INTRODUZIONE
L’idea di scrivere questo libro mi è venuta in questi ultimi mesi, ora che noi ragazzi della 500, ex ragazzi, siamo arrivati alla soglia dei 60 anni, e siamo preda della nostalgia e dei ricordi.
Gas, uno dei tre protagonisti, è il più nostalgico, tutte le volte (e non perde occasione) quando siamo in compagnia, o quando ci sono delle persone appena conosciute, rispolvera i suoi cavalli di battaglia, cioè tutte le cazzate che abbiamo combinato, e questo è il suo argomento preferito, che gli dà modo di diventare protagonista, e a lui piace molto.
Comincia a raccontare gli episodi che abbiamo vissuto con lui; e tutti ridono, anche perché racconta bene, magari aggiungendo ogni volta un particolare che gli era sfuggito in altre occasioni; c’è poi Alessandro un nostro amico recente, anche lui preda della passione per la Porsche, che lo incoraggia: «Dai Gas racconta quella del lupo e quella della Festa del Perdono.» Lui comincia e non si ferma più, le scene sono tante, Cibo ed io oltre che averle vissute, le abbiamo sentite mille volte; una sera in cui ero invitato a cena da Gas e sentivo per l’ennesima volta i racconti, non lo ascoltavo più, ma guardavo i presenti, che si divertivano e pensavo: “Se tutti quanti lo ascoltano e ridono, perché non raccontare a tutti la nostra storia?”
Ciò che scrivo è accaduto veramente, e lo voglio raccontare con un linguaggio semplice, il linguaggio che abbiamo sempre avuto, un po’ colorito, come quando è Gas che racconta.
Noi allora ci divertivamo tanto con poco; avevamo pochi soldi in tasca, le nostre famiglie erano di gente comune, piccoli commercianti, e il concetto che esprimevano era: «Se vuoi i soldi te li devi guadagnare.» Quando tornavamo a casa la sera dalle nostre tasche non uscivano neanche cinque lire, ma non ce ne importava nulla, avevamo trascorso spensieratamente il nostro tempo. La nostra gioventù l’abbiamo vissuta con la colonna sonora di Elvis, Sinatra, i Beatles, Mina, Battisti, nello sport abbiamo visto nascere campioni come Cassius Clay, abbiamo vissuto l’emozione della Nazionale di calcio del “’70” in Messico, o quella dell’“’82”di Bearzot in Spagna.
Siamo cresciuti con miti come Pavarotti, Nureyev, e la Callas, che non ci sono più, e quando sentiamo le loro voci o li rivediamo in tv, proviamo una sensazione di malinconia e di vuoto, ma siamo loro grati per averci fatto vivere quei momenti… Momenti indimenticabili, che non torneranno più. Sensazioni e gioie svanite, come quando il sabato era ancora il giorno più bello della settimana, poiché era il preludio al giorno di festa, la domenica, che poi passava velocemente ed il pensiero del lunedì si insinuava via, via, che la festa finiva, non a caso tanti episodi di questo libro sono accaduti il sabato sera.
Oggi non c’è più questa sensazione e il sabato ha un altro sapore, è diventato un giorno come gli altri.
Gas, Cibo, ed io abitavamo in provincia, alle porte di Milano, nello stesso quartiere, e lì abbiamo diviso le gioie, le passioni, consolidato la nostra amicizia fin da ragazzini. Il nostro fu un affetto nato subito, prima come semplice simpatia, poi sempre più forte fino a diventare inseparabili, per tutti e tre, man mano che ci conoscevamo. Dire che eravamo amici è riduttivo, dire che eravamo come fratelli, non dà la dimensione esatta del nostro rapporto, nella nostra vita ci sono state tante altre persone amiche, ma il sentimento che ci ha sempre unito è qualcosa che va oltre.
Anche le ragazze, le fidanzate, e poi le mogli, hanno capito e condiviso questa nostra indivisibile amicizia. Col trascorrere degli anni ognuno di noi ha intrapreso, ovviamente la propria strada, ma senza mai separarci definitivamente. Oggi ci frequentiamo come allora, le nostre serate non sono più avventurose, o litigiose, come è capitato tante volte, non siamo più protagonisti del nostro tempo come lo eravamo tanti anni fa, mi capita di guardare i nostri volti, e domandarmi: ma siamo proprio noi? Siamo noi che abbiamo vissuto tutto questo! Già ma questo si chiama rimpianto; sì, rimpianto del tempo passato, oggi quarant’anni mi sembrano più di cento.
L’aiuto di Gas e Cibo è stato fondamentale per la stesura di questo racconto, mi hanno sempre incoraggiato, e consigliato; Gas, il più convinto sostenitore, mi ha spesso spronato a continuare soprattutto nei momenti più difficoltosi, ha avuto il merito di farmi sentire un vero scrittore. È lui che fin dalle prime pagine si è interessato, si è prodigato affinché fosse portato a termine. Cibo, quando leggeva qualche capitolo in fase di stesura, che lo riguardava mi diceva: «Mi stai sputtanando non male!» Ma poi rideva e dava il suo consenso a tutto ciò che io scrivevo, il merito è quindi di tutti e tre se alla fine queste pagine vedranno la luce sugli scaffali di una libreria.
Il titolo che ho scelto per questo libro è piaciuto subito ai miei due amici, la 500 era la mitica auto da dove siamo partiti, da dove è iniziata la nostra gioventù, come per tanti ragazzi dei nostri tempi è stata la compagna fedele di ogni avventura, senza di lei ci saremmo divertiti, ma non sarebbe stata la stessa cosa, erano tutte e tre blu, non potevano essere di un altro colore. I nostri sogni però erano due, e sempre quelli: le ragazze e la Porsche, e non sempre in quest’ordine, la Porsche è stata il miraggio e il traguardo della nostra storia, era il nostro mito, quando ne vedevamo passare una o sentivamo il rumore del motore, allora rumore di ferraglia in movimento (oggi è cambiato), era una musica per noi, tutti e tre lì a bocca aperta, ci giravamo come se avessimo visto la donna più bella del mondo, i motori, le auto, erano sempre nei nostri pensieri; parlavamo di gare, di Gran premi di Formula Uno; e qui, al di sopra della Ferrari, non c’era nessun’altra marca al mondo, ma sulla strada la nostra passione era ed è ancora oggi Lei, passione che dopo oltre quarant’anni stiamo vivendo tutti e tre contemporaneamente, come negli anni ’70 avevamo tutti e tre la 500, oggi siamo al volante di una delle più belle macchine del mondo, la Porsche.
CAPITOLO I
La prima tappa era stata fissata a Cernobbio la località sul lago di Como più conosciuta, davanti all’albergo che una volta fu la residenza di nobili famiglie, un edificio splendido del 1500 circa, Villa D’Este, uno degli alberghi più belli del mondo. Da Villa D’Este, saremmo ripartiti prendendo la Statale 583 via Torno, con destinazione finale Bellagio, forse la più bella località del lago di Como.
I luoghi erano stati scelti per la loro spettacolarità, avremmo trascorso una giornata intera noi tre soli come ai vecchi tempi. Immaginavamo le nostre Porsche lì, davanti all’entrata della villa, qualche foto ricordo, una visita all’albergo, intanto le nostre 911 sarebbero state oggetto di curiosità, come sempre accadeva quando le lasciavamo in bella mostra, la giornata sarebbe poi proseguita con una sfilata fino a destinazione. Avevamo deciso di ritrovarci tutti insieme, nello stesso posto, per festeggiare a modo nostro la realizzazione del nostro sogno, finalmente tutti e tre avevamo la Porsche, dopo tanti anni in cui l’avevamo desiderata ora ne avevamo una, ognuno di noi, di colore diverso e di modello diverso.
Io avevo lasciato Milano verso le nove del mattino di quella domenica d’inizio primavera, ero entrato nel box e lei era lì, argento metallizzato con i grandi fari che sembrava mi guardassero severi ma contenti perché di lì a poco il rombo del suo sei cilindri avrebbe rotto il silenzio che avvolgeva il sotterraneo con i suoi 250 box.
L’avevo scelta grigio metallizzato, “911 Carrera S – 997” cambio automatico, un’auto che aveva percorso 44.000 km, un’auto usata, ben tenuta, l’avevo subito portata alla Porsche Italia per un controllo generale ed era risultata in buone condizioni.
Cibo aveva scelto un “911 Carrera 4 S – 997” di colore blu, con l’interno beige chiaro, superaccessoriata, cambio automatico tip tronic, aveva subito sostituito i pneumatici, e i cerchi con un modello Porsche più recente.
Gas, che voleva sempre primeggiare, aveva scelto una “911 turbo”, modello 996, un color grigio un po’ più scura della mia, era un’auto d’epoca, tenuta splendidamente, con cambio manuale, dice che il cambio manuale lo fa sentire come su una “Formula Uno”.
Il punto di ritrovo era stato fissato davanti all’ingresso della Porsche Italia di via Rubattino, da lì tutti e tre insieme, e uno dietro l’altro, come in una piccola sfilata, sempre uniti per tutta la durata del percorso fino a Villa D’Este a Cernobbio e poi a Bellagio.
Il piacere che provavamo, nel vedere gli altri che ci guardavano sfilare, con ammirazione e un po’ di invidia, era impagabile.
Gas era davanti con la sua Turbo, poi Cibo, ed infine io, che chiudevo il terzetto, la gioia di quei momenti era unica, e mentre guardavo il volante con la sua multifunzione, e il cruscotto con i suoi cinque indicatori della mia Porsche, il pensiero mi portava ad immaginare a quale attrice del passato avrebbe potuto essere accostata la Porsche, e credo che dopo alcuni nomi del cinema, avevo deciso che non poteva essere altra che Marlene Dietrich, era quella che aveva lo stesso fascino, era nata per l’amore, come la Porsche è nata per correre. Sì, Marlene, quando si guardava il suo viso una sola volta non lo si dimenticava più, sentirla cantare “Lili Marleen” era come sentire il suono del motore della Porsche, in entrambi i casi ti si gelava il sangue.
I miei pensieri si erano interrotti quando Gas era entrato nell’area di servizio della tangenziale prima di imboccare la deviazione “Milano-Laghi”, il pieno di benzina è d’obbligo prima di un qualsiasi viaggio, e poi Gas avrebbe scatenato una bagarre, coinvolgendo Cibo e me, sempre se lungo il viaggio non avessimo incontrato altre supercar, allora lo avremmo sicuramente perso, avrebbe gareggiato fino a dimostrare che lui andava più forte, anche a costo di seguire una direzione diversa dalla nostra meta.
Come quando con Anna doveva andare non ricordo a quale appuntamento a Parma, e a Piacenza da un autogrill sbucò una Ferrari F430, e non la mollò fino a Bologna, che era la destinazione della Ferrari aveva fatto 150 chilometri in più ed era riuscito a superare l’avversario, gli era stato davanti fino a quando non lo aveva visto uscire dall’autostrada. Poi per tutta la strada del ritorno aveva dovuto subire gli insulti e i rimproveri di Anna, la sua compagna, che aveva paura della velocità più di ogni altra cosa, tanta paura che la faceva star male; Gas le diceva: «Strapazzo un po’ questa Ferrari, poi vado piano». Non succedeva mai, anche perché la Ferrari non si lasciava strapazzare facilmente.
CAPITOLO II
Gas era così fin da ragazzo, quando eravamo nell’età più critica, quella compresa tra i quattordici e i diciotto anni, non si è più bambini e non si è ancora adulti e le cose più stupide capitano e si fanno accadere proprio in questo periodo della vita. Noi naturalmente non eravamo immuni, anzi avevamo una marcia in più nel combinare guai.
Il padre di Gas, Vittorio, uomo severo, dalle mani gigantesche e pesanti, che suo figlio conosceva molto bene, solo a guardarle incutevano paura. A quel tempo aveva una marca di auto che oggi non esiste più da tanti anni, era una “Austin I 40” bianca, tipica auto per famiglia, non teneva la strada neanche se avesse avuto i binari sotto le ruote, come i tram, quando prendeva un tornante a 50 km all’ora, si imbarcava e cigolava come una vecchia gondola.
Noi allora avevamo già la passione per le auto, una bramosia, incontrollabile, le nostre 500 sarebbero arrivate qualche anno più tardi, insieme alla patente. Ma noi sapevamo già tutto sulle auto, eravamo già capaci di guidare, la prendevamo di nascosto dai nostri genitori, o ce la facevamo prestare, facendo credere di avere la patente.
Un venerdì sera Gas ci aveva raggiunto con la macchina di suo padre, presa sempre di nascosto, sapeva dove venivano custodite le seconde chiavi e così impadronirsi della macchina diventava un gioco.
Era arrivato a velocità sostenuta e in prossimità della nostra panchina, aveva frenato violentemente, lasciando una lunga scia di copertone sull’asfalto. Noi lo avevamo accolto con applausi e grande entusiasmo, una volta saltati in macchina eravamo partiti alla volta di Milano, facendo ululare il povero motore della Austin. Non pensavamo assolutamente all’eventualità di essere fermati dalla polizia, nemmeno alla possibilità di provocare, o rimanere coinvolti in un incidente. Incoscienza allo stato puro, al limite della demenza, quando eravamo al volante di un’auto ci sentivamo sicuri, nulla poteva accaderci e nulla poteva fermarci, quella povera auto era testimone della nostra eccitazione e subiva ogni sorta di maltrattamento. Provavamo a guidarla un po’ per ciascuno, ognuno diceva all’altro cosa doveva fare, come doveva impostare la curva, o effettuare un sorpasso, ai semafori facevamo gara di ripresa con tutti, azionavamo ritmicamente il pedale dell’acceleratore, per scattare davanti a tutti. Arrivati in città parcheggiavamo davanti ad un locale, entravamo, rimanevamo il tempo di sorseggiare una birra e uscivamo subito, la voglia di risaltare in macchina era irrefrenabile, credo che fosse una specie di droga; fra l’appuntamento con una ragazza e la macchina, avremmo scelto la macchina.
Gas si era organizzato anche con la benzina, aveva nascosto un contenitore di plastica con una buona scorta di carburante, in modo che al rientro dalle nostre scorribande in città, avrebbe rabboccato il serbatoio, il pensiero che suo padre potesse scoprirlo non lo sfiorava, e quando gli si affacciava alla mente lo scacciava con violenza, sapeva che avrebbe passato dei brutti momenti. Le nostre scappatelle con la Austin furono tre o quattro, l’ultima fu quella drammatica. Quella sera eravamo in quattro: Gas, Cibo, io e Sumia, che era un ragazzo che avevamo conosciuto da poco, lo chiamavamo Sumia perché aveva le sembianze di un gorilla, sia nell’andatura, sia nei lineamenti del viso. Aveva il labbro inferiore tanto sporgente, che quando pioveva gli entrava l’acqua in bocca. Se Darwin lo avesse visto ai suoi tempi avrebbe avuto ulteriore conferma della sua teoria. Questi erano stati i commenti di Cibo quando lo aveva conosciuto.
Anche lui senza patente, voleva provare l’ebbrezza della guida e Gas gli aveva promesso che lo avrebbe fatto guidare al ritorno dalla città, e così fu.
A piazzale Bologna Gas si fermò ed invitò Sumia a prendere il volante. Fin dai primi metri percorsi, avevamo capito che alla guida era un disastro, non aveva nessuna sensibilità nel muovere i comandi del freno e della frizione. Appena partito gli si era spento il motore, Gas lo incalzava, e più lo rimproverava, e più Sumia si agitava e si faceva prendere dal panico. Dopo aver percorso un chilometro in quelle condizioni, ci sentivamo decisamente in pericolo, tanto che Gas gli intimò di fermarsi. Avrebbe ripreso lui la guida ma Sumia lo pregò di farlo continuare, perché ora stava prendendo “la mano alla guida.”
Il ritorno verso casa fu un supplizio, appena imboccata l’autostrada, il provetto pilota si esaltò e spinse a fondo il pedale dell’acceleratore. Cibo ed io, che eravamo sui sedili posteriori, eravamo molto preoccupati; io ero attaccato a tutte le maniglie che avevo a disposizione, Cibo come al solito era il più coraggioso, non si era attaccato alle maniglie, teneva con entrambe le mani il sedile, come se stesse seduto su di una barca in balia delle onde. Tutti e a tre in silenzio pregavamo che la strada di casa finisse il più presto possibile. Gas ora lo guardava spaventatissimo; Sumia aveva assunto una posizione di guida tipica dell’incapace, aveva il busto proteso in avanti, con le braccia che quasi abbracciavano il volante, col sedere si era spostato in avanti, perché con le sue gambine corte faceva fatica ad arrivare alla pedaliera.
Il tratto autostradale era breve, ora per immetterci sulla via Emilia, dovevamo percorrere un tornante in lieve salita, e superare il ponte. Potevamo dire di essere quasi arrivati, e stavamo per tirare un sospiro di sollievo, quando la macchina si imbarcò, con le ruote di destra andò su di una striscia di ghiaia a margine della carreggiata, perdendo aderenza. Qui Sumia istintivamente affondò il piede sul freno, perse il controllo dell’auto, che andò ad urtare il “guard-rail” alla nostra destra e continuando la sua corsa per una decina di metri sbattendo più volte contro la lamiera di protezione, poi si fermò proprio in cima al ponte. Noi quattro eravamo tutti illesi, qualche botta dovuta all’urto, ma nulla di grave. Invece la Austin I 40… lei sì che era grave! Aveva sulla fiancata una strisciata della larghezza di una trentina di centimetri, e lunga quasi tutta la lunghezza dell’auto. Mentre Gas imprecava e si disperava pensando alle vigorose mani di suo padre, Sumia balbettando cercava di scusarsi, Cibo ed io eravamo costernati, sapevamo che il nostro amico era in guai seri.
Dall’incidente era trascorsa quasi un’ora, avevamo spostato l’auto in una posizione più tranquilla e sotto una luce più forte per rilevare meglio i danni. Quello che a prima vista sembrava un danno per tutta la fiancata, ora ci sembrava meno grave, la fiancata era sì compromessa, ma non era tutta ammaccata, solo in alcuni punti, dove aveva urtato, per il resto era strisciata.
Gas aveva solo due soluzioni: rivelare tutto a suo padre, con conseguenze catastrofiche, oppure farla riparare a sua insaputa, ma per questa seconda ipotesi ci voleva almeno una settimana di tempo, troppo, il lavoro doveva essere fatto in quel fine settimana, tra sabato e domenica, ma chi avrebbe potuto farlo?
Gli venne in mente un suo amico carrozziere, più che un amico era un cliente di suo padre col quale aveva una certa confidenza.
Saltammo tutti e quattro in macchina, alla volta della casa del carrozziere. Quando Gas suonò il citofono, erano le 23,00 passate da poco, era tardi per disturbare, ma quando c’è un’emergenza non si bada all’ora. Raccontò tutto al suo amico, e poi gli chiese: «Quanto mi costa ripararla?»
Il professionista guardò e riguardò il danno e poi sparò la cifra. Gas senza tentennare lo incalzò: «Ti do il doppio se la macchina è pronta per domenica sera! Devi farmela in due giorni! Domani sera verrò a prenderla.»
Il carrozziere guardò ancora la macchina; poi guardò lui senza parlare. Gas lo incalzò di nuovo: «Se non me la fai… mio padre mi ammazza!»
A queste parole il professionista non poté rifiutare: «Farò il possibile.»
Il sabato e la domenica trascorsero serenamente per Gas, sapeva che suo padre non avrebbe utilizzato la macchina, si era ben bene informato attraverso sua madre, alla quale confessò ogni cosa, sapeva che lo avrebbe protetto e aiutato anche a saldare il conto della riparazione.
La domenica sera alle ore 21,00, Gas si presentò dal carrozziere per ritirare l’auto. Il lavoro non era ancora finito, la fiancata doveva essere lucidata, ma da quel che si vedeva, il lavoro era stato eseguito alla perfezione, nessun profano avrebbe potuto capire che c’era stata una riparazione e una verniciatura.
Quando Gas entrò nel box di casa, era mezzanotte suonata, i suoi stavano già dormendo, parcheggiò l’auto, scese, la guardò un’ultima volta; poi, mentre stava per chiudere la porta, si accorse che c’era un problema: l’odore di vernice fresca era molto forte. Andò allora a trafficare in cantina e poco dopo tornò nel box con un grosso barattolo.
Il pomeriggio seguente Vittorio doveva recarsi in città con l’auto, Gas lo accompagnò, attento a tutti i movimenti di suo padre, sentì subito l’odore di vernice, ed attese che se ne accorgesse anche suo padre, che sbottò: «Ma cosa è questo odore di vernice?»
«Non so…»
Rispose indifferente Gas, poi fece il giro dell’auto ed esclamo: «Ah! Ecco cos’è! C’è un barattolo di vernice aperto! Ecco… Vedi da dove viene l’odore?»
Vittorio rimase in silenzio a guardare il barattolo con aria perplessa, cercava di ricordare quando aveva lasciato quel barattolo aperto.
Quando si dice la genialità!
[continua]