Seguo l’odiato cammino di monotone pareti
che è il mio destino.
«Il labirinto», J.L.Borges
Binario 25
Mettetevi a guardare dalla prospettiva giusta,
in un angolo della stazione,
lo spettacolo gratuito dei suoi precari abitanti,
migliaia di facce convenute sul set dell’eterno-metraggio.
Ciak! Si gira.
Dov’è la scena?
Al binario venticinque, una donna sui trent’anni
dice addio a colui che ripartiva sul diretto per Pisa
delle venti e zero otto.
Non si rivedranno.
Drappelli di scout sudati e maldestri,
vomitati dalle fauci del sottopassaggio,
l’attraversavano come fosse un’ombra
prigioniera del suo cerchio a causa dell’amore.
Entri il matto!
Che spinge il carrello col suo bagaglio osceno
da un capo all’altro della banchina,
da mattina a sera.
Chi può dire se vi sia nel suo ciarlare e agitarsi a gran voce
il divino crisma della profezia che annuncia una rivelazione?
Il sole sta calando e proietta su San Lorenzo
un malinconico rossore effetto Technicolor.
La radio di un chiosco attacca gracchiando
le note di una canzonetta in voga.
La scena si chiude col treno che si allontana
e lei che di spalle rimane sola a guardare.
Pendolarismi
I giorni simili.
I miei passi che disegnano una stessa figura immaginaria
del mio percorso monotono, abitudinario,
i luoghi in cui transito che mi stanno addosso
come un vecchio abito comodo consumato:
la consuetudine rende improbabile la felicità.
La consuetudine riduce a un compendio essenziale di frasi spicciole
le battute sul copione del giorno.
Ognuno recita una parte.
A me è toccata una parte silenziosa.
Ma a volte mi sembra che i miei pensieri, troppo forti,
persino disturbino la scena e che mi si possa sentire,
che dalla mia testa
fuoriesca la voce fuoricampo,
il coro che introduce agli atti della commedia.
Mattino.
Varco la soglia del locale, il bar della stazione,
gremito della solita ciurma dei pendolari,
attraverso il buco e mi inserisco tra loro,
nell’ingranaggio perfetto che regolerà il mio giorno.
La ragazza dietro il banco mi ha scorto con la coda dell’occhio,
ha pronto il caffè che mi porge con una confidenza familiare.
È una Mirandolina ammiccante,
ma inconsapevole che i suoi vent’anni
sono una ferita ancora aperta nella mia vita
(ti avessi incontrato prima almeno,
prima dell’umiliante calvizie).
Non sono di quelli che si chinano smorfiosi
sulle carrozzine di infanti rugosi e sudati
che male odorano delle proprie feci e di latte acido,
verso cui tutti sembrano essere in debito di una smanceria
o di un sorriso idiota solo perché esistono, no.
Mi spaventano quegli animaletti egocentrici e succhia tempo.
E quelle madri poi, con le facce da madri e i culi flosci,
che si fanno largo tra la gente al mercato,
avanzando il diritto di precedenza nella calca
solo perché spingono un passeggino che dovrebbe,
secondo loro, spartire in due la folla
come Mosè le acque del Mar Rosso.
Sono orribili.
Con le loro tutine infeltrite aderenti
che disegnano corpi sfatti, non più invitanti,
seppure giovani forse, ma vecchie dentro
come vecchie padelle graffiate.
Sono feroci come lupe fameliche davanti scuola,
nei consigli di istituto,
nei parchi giochi,
schierate a difendere la propria prole coi denti
da un mondo scellerato,
che è scellerato perché altre madri come loro,
prima di loro, hanno sgravato la feccia
che infesta e governa il mondo da cui esse
vogliono proteggerli.
Dio mi scampi!
Ma ammetto che ci ho pensato.
Mi sono pensato accanto a quella femmina così gioviale
(insomma, non necessariamente lei),
con figli al seguito, cane al guinzaglio annesso e via dicendo.
Appena un’idea imprecisa,
appena un’ipotesi,
un abbozzo di vita coniugale.
Ma per quel posto si arriva passando
per strade lunghe e tortuose,
e quando si è finalmente giunti
si è anche stanchi abbastanza da volere solo sedersi
e pensare a come tornare indietro.
No, non farò deviazioni sul percorso già intrapreso,
non rinuncerò alla mia vita meschina
solo per assecondare un istinto
dettato dalla ragione dei miei coglioni,
per dover finire in coda sull’autostrada d’estate verso il mare,
con moglie nevrotica affianco
e piscialletto insofferente e smanioso sul sedile posteriore;
non finirò in un discount sperduto
di un sobborgo abbandonato a due passi dal raccordo,
traboccante di anime in pena la domenica pomeriggio
a fare provviste per la settimana.
Non finirò a dovermi ritagliare
nel caos acquitrinoso matrimoniale
il mio merdoso minuscolo pezzetto di spazio vitale.
Vorrei invitare una sera a cena la ragazza,
le vorrei parlare,
spiegarle come stanno le cose.
Ma il mio è un repertorio limitato e consumato di frasi usate.
Sono ingabbiato nella parte che mi è capitata in sorte,
che è solo una comparsa nella recita della sua giovane vita.
O chi lo sa?
magari siamo entrambi delle comparse ininfluenti
in una rappresentazione più grande,
dentro cui vorremmo rischiare e riscrivere
un destino più interessante.
E che le dico?
Non so recitare a braccio, non so improvvisare,
e poi la mia performance è troppo breve,
pochi minuti appena e sono già fuori sulla banchina
che mi accendo una sigaretta sotto il cielo ancora stellato
delle cinque e trenta del mattino.
Ci sono tutti.
Le solite chiacchiere da anticamera prima della partenza.
In un angolo, poggiato al muro,
il Duca scruta attorno con aria trasognata.
Non partirà col primo scaglione,
non partirà affatto,
se ne sta tutto il giorno a fare niente per la stazione,
tra il caffè e la banchina.
È un perdigiorno, un mezzo grullo, di umore variabile,
a seconda del dosaggio degli psicofarmaci
che gli somministrano i dottori.
Una psoriasi in stato avanzato sulle mani
gli nega il contatto con l’umanità
che lo tratta come un appestato,
e con qualunque donna
che non tolleri pezzi di pelle morta addosso.
Lo chiamano il Duca perché va in giro dicendo
di essere un discendente diretto di Ferdinando secondo di Borbone
e che da qualche parte in Trinacria
ha un castello e molti ettari di terra,
dove però non va quasi mai,
ma in verità è un pezzente,
uno spiantato,
un farabutto che tira a campare
col sussidio per l’invalidità
e qualche soldo che rimedia dalla madre,
che poi va a dilapidare ai video poker
o giù al porto con le puttane.
Uno cosi c’è in ogni paese,
è il primo che incontri e che con niente
ti attacca un bottone con la storia della sua vita
e stronzate del genere.
Si vive anche così,
spiaggiati come una lumaca di mare in balia della risacca.
Senti poi una voce più squillante
emergere dal chiacchiericcio generale.
È Giuvà.
Giuvà testa di legno,
occhi bovini, faccia ottusa da mezzadro, ventre obeso,
parla in dialetto marchigiano,
frasi torrenziali, gutturali,
mette bestemmie al posto della punteggiatura,
bestemmie fantasiose,
combinazioni infinite con l’aggettivo dio.
Giuvà fa il cuoco in una mensa,
ma è la terra il suo mestiere,
da molte generazioni di fatica nei campi,
il suo corpo è piantato alla terra come l’ulivo
e la terra gli sta sotto le unghie
e nelle pieghe della pelle crespa
arrossata dai vapori della cucina.
Ha un orto, la vigna, conigli, polli
e un maiale a cui a dicembre farà la festa.
Nei fine settimana smette i suoi abiti da cuoco
e ridiventa bifolco, un elemento della terra,
un suo prodotto imprescindibile,
inserito nel viaggio perenne dei suoi cicli,
che muore e si rigenera all’infinito.
Sora Pasqua si scompiscia dalle risate alle sue battute oscene,
le sue risate sguaiate echeggiano nel tunnel del sottopassaggio.
È una matrona sarda attempata e vivace,
prossima alla pensione,
che sta a servizio presso una famiglia patrizia della capitale
da quand’era appena una ragazzina.
Tutta la vita a pulire il culo ai danarosi.
Toglile il suo ufficio quotidiano
e avvizzirà in poco tempo come una rosa recisa dal rovo.
Ma ecco una luce in fondo ai binari.
È il nostro treno.
Ritratto
Un uomo con la faccia da San Sebastiano
e i modi cordiali,
il piglio e la taciturnità del benedettino,
ogni mattino, da molto tempo,
prende il treno che va in città
e incomincia il suo viaggio quotidiano
in direzione della sera.
Diritto come un palo della luce,
in fondo alla banchina,
attende la testa del treno
su cui sale con la mestizia del frate.
Spicca dal poggiatesta,
in quella masnada di viaggiatori,
quel volto cupo, di martire bersagliato.
Assorto nel suo testo,
che tiene come un breviario tra le mani grandi e ossute,
alza il capo di tanto in tanto per guardare fuori
o per sbirciare soltanto un poco
tra le facce dei suoi compagni di viaggio,
gli estranei di un’ora di condiviso destino.
A Termini smonta,
sputato dal treno come Giona dal ventre del pesce,
e si getta a passo spedito tra la folla
che di nuovo lo inghiotte.
Lo rincontri alla sera sulla via del ritorno,
più vecchio di un giorno,
e leggi sul suo volto,
capisci,
che è stato un giorno che non varrebbe
la carta su cui scrivo.
La linea gialla
È una mattina
che camminerei fino al tacco dello stivale
sotto l’entusiasmo contagioso del solicello di maggio,
oppure girerei in tondo sul marciapiede del lungomare,
su e giù a piccoli passi misurati
senza lena, senza una meta.
È una mattina che arriveresti in capo al mondo
a velocità di crociera
nell’abitacolo di un’utilitaria Wolkswagen,
o sui sedili consunti di una sbuffante corriera.
Resterei per ore sul ponte di una nave
a contemplarne la scia,
unico segno effimero del nostro passaggio
prima che il mare si ricomponga e ci dimentichi,
o ci cancelli come una cosa mai esistita.
Anche il treno mi piace.
Mica quello stracolmo delle ore di punta,
quello su cui la gente sale
appena strappata alla dolcezza del sonno
e verso cui il macchinista
sporgendosi sul predellino sembra gridare:
“Guai a voi anime prave!”,
ma quelli semivuoti,
delle ore smorte,
dei perdigiorno,
che non hanno fretta di condurci al lavoro
e spesso indugiano nelle stazioni secondarie.
Ci fu una volta,
in tarda primavera,
che fummo obbligati a fermarci per una lunga sosta
presso un binario di scambio
di una stazione secondaria,
e dall’erba folta di un campo vidi sbucar fuori una volpe.
Non avevo mai visto una volpe da così vicino,
a parte qualcuna già morta e imbalsamata
in qualche bettola di paese, appesa al muro
o poggiata sopra il barbacane di un caminetto.
Ci guardò incuriosita coi suoi occhi miopi,
camminando di lato
a passo di cane
lungo la banchina deserta,
poi il treno fece per ripartire e la vidi scomparire,
libera e scattante dentro un boschetto di betulle.
Quanti chilometri in un anno,
quante cose a chi viaggia si manifestano innanzi.
Poco importa se alla fine di ogni giorno
si ritorna al medesimo punto da cui si era partiti,
se procedendo lungo una linea retta tra due soliti estremi,
come una spola, sembra che nulla cambi,
e intanto tessi la tela fitta e complicata dei ricordi,
intorno i tuoi panorami variano impercettibilmente
e solo qualcosa resta nella memoria di ciò che è stato,
tutto si confonde nella memoria,
come le facce incontrate sui treni
nei quotidiani e brevi tragitti
o le stazioni che hai passato.
È in questo andirivieni
che si svolge prevedibile la vita,
di rare sorprese e attese
che paiono infinite sulla banchina,
dove una voce registrata e innaturale
dal megafono ci annuncia:
Il treno regionale… proveniente da…
e diretto a… è in arrivo sul terzo binario…
ATTENZIONE!
ALLONTANARSI DALLA LINEA GIALLA.
Ti adoro metallica voce.
Mi ti sono affezionato.
A quale dio appartieni?
Forse temi
che in un istante di follia
qualcuno di noi
si getti a cercar la morte sulle rotaie?
Ti preoccupi per noi o voce?
È già accaduto che qualche disperato
nelle stazioni appresso
si sia gettato sotto il treno,
facendoci assai arrabbiare per il notevole ritardo
procurato dall’insano gesto.
Ma i convogli ripresero sempre il loro corso,
sotto lo sguardo mesto e inorridito dei viaggiatori
che passavano sul sangue schizzato sui binari.
C’è ancora tanto in questo segmento da vedere,
in questa frazione incommensurabile dove balena l’esistenza,
di qua e oltre il vetro del finestrino
su cui si riflette la mia faccia stupita,
il volto curioso di chi procede giorno dopo giorno,
metro dopo metro, su questo tragitto
che segna la traccia inevitabile del destino.
Sguardi
Venivo dal bar,
mi ero fermato nella hall della stazione
a leggere gli orari sul tabellone elettronico
e uno sbirro e due militari di ronda
in tuta mimetica mi si avvicinarono.
Ordinaria routine.
Deve prendere il treno?, fa lo sbirro.
Avrà avuto pressappoco vent’anni,
si vedeva che era fresco di accademia,
la sua faccia pareva quella di Zeppo Marx
e il suo accento era del profondo sud.
E a te che ti frega?, rispondo.
Sembrò spiazzato,
come un neopatentato
piovuto nel mondo dal suo mondo
teorico e fasullo dei testi di scuola guida.
Quasi mi fece pena.
Mi dispiace, gli dico, così, per scusarmi,
è stata una brutta giornata oggi,
e intanto tiro fuori una sigaretta dal pacchetto.
Non si può fumare nella hall, fa lui,
cercando di essere il più possibile risoluto.
Senti, ma che vuoi?, faccio io.
Mi favorisce un documento, per favore?
Sì, ma vedi di spicciarti,
che ho il treno e tua moglie è a casa che mi aspetta…
Scusi scusi.
Non Ce la faccio proprio ad essere gentile con lei, gli dico.
E voi che cazzo avete da guardare?
Non dovete andare a combattere il nemico?
dico ai due militari che parevano in allerta.
Lo sbirro fece i suoi accertamenti
e poi mi lasciò andare.
Ordinaria routine.
Dal suo angolo, Mara, una barbona alcolizzata
in perenne ricerca di fumo,
monumento morente alla miseria e alla disperazione,
mi adocchiò con la sigaretta in bocca
e faticosamente si levò dal pavimento
e mi si fece incontro,
mimando intanto il gesto di fumare
portandosi l’indice e il medio sulle labbra,
le passai la Marlboro e gliela accesi,
lei mi ringraziò e urlò: ti amo bellezza.
Scommetto che lo dici a tutti, le dissi,
e lei sorrise e tornò al suo schifoso
tappeto di stracci unti e giornali.
La camminata dovette stimolarle le viscere,
prima di sedersi si tirò giù le brache,
si accovacciò
e liberò vescica e intestini in faccia
ai passanti allibiti che transitavano nella sala.
Umano, troppo umano, pensai.
In qualunque misura, mi dissi,
in ogni forma concessa all’uomo,
il corpo e l’anima domandano le stesse cose,
più o meno le stesse povere semplici cose:
un prosecco prima di partire,
per una leggera passeggera ebbrezza,
qualche boccata di fumo
per resistere alla noia dell’attesa
sulla banchina.
L’anima cerca cogli occhi
negli occhi della ragazza un segno di approvazione,
occhi che sbirciano negli occhi la possibilità di un avvenire,
l’ipotesi leggendaria che possa stabilire
una regola a questo immenso,
anarchico,
desiderio di farsi coinvolgere
in qualche modo dalla vita.
Infilarsi una camicia pulita
e aggiungersi alla moltitudine ordinata
che ogni giorno si spinge al suo ufficio,
che mangia,
che beve,
che soffre,
che riempie l’aria di parole,
di colori,
di fumo,
di odori,
captare in quest’ordine l’umano,
dissonante bercio della follia (e della miseria):
“A bello, che c’hai ‘n euro? devo prenne er treno pe’
Civitavecchia…”
“Spizzichì, che ce devi anna’ a ffa’ a Civitavecchia?”
gli chiedo.
E frugo nelle tasche,
recupero qualche spicciolo e lo passo a Spizzichino,
che subito va da un altro:
“Che c’hai un euro, devo prenne er treno…”
Che peccato ritornare ‘stasera.
Che aria tira.
quasi malinconicamente marina,
come se di là dei palazzi, fino a ponte Marconi,
per prodigio, si estendesse un agro
e nelle pause silenziose, tra lo sferragliare dei treni,
potesse udirsi il belare di greggi in transumanza
e si sapesse che in fondo,
là dove rapida si inabissa l’arancia,
è a una mezz’ora di marcia il mare.
Che pensi, tu?
Inafferrabile,
silenziosa,
così gentile quando guadagni
con discrezione il tuo posto
e prima di sederti domandi: “posso?”,
e cortesemente sorridi al tuo futuro vicino catatonico
e non poggi mai il gomito
nel bracciolo di mezzo
come fanno quasi tutti
(anche da certe inezie misuri le persone,
il loro egoismo o la grazia di stare al mondo,
quella con cui invece tu ti muovi, sconosciuta,
e che ti fa unica e bella,
incantevole nella calca organizzata e volgare
che mi annulla
come un’anima triste nel suo cerchio perverso).
Che pensi, eletta?
È superbo da parte mia pensare
di saper cogliere in un tuo sguardo
quello che ti accade dentro?
E solo perché lo scrivo
non è detto che tu esisti,
ma è perché lo scrivo
che puoi vivere in me,
solo in me (questo sì è superbo!)
nella mia mente sballata,
e dunque perché non ricamarci sopra,
perché non inventarmi un mondo in cui tu esisti
e sei quello che io scrivo?
C’era disillusione in quella tua occhiata buttata intorno,
sulle facce nel convoglio,
e che per caso mi toccò appena?
Sì, lo sento,
è disinganno,
per ciò che sarebbe stato
e che non sarà mai,
un poco di amarezza, forse, per la sera
(ancora un’altra sera) che hai lasciato andare,
che rapida si esaurisce
mentre scorriamo veloci lungo le rotaie.
Anche tu avrai sentito in quell’aria, poco prima,
che annunciava la primavera,
l’ansia latente che serpeggia
quando Natura ti obbliga alla vita,
e temi di non farcela
a coglierne fino in fondo il senso.
Sei mesta.
Assente.
O forse, come me, alla deriva.
Eppure quell’aria è come i fumi dell’oppio
e nostalgica come un buon vino a mezza sera.
E si fa sempre più forte,
prepotentemente penetra da uno spiraglio nel finestrino
quando il treno si ferma in mezzo alla campagna di Maccarese.
Vorrei alzarmi
e attraversare il corridoio immenso
per incontrarti.
[continua]