. Ti scrivo comunque, per parteciparti le impressioni nate dalla visita della città di Bangkok.
Dal venti luglio mi trovo a Krung-Thep alias Bangkok e finalmente ho trovato un paio di giorni per riposare e fare il turista. Ormai posso dire di aver visto buona parte della Thailandia centrale, dalle foreste di Tak e Kamphaeng-Phet, alle risaie di Ayuthya, dalla pura orientalità dell’interno del Paese a quella già inquinata della capitale. Bangkok, che i locali chiamano ancora Krung-Thep (città degli angeli), nella sua parte originale è meravigliosa e val la pena viverla anche solo per un fine settimana. Cercherò di fartela conoscere parlandoti dei momenti più interessanti di questo mio soggiorno. Come t’ho già detto in un’altra lettera, Krung- Thep è nata sulle rive del fiume Menam che l’attraversa serpeggiando e diramando canali che permettono di muoversi in barca. Oggi però, solo la parte adiacente al fiume ed ai canali conserva le primordiali caratteristiche, per il resto è un miscuglio di stili mal adattati al modulo architettonico locale. In periferia non si direbbe neanche Thailandia. Ma nel fiume e nelle sue vicinanze la vita si svolge secondo usanze centenarie. Sarebbe bello…


Bangkok 06 agosto 1962.

…ho noleggiato un taxi alle sette del mattino e l’ho tenuto fino a sera bighellonando da un posto all’altro alla scoperta di cose interessanti. Il taxi corre maledettamente ed ogni incrocio che vedo da lontano mi fa pensare alla catastrofe. Finalmente si ferma, tiro un sospiro di sollievo e cerco di dire all’autista che d’ora in avanti deve andar piano, altrimenti non posso ammirare le bellezze della città. La verità è che ho una gran paura, perché sono spericolati e scorretti.
Ho lasciato la macchina e mi sono inoltrato per una viuzza tipo calle veneziana per le dimensioni, ma con una confusione di oggetti, animali e persone tipicamente orientale. La via finisce su un canale da dove si può noleggiare una barca con il Caronte che ti porta in giro. Sono circa le sette e trenta e mi trovo all’interno di questa mostra galleggiante di frutta tropicale, verdure di tutti i tipi, animali da cortile noti e sconosciuti, ristorantini galleggianti e odori forti, piacevoli a volte, disgustosi altre. Di primo mattino lo spettacolare mercato si presenta come un quadro impressionista, solo che la frantumazione del colore è reale e mobile come in un immenso caleidoscopio. Ho noleggiato una “Lùa” (barchetta) per sentire più da vicino il respiro confuso dell’acqua, delle voci, dei profumi e dei colori. Ho fatto anche la prima colazione in barca, granturco arrostito, banane fritte e caffè nero. Finita la colazione, servitami da una graziosa giovinetta, ho risalito la corrente verso la macchina. Adesso l’autista va piano, gira a destra e si ferma sulla gobba del ponte sopra al canale per lasciarmi osservare. Scendo e dall’alto i corsi d’acqua sembrano aiuole fiorite di ombrellini di carta colorata e le voci somigliano più al cinguettare degli uccelli quando prendono d’assalto l’albero di alloro dopo il tramonto, che a suoni umani. Alle nove circa entriamo nel giardino dei serpenti “Bam-ngù” . Ce ne sono di tutte le qualità. La cattività li ha resi pigri e lenti nei movimenti e la maggior parte di loro vive la sua prigionia con la testa nascosta nelle proprie spire come per evitar di guardare il mondo che li circonda. È interessante vedere con quale maestria i guardiani entrano nelle gabbie per estrarre il veleno, per fare le pulizie, per nutrirli e per farli muovere in modo che i visitatori possano osservarli nella loro interezza. Terminata la visita siamo ripartiti alla volta del grande complesso monastico “Wat-Po”. È difficile spiegare ciò che si prova di fronte a certe cose. Il primo impatto è di stupore, poi d’interesse ingordo. Tutto è meravigliosamente curato nei particolari, tutto è armonico e tagliente ad un tempo. Si ha l’impressione d’essere in un altro mondo. Gigantesche statue dall’aspetto mostruoso e dalle acconciature più strane stanno a guardia dei monumenti e, ad osservarli, si ha la sensazione che stiano seguendo con il loro torvo sguardo le mosse dei fedeli e dei visitatori. Sparsi qua e là nei viali e nei giardini c’è una moltitudine di strani animali di pietra o metallo in atteggiamenti e posture altrettanto strane, ma connaturali per forme e sembianze agli enormi personaggi loro vicini. Più ci si addentra e più si è attratti da questo inaspettato e fantastico scenario. Laggiù c’è una porta aperta, la oltrepasso curioso. Scopro così un immenso chiostro che ripara una sequela di statue di Buddha da non vederne la fine. Le ho passate una ad una studiando gli stili e le espressioni di quei faccioni bonari e meditativi. Ogni tanto un Bonzo (monaco) dall’aria ascetica e misteriosa appare come una visione ultraterrena, per scomparire poi in quel labirinto di cose immobili da rafforzare ancor più l’idea di fissità di quel luogo. Attraversando corridoi, anditi, salendo e scendendo rampe di scale, sfiorando le fauci di un serpente di pietra e la spada di un satiro, mi son trovato al cospetto del Buddha sdraiato. Una statua laminata in oro lunga 49 metri ed alta 12. Sulle guglie e sulle grondaie ci sono un’infinità di campanellini penzolanti che mossi dalla brezza fondono le loro diverse tonalità in un’armonia sconfinata. Ora sono in un giardino variegato come un tappeto; grandi anfore di terra cotta rovesciano cascate di fiori dai vivissimi colori. Lo attraverso ed entro in un piazzale pavimentato dove in un angolo si ergono almeno una dozzina di tempietti a forma di piramide sormontati da altissime guglie simili ai sonagli dei crotali che si affinano sulla punta per terminare con una piccola sfera. Da qui passo in un chiostro sotto il quale c’è un affresco di rara bellezza. È una fascia cromatica che si sviluppa per tutta la sua lunghezza, ricchissima di particolari; scene di guerra, sacrifici religiosi e sfarzi di corti con una dovizia di colori ed atteggiamenti da lasciare sbalorditi. Al centro di questa meraviglia c’è il Wat Phza Keo, il santuario con il Buddha di smeraldo.
È molto tardi e il sonno mi sta vincendo. Continuerò domani sera il resoconto della visita alla capitale, per ora…


Bangkok 08 agosto 1962.

…ultimo giorno nella “Città degli Angeli”. Questa sera alle diciotto prenderò il treno per Nakorn-Sawan. Ieri ho avuto una visione diversa della città; quella notturna. Le ore lavorative le ho passate in sede per rivedere certi programmi di lavoro e mi sono sistemato nell’ufficio di Sunbùn, ingegnere locale, rappresentante della Società qui in Thailandia, addetto alle pubbliche relazioni. Sunbùn prima di andarsene mi ha invitato a passare la serata con lui e la sua fidanzata. Alle ventuno circa sono venuti in albergo a prendermi. Vuoi sapere con che macchina sono arrivati? Con un’Alfa Romeo Giulietta Sprint. La fidanzata mi ha lasciato il posto vicino al finestrino e lei si è accomodata fra noi. Un’altra bella sorpresa è stata che Amnuè parla discretamente l’italiano avendo passato tre anni a Roma con la famiglia. Suo padre è stato Addetto Militare della loro Ambasciata nel nostro Paese. Così ho potuto conversare con una donna un po’ piena di sé, ma spiritosa e brillante. Per la cena hanno scelto un ristorante francese molto alla moda. Amnuè ha ordinato per tutti: crema di asparagi, filetto alla Cha˘teaubriand, vino rosso Beaujolais Cuveè Vieilles e macedonia di frutta con gelato alla crema. Per chiudere un Cognac Napoleon.
Appena seduti Amnuè mi ha chiesto se fossi dottore in qualcosa.
– No… Non sono dottore. –
– Come mai!… …In Italia siete tutti dottori! – Ed ha accompagnato queste sue parole con una maliziosa risatina.
– E allora… …che sei? –
Avrei voluto rispondere in modo adeguato, ma ho optato per una risposta diplomatica.
– Pressoché niente… sono solo Geometra. –
– Che fa un Geometra? –
– Geometra è una parola composta, di derivazione greca, da “ge˘” terra e “Métron” misura, quindi è colui che misura la terra e trasforma queste misure in disegni. –
– Allora sei dottore della misura. –
– Esperto di misurazioni ma non dottore. Sono specialista del Teodolite, strumento di rilevazione dei dati, che vengono poi trasformati in misure e disegni con calcoli trigonometrici. –
– Adesso non ti capisco più. –
– Diciamo che sono un esperto dello strumento! –
Ha fatto una bella risata ed ha ripetuto: – Esperto dello strumento eh? –
Sunbùn non seguiva, ma Amnuè per qualche minuto gli ha tradotto la nostra conversazione ed anche lui mi ha guardato sorridendo. All’uscita dal ristorante due ragazze ci hanno offerto delle corone di fiori profumatissime, ne ho acquistata una che Amnuè si è messa al collo ringraziandomi, così che, ci siamo deliziati del profumo di gelsomino per tutto il tragitto. La macchina ha imboccato poi una via molto illuminata, ricca di night-club e locali notturni. Sunbùn mi ha informato che saremmo andati in una specie di teatro per vedere le danze del folclore nazionale. Avevano già riservato un tavolo e da come il personale ci ha accolto, i due sembravano di casa. Una volta seduti ho chiesto cosa bevessero e Sunbùn mi ha detto che la serata era stata offerta dalla Società e che io non dovevo preoccuparmi. Ha ordinato una bevanda giapponese molto in uso anche qui, il “sakè” una specie di vin santo ottenuto per saccarificazione e fermentazione del mosto di riso cotto. Ce lo hanno servito molto caldo in tazzine di maiolica finissima ed hanno lasciato la teiera a nostra disposizione. L’ambiente tipicamente Thailandese sfoggiava i colori in tutto simili a quelli dei costumi delle ballerine. Accompagnate dall’inconfondibile musica ne sono comparse quattro sulla scena nelle lussureggianti vesti e nei turriti copricapo. Le ho seguite intensamente. Ho avuto l’impressione che la loro danza non esprimesse sensualità, ma grazia e squisita femminilità. Verso l’una di notte abbiamo cambiato Night-club e siamo entrati in un locale dal nome ben chiaro “naturism” che può tradursi in “naturismo” o meglio “nudismo”.
Anche qui la coppia è stata salutata con una certa familiarità ed il tavolo riservatoci era in prima fila ai bordi della piattaforma leggermente rialzata dove si esibivano gli artisti. Siamo arrivati poco prima che lo spettacolo iniziasse, giusto in tempo per ordinare tre “Scotch on the rock”. Ad un certo punto si sono spente le luci della sala e accesi i riflettori sulla piattaforma. Due giovani donne, una orientale l’altra occidentale, sono comparse sulla scena ed hanno cominciato a spogliarsi a passo di danza. Gli spogliarelli da me visti fino a ieri sono stati quelli inseriti in qualche scena di film, dove l’artista alla fine, per una frazione di secondo, rimaneva con una bella foglia di fico sull’inguine e due rose rosse sui seni, per scomparire poi come inghiottita dall’oscurità. Ieri sera no. Le due ragazze dopo aver mosso qualche passo di danza, hanno iniziato la svestizione con la solita intrigante lentezza creando quell’atmosfera di suspense che ti portava ad indovinare ed auspicare quale altro indumento sarebbe caduto successivamente. Una alla volta, le barriere sono cadute tutte, comprese quelle protettive delle parti più intime. Hanno poi continuato la danza esponendo al pubblico, in gran parte maschile, le giovani nudità senza un’ombra di pudicizia. Le loro movenze erano la rappresentazione allegorica di un atto sessuale pieno, vissuto con ogni parte del corpo e della mente. Finito il minuetto, si sono accese le luci della sala e loro, invece di scomparire, sono scese fra i tavoli per salutare gli spettatori. Sono venute anche al nostro tavolo e, come se avessero indosso un saio monacale, hanno conversato con noi in piedi per circa cinque minuti. A questo punto è affiorata prepotente la mia provincialità, che ho cercato di nascondere in tutti i modi. Mi sentivo fortemente a disagio per loro. Siamo rimasti nel locale fino alle tre, ora in cui mi hanno riaccompagnato in albergo. Ci siamo lasciati con la promessa d’incontrarci ancora e mentre Amnuè risaliva in macchina, scherzosamente mi ha detto:
– Arrivederci esperto dello strumento! –

[continua]


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