Storie vere o immaginate

di

Grazia Fassio Surace


Grazia Fassio Surace - Storie vere o immaginate
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 94 - Euro 10,00
ISBN 9791259512802

eBook: pp. 82 - Euro 5,99 -  ISBN 9791259512888

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In copertina: ritratto dell’autrice


Come dice il titolo, questi racconti sono storie vere, personalmente vissute, o raccontatemi da amiche, o immaginate, ma ricamate su reali esperienze ed emozioni. Viste perlopiù al femminile.
Buona lettura!
Grazia


Storie vere o immaginate


PRIMO AMORE

Parrà strano, ma mi innamorai di mio cugino il giorno che lo vidi vestito di bianco e arancione.
A dire il vero la memoria di lui risale a quel momento.
Prima di allora dovevo averlo visto qualche volta, ma non ricordo.
Lui aveva studiato, era stato all’estero, e aveva cinque anni più di me.
Con me era cugino di terzo grado, difatti la sua bisnonna paterna era sorella del nonno di mio padre.
Come tutti gli anni, agosto lo trascorrevamo in campagna, nella nostra vecchia casa appollaiata sulla collina.
Ora, per riposarsi dopo gli esami di maturità, era venuto anche lui nella casa della nonna, a pochi passi dalla nostra.
Quel giorno d’estate abbacinante di sole avevo quattordici anni, e mi ero da poco congedata dal collegio, dove avevo frequentato le medie, con l’intenzione di non ritornarvi.
Era domenica, ed eravamo stati a Messa nella chiesa del paese.
Quell’ultimo anno ero cresciuta un po’ troppo: mi vedo magra alta e un po’ timida, come poteva esserlo una ragazzina all’inizio degli anni Sessanta, per giunta educata dalle suore.
Per l’occasione festiva, indosso ancora calzine bianche lavorate ad uncinetto.
Lui invece è bello, sicuro di sé, un po’ stravagante.

Uscendo dalla chiesa ci salutammo, poi egli s’incamminò chiacchierando con mia madre, mentre io rimasi dietro con alcune amiche.
Per tutto il tragitto lo guardai camminare, come calamitata da quei colori panna e arancio che non avevo mai visto indossare ad un ragazzo, e che eppure lui portava con classe e disinvoltura.
Poi ammirai le spalle larghe, i fianchi stretti ma torniti, il modo di gesticolare mentre parlava, e i capelli castani con il ciuffo alla James Dean.
Quando arrivò a casa sua, ch’era a metà della salita, e per qualche secondo mi rivolse la parola, ero già completamente soggiogata.

Da quell’istante la mia estate si sarebbe trasformata in una romantica attesa, di vederlo apparire alla svolta della salita, dietro i cespugli di rovi che ombreggiavano il muro di cinta della nostra casa.
Se arrivava, arrivava verso sera, quando il sole tramontando imporporava le colline.
In tali occasioni indossava sempre un paio di jeans stinti ed attillati e mi ipnotizzava con il suo carisma e la parlantina.
Pure papà e mamma lo ascoltavano incantati, seduti sotto il verde del pergolato.
Lui ora si rivolgeva spesso a me, sorridendomi con occhi ironici e dolci, penso che lo incuriosisse questa ragazzina che lo guardava con muta adorazione. Sovente andavamo nella casa vicina disabitata a sentire la musica.
Le mie amiche e io avevamo un giradischi e alcuni dischi, e lui ne aveva portati altri di rock.
Era appassionato di questo ballo e aveva deciso d’insegnarcelo.
Succedeva così che, alla sera, non appena udivano la musica, i vicini si riunivano a vederlo che ballava e ci lanciava come fuscelli.
E i campi intorno echeggiavano dei nostri battimani e delle nostre risate.

Le sere che non veniva mi parevano vuote e senza senso.
E fino al momento di andare a letto speravo di vederlo arrivare a colorare d’allegria il buio.
Se non veniva allora i pensieri tessevano illusioni in cui c’era lui che s’accorgeva finalmente di me e mi diceva che mi amava.
In genere costruivo questi sogni nel buio del giardino illuminato dal bianco della luna.
Mi sedevo sulla panchina di pietra e mi sembrava allora di sentirlo che arrivava, la sua mano sulla mia spalla, la calda voce che mi sussurrava in un orecchio.
Sovente le fantasie si spingevano oltre, fino ad immaginare una vita insieme.

Poi agosto passò, senza che niente di nuovo fosse accaduto, se non nella mia mente.
Un giorno, sul finire del mese, venne a salutarci, ci baciò, mi baciò.
Con me fu molto tenero, mi accarezzò il viso, mi abbracciò, mi sorrise anche con gli occhi, com’era solito fare.
«Ciao, cuginetta, ci rivedremo presto! Voi venite sempre su per il weekend? Ho intenzione di passare anch’io qualche fine settimana in campagna. Sono venuto senza entusiasmo ma, sarà per merito tuo, non mi sono mai divertito tanto. Sei stata meravigliosa, cuginetta, non lo dimenticherò! Se non ci vedremo prima, mi raccomando studia e non fare girare troppo la testa ai ragazzini!»
Un affettuoso buffetto paternalistico, e scomparve sulla moto dietro il polverone della discesa.
Ritornava alla sua città.

Alcuni giorni dopo ritornammo a Torino.
Non lo avrei rivisto per un periodo che mi sembrò interminabile, ma al tempo stesso egli era ormai con me, sempre presente nei pensieri.
Sarebbe passato l’autunno, poi l’inverno, poi la primavera, poi l’estate, poi di nuovo un altro autunno, un altro inverno e un’altra primavera, e io ogni fine settimana ero lì, ad alimentare le illusioni, a spiare prima tra i filari carichi d’uva, poi tra il rosso e giallo delle foglie morenti, poi oltre i vetri appannati dal freddo, e infine tra le aiuole fiorite e il grano maturo, che lui mantenesse la fugace promessa di ritornare.
E mio padre stupito e felice che finalmente lo seguissi senza discutere in campagna, che amava molto, e io invece un po’ meno, ora ch’ero cresciuta e avevo le amicizie in città.
Rammento le lunghe domeniche d’attesa, popolate da dolci fantasmi, come l’immagine stessa della mia adolescenza sognatrice.
Lo ricordo anche come un periodo di pace, di serenità, di trapasso, finito il quale alle fantasie sarebbe subentrata la realtà.
Lunghe partite a bocce, i discorsi e le cantate vicino al camino, il guado del torrente, le escursioni nei boschi, le gite in bicicletta, e mio padre, fulcro di tutto ciò, il bel viso schietto ridente nella battuta, il bicchiere di barbera in mano, e intorno noi e gli altri che dalle case vicine venivano ad ascoltarlo, a godere del suo vino e della sua allegria.
Ma l’amore per mio cugino Paolo, che mi avrebbe ri­portata indietro nel tempo, spostando i fine settimana cittadini in campagna, dove tutto scorre lento e ha un’altra dimensione, dove avrei imparato, più di quando ero piccina e non capivo, ad apprezzare e godere delle cose antiche, dei vecchi passatempi, delle pause, non sbiadiva nel tempo, ma ingigantiva nell’attesa, nella fantasia.
E ogni domenica sera era con sofferenza che me ne andavo senza averlo visto.
Scendendo, guardavo attraverso i vetri dell’auto oltre le piante di gaggie, limitanti l’aia della casa di sua nonna, ancora sperando.

L’estate di due anni dopo.
Quel giorno, che finalmente lo rividi, era uguale all’altro, in cui mi ero invaghita di lui.
Le vigne e i campi arati con cura, adagiati nella valle assolata, le gaggie e i pioppi ombreggianti il torrente quasi sfumati dall’afa.
Io invece ero cambiata: lo specchio mi rimandava l’immagine di un viso in cui riluceva uno sguardo azzurro più intenso, più maturo, forse, sopra un corpo fiorente di donna.
Dentro invece ero la stessa, irriducibilmente sognante.
I ragazzi mi corteggiavano, se avessi voluto legarmi a qualcuno avrei avuto soltanto l’imbarazzo della scelta, eppure ero rimasta fedele a un sogno, a un nulla.

Arrivò nel tardo pomeriggio, quando l’afa si stava smorzando, e i colori apparivano più vivi, arrossati dal sole calante.
Come sempre, con lui entrò un turbine d’allegria, di vitalità, che ci coinvolse tutti.
Lunghi abbracci, risate, battute, parole a fiumi.
Quando mi baciò, mi tenne a lungo il viso tra le mani, dicendo: «Ma sei proprio tu, la ragazzina di due anni fa, carina, ma un po’ insipida… Sei una donna, e che donna! Quasi quasi ti faccio il filo…»
Quella sera tutto quanto avevo sognato pareva avverarsi come in una favola.
Paolo parlava con tutti, è vero, ma i frizzi, le parole e gli sguardi complici erano per me, e non sembravano gli sguardi paternalistici di due anni prima.
Vederlo dopo due anni e tante fantasie non era stata una delusione, con felicità avevo scoperto che il sentimento per lui era immutato, se non aumentato, e ora, in quei momenti desiderati, ma quasi insperati, in cui mi pareva di esplodere per la gioia, avevo timore di svegliarmi e scoprire ch’era soltanto un sogno.
La sera intanto incominciava a tingere d’indaco il cielo, e una leggera brezza rinfrescava l’aria.
Mangiammo sotto il pergolato, con la compagnia degli insetti e delle falene che regolarmente finivano nei lumi.
Il pergolato era proprio sul limitare del cortile, che poi sprofondava nella discesa, e nella notte vedevamo ora brulicare nella valle Asti illuminata, e le luci delle fattorie sparse nel buio dei campi su per le colline.

Con Paolo e due sorelle mie amiche, che abitavano in una casa vicina, decidemmo poi di scendere al cinema della parrocchia.
La strada era terrosa, quasi coperta dall’intreccio delle gaggie sulle nostre teste, e illuminata a lunghi in­tervalli da alti lampioni.
Le mie amiche camminavano avanti, ciarliere, e a me sembrava d’essere sola con Paolo.
Quanto parlammo quella sera! Per strada e poi al cinema ci raccontammo un’infinità di cose.
A dire il vero lui preferiva ascoltare, pareva molto interessato ai miei problemi d’adolescente, il film era vecchissimo, c’era un tenore che cantava e cantava, ma non ricordo altro se non il nostro parlottio continuo, gli sguardi annegati di dolcezza, le mani che ogni tanto si sfioravano, Paolo che ne prendeva una nelle sue e mi diceva ch’era una mano bellissima, aristocratica, il suo bacio sulla mia guancia…

Eravamo fuori, sul sagrato illuminato della chiesa, ad attendere le mie amiche che si erano fermate a chiacchierare con dei ragazzi.
Lui aveva la camicia aperta sul petto e vi brillava una strana medaglia.
La presi tra le mani chiedendogli che cosa significasse.
C’era scritto: “+ di ieri – di domani”.
Era una delle prime medaglie dell’amore, e forse a quei tempi era ancora originale, difatti fino ad allora non ne avevo viste.
Paolo, come al solito, rise, tergiversò, senza darmi una risposta.
Ma sul retro avevo visto scritto: «Per sempre. Laura.»
«È la tua ragazza?»
«Sì.»
«La ami?»
«Sì.»
«Bella?»
«Bellissima» poi con una carezza, sorridendo «Quasi quanto te, cuginetta.»

Tornando a casa non parlò che di lei.
L’aveva conosciuta al Luna Park, ove i genitori avevano un tiro a segno.
Lei però aveva classe e bellezza, e non sembrava appartenere a quel mondo, se non per una certa stravaganza e anticonvenzionalità nell’agire, che l’aveva coinvolto.
Naturalmente i genitori di Paolo non erano d’accordo, ma egli aveva ormai deciso che sarebbe diventata sua moglie.
Ecco i miei sogni in frantumi, lui che mi parlava di un’altra tranquillamente, come se non avesse mai letto nulla nei miei occhi, ed io che avevo scambiato tenerezza e simpatia per amore.

Avrebbe sposato Laura, e sarebbe stato l’ultimo suo gesto di ribellione.
Quando lo rividi alcuni anni dopo era scialbo e appesantito da qualche chilo di troppo.
Dirigeva una banca e il suo vestito era grigio e anonimo.
Dei vent’anni gli era rimasta soltanto la parlantina.
Sua moglie era sempre bellissima ma convenzionale al massimo con i suoi problemi di casa e marmocchi.
Forse solo allora riuscii a cancellarlo completamente dalla mia mente.

[continua]


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