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In copertina: Out of the murky world © alexvav – Fotolia.com
Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’autore ha conseguito il primo premio nella sezione narrativa del concorso letterario Il Club dei Poeti 2015
PREFAZIONE
Homo sum. Nihil humani alienum a me puto. “Sono un essere umano, niente di ciò che è umano mi è estraneo”. I versi di Terenzio sull’essenza dell’humanitas costituiscono la chiave di volta per scoprire il filo segreto che attraversa queste cinque novelle di Giuseppe Sorrentino, apparentemente molto diverse fra loro per tematica e ambientazione.
Perché è proprio l’uomo, la sua essenza, la sua aspirazione alla conoscenza, la sua tensione, sia pur fuggevole, alla felicità, il fulcro della ricerca narrativa dello scrittore. L’uomo in quanto tale, nel suo divenire, nella sua ricerca a volte affannosa della verità, o almeno della “sua” verità, quella che può rendergli più lieve la vita, o quanto meno giustificarne l’essenza. Una ricerca basata sulla “parresia” (per prendere spunto proprio dalla novella che apre questa breve raccolta), ossia la capacità di vedere e soprattutto rivelare il vero, anche a costo di una profonda sofferenza. “Rivelare”, togliere il velo di ipocrisia e di falso perbenismo in cui noi stessi ci avvolgiamo per chiudere gli occhi di fronte alla nuda realtà. Sorrentino toglie il velo al lettore, a volte con delicatezza, altre volte con l’urgenza della verità. E allora, diventa parresia non solo la capacità di dirsi il vero di due innamorati: parresia è anche il grido della matta dell’ospedale psichiatrico, parresia è il pianto di Pasolini, parresia sono le lettere di Gramsci, parresia è il sorriso di Luca nella partita di una domenica e in quella della vita. Parresia è la ricerca della verità che accomuna esseri tanto lontani nello spazio e nel tempo, personaggi immaginari e personaggi reali, anonimi e famosi, anziani e giovani, ognuno faticosamente alla ricerca di una sua risposta al perché dell’esistenza. Una risposta personale e diversa per ognuno dei protagonisti delle singole novelle che spinge però il lettore, quasi inconsapevolmente, a porsi le medesime domande, a interrogarsi sulle proprie scelte. L’alchimia della narrazione è tutta qui: la capacità di Sorrentino di non dare risposte, quanto piuttosto di sollecitare domande. Di portare chi legge ad aprire una porta, senza raccontargli cosa scoprirà al di là, o piuttosto, dentro di sé. Perché questo è un altro punto d’unione dei racconti: la solitudine interiore. Tutti i personaggi delle cinque novelle, anche quando si muovono in un contesto brulicante di vita e di persone, anche quando parlano, litigano, piangono, ridono, sono in effetti volti ad un soliloquio interiore che li isola dal mondo circostante. Non perché manchino di umanità, anzi!
Ma proprio perché l’indagine del mondo interiore personale e altrui finisce col creare un diaframma trasparente attraverso il quale il protagonista diventa non solo attore della propria vita ma, contemporaneamente, ne è anche spettatore. E in questo passaggio fra mondo onirico e mondo reale Sorrentino si muove con passo lieve, con una scrittura precisa e attenta, rigorosa e curata, capace di passare con agilità dalla parte dialogata a quella descrittiva, dal soliloquio alla citazione colta con il fascino della semplicità della lingua quotidiana, senza mai cadere nella sciattezza o nella banalità. Così, anche personaggi pubblici come Pasolini di “Uno splendido usignolo” o Gramsci di “Un irriducibile dal cuore tenero” ci appaiono nella loro veste privata, rivestiti di splendida umanità, al di fuori della patina ufficiale dei libri di storia e di letteratura, nella loro grandezza e fragilità vicini agli altri personaggi, vicini a noi.
Homines sumus. Siamo uomini. Nessuno escluso. Anzi, per citare Sorrentino, “nessun espulso”.
Loredana Saini
Parresia
ai miei genitori, a Gabriella, a Luca
Cara Elena,
da anni non ci sentiamo. Anche se col tempo abbiamo perso l’abitudine di telefonarci per gli auguri di Natale, mi chiedo spesso come stai, come te la passi, se sei felice, se anche tu vieni improvvisamente assalita dalla nostalgia di noi due, del nostro amore, delle passeggiate sul lungomare mano nella mano, com’è capitato a me l’altro giorno guardando un uomo e una donna abbracciati su una panchina. Vedendoli stretti l’uno all’altro, ho ripensato con un nodo in gola alla mia felicità andata via insieme a te un pomeriggio di tanti anni fa.
Leggo spesso il tuo nome sui giornali. Sei diventata un magistrato importante, un pubblico ministero in prima linea nella lotta contro il crimine. Ti ho visto tante volte in televisione, con il tuo viso ancora senza rughe, accerchiata da cronisti ansiosi di avere qualche notizia sulle indagini, ma tu non vieni mai meno al dovere di mantenere il riserbo. Liquidi i giornalisti con poche parole scandite con voce sensuale, arrochita dal fumo di sigarette. Rispondi più o meno sempre così: “Un pubblico ministero delle sue inchieste parla solo nel processo”. Come ti riconosco in questa tua algida risposta! Poche parole per dire tutto. Mentre gli altri hanno bisogno di lunghi discorsi, a te servono poche parole secche e precise come linee di figure geometriche, come teoremi matematici che hanno un’unica soluzione.
A te ho pensato stamattina quando a scuola ho parlato ai ragazzi della parresia. Insegno ancora nello stesso liceo di quando vivevamo insieme. La scuola dove lavoro è una delle poche cose della mia vita che non ho cambiato da quando sei andata via. I miei capelli non sono più neri, quasi tutti bianchi; il viso liscio, che tu accarezzavi, oggi è increspato intorno agli occhi e ai lati della bocca, le abitudini sono mutate, i gusti e le letture non sono quelli di una volta. Continuo a insegnare filosofia nel liceo che conosci tu, quello a pochi passi da casa nostra con il cancello in ferro battuto davanti al quale mi aspettavi il sabato alla fine delle lezioni per sguizzare via dal caos della città trascorrendo il fine settimana nella tranquillità dei piccoli centri abbarbicati alle pendici degli Appennini.
Oggi in classe, ti dicevo, abbiamo parlato della parresia, parola del greco antico che significa dire tutto, parlare con franchezza, dire ciò che si ritiene vero senza nascondere nulla. Ho preparato la lezione raccogliendo molto materiale per far comprendere ai ragazzi la complessità di questa parola. La parresia è pericolosa. Chi dice la verità rischia la vita. In politica non sono pochi quelli che sono stati allontanati, discriminati, perfino ammazzati per aver parlato senza inganni, per aver diffuso la loro verità senza compromessi, per aver avuto il coraggio di dire, per aver amato la parresia.
In classe abbiamo letto pagine di uomini illustri che hanno lasciato un segno indelebile nella storia per aver pagato con la morte il loro amore per la verità, non aver nascosto, essersi ribellati alla regola del silenzio in cambio della vita. Abbiamo parlato di Socrate e di Giordano Bruno.
È spesso arduo confessare la verità. Voi giudici sapete bene quanto lo sia. Al testimone nei processi chiedete di giurare di dire la verità e solo la verità, rammentandogli la pena cui va incontro se afferma il falso. Dovete minacciare sanzioni severe perché lui non racconti bugie, siete consapevoli di quanto sia spesso più comodo nascondere la verità e vivere nella menzogna. Giordano Bruno non sarebbe stato bruciato vivo a Campo dei Fiori se avesse rinunciato alla sua verità abiurando. Ma, ho spiegato ai ragazzi, che il mondo senza quelli come Socrate e Giordano Bruno sarebbe come una stanza senza luce, avvolta nelle tenebre, e noi tutti saremmo come i ciechi nel quadro di Bruegel destinati a cadere con gli occhi vuoti uno dopo l’altro nel fossato. Ho finito la lezione ricordando loro che la parresia è pericolosa, ma necessaria non solo in politica ma anche nella vita privata. Dirsi la verità tra due persone è rischioso. A volte per continuare un amore o un’amicizia mentiamo, è solo un’illusione. Una menzogna non può mantenere in vita qualcosa di vero, di sincero. Una bugia può proteggere solo un’altra bugia.
Dopo la lezione sono tornato a casa, ripensando a noi due, al nostro amore, al momento in cui mi dicesti la verità e si sgretolò in un attimo il nostro legame che sembrava dovesse durare per sempre. Il parlarsi francamente aprì una voragine in cui precipitarono una decina d’anni trascorsi insieme, le innumerevoli volte in cui ci dicemmo ti amerò per sempre, le vacanze nelle isole greche, i gelati consumati passeggiando mano nella mano sul lungomare, le poesie lette prima di fare l’amore, il cinema della domenica pomeriggio.
Eravamo seduti in cucina uno di fronte all’altro. Ricordi? Si sentiva la voce della televisione nell’altra stanza. Tu mi dicesti guardandomi con i tuoi occhi azzurri: “È finita”. E io, con la voce di un cane bastonato: “Lo so”.
Una verità detta senza orpelli, senza parole inutili. Due parole capaci di dire tutto, di riassumere mesi di crisi silenziose, di sesso svogliato consumato per abitudine, di cumuli di noia quando la sera eravamo seduti sul divano davanti al televisore.
Non tentai di sondare la verità con le solite domande. Ma tu sei certa? Hai un altro? Pensi che possiamo tornare come una volta? Accettai la fine con gli occhi lucidi, avvolto da un silenzio lunghissimo. La verità detta con una manciata di parole stroncò il sogno di un amore pensato senza fine, mi riportò alla realtà dove tutto è destinato a finire, dove l’infinito è solo un’idea della mente.
Ci lasciammo con verità, come il giorno in cui ci mettemmo insieme. Eravamo al cinema, mentre guardavamo il film ti presi la mano e ti sussurrai ti amo, e tu anch’io. Anche quella volta poche parole, due a testa. Senza necessità di aggiungere nulla. La parresia, il dirsi le cose come stanno in amore non ha bisogno di tanto gergo. L’amore esiste o non esiste. Tutto il resto è solo un accumulo di dettagli insignificanti, di discorsi privi di senso. La parresia tra amanti è molto rischiosa, ma risparmia a entrambi di vivere nella menzogna, nelle bugie dette per salvare legami morti, nelle falsità che permettono a due persone di continuare senza continuare. La menzogna offende chi la dice e chi l’ascolta. La verità provoca dolore ma dal dolore si impara, la menzogna lede la dignità, prolunga amori e amicizie finiti, è medicina inutile data agli ammalati terminali. La verità è eutanasia, la menzogna è accanimento terapeutico.
A distanza di tanti anni, ora che ho i capelli bianchi, posso dire che quel tuo parlare franco è tra le poche cose buone che mi sono capitate nella vita, tante volte sepolta sotto le macerie di becere falsità. La verità fu detta nel momento opportuno, evitando che la fine del nostro amore alimentasse tradimenti, risentimenti, vendette, rancori, scuse e accuse. La verità detta senza orpelli, senza nascondimenti, salvò il nostro amore da una lunga agonia.
Il nostro fu vero amore, un amore parresiastico, dall’inizio alla fine.
Di questo ti sarò grato per tutto il resto della mia vita.
[continua]
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