Opere di

Guido Iannone


Rifugiarsi altrove è suicidio

Occhi d’assenza stralunati
e mente evaporata
dissolta come fumo
che percepisce solo oltre le cose
fottendosene di sé

Nessuna realtà sopra le spalle
che faccia da zavorra
per rimanere coi piedi
piantati sulla terra

niente di tutto questo
ma solo
rarefatta nebbia
che si ficca dovunque
e fa tremare il ventre
col vomito in agguato

È la morte apparente
che cattura

Di là
in quell’oltre fittizio
s’accalcano i sospiri nella gola
s’avvampano figure
mai vedute
s’intrecciano le voci come funi
sulle schiumose labbra

è uno schifo di sballo
che scorre nelle vene
per paura

Eppure sembra tutto regolare
sembra la vita

e quando poi
ti svegli dal malsano sopore
ti trovi nella merda fino al collo
e crepi di fetore.


Di giorno ci sfuggono gli albori

Attonito
occhi sgranati sopra l’alba
con la punta del naso da mastino
inquieto
ad annusare l’est del risveglio

Avvento di rossore
che cristallizza il tempo sulle cose
confonde le apparenze
le geometrie deforma
tra cielo e mare
fino a scomporre linee d’orizzonti

Sbanda quel trapasso anche la mente
per divorarsi
cinico
ritagli d’esistenza.


Bava di lumaca

Luccicante e sottile
quasi artificiale
già seccata dal sole

Stanotte l’ha tracciata come via
sul muretto dell’orto
e sembra via di fuga
che bistratta i pensieri

È segmento privo di confini
per rifrangenze proprie
catartico perfino

Mi fa venire addosso 
un senso di vaghezza

quasi a spirare al buio

di nascosto 
senza sfidare il cuore.


Cercando parole

Le parole più belle
come seta filata sopra il collo
e sono partorite senza doglie
come le gemme delle primavere

Sono silenzio alato
che vola sopra i fiori
sullo specchio convesso che le irradia
e sopra quello concavo che le concentra
con violenza al cuore

Sono fuori dal tempo le parole più belle
e vivono di sé senza padroni

Sono schizzo di sole che trapela
sforando la durezza della pietra

A volte
se lasciate sole al vento
si sporcano di noia
diventano taglienti come lame
e sanno fare un male male-detto
fino a storcere gli occhi dal dolore


Per stringerti i polsi astrattamente

Niente
non so dirti più niente
il passo si è consunto
dietro l’idea di te che tra le mani ho colto
con fermezza

No
non temere ormai
non ti sorprendo più con le furbate
cartapesta s’è fatta la mia lingua
che gratta massacrante sul palato

Nella testa s’impastano parole
visioni stralunanti
uno sballo tremendo che accartoccia
fino a sfollare i sensi e la ragione

Ora è così
non so stringerti i polsi
l’ho scordato
e sulla schiena non dorme una carezza.


parole buttate nel cesso

e falle scivolare come vuoi le mie parole
sopra la tua pelle

puoi farne scorribande per giocarci
o vestirtele addosso fino al collo
puoi lucidarle
colorarle di rosso
e strapazzarle
tacerle addirittura
puoi persino ferirle fino all’ozio
e poi buttarle
nel cesso della metro
per annegarle a scrosci di sciacquone

non si fanno lavare facilmente
le parole
non se ne vanno via

annaspano affannate
riemergono marcate più di prima
e inesorabili invadono la mente.


A piedi nudi


A volte mi succede
divento stralunato all’improvviso
e mi sbaraglio
mi ritrovo randagio brancolante
inessenziale
e pieno di vuotezza turbolenta

Sarà che affiora senza avvertimento
sottile come l’aria che respiro
quella follia reclusa nella mente
smaniosa d’evasione

Prima che il fiato accorci la mia forza
corro affannoso
di nudità vestito
su strade opposte a quelle già percorse
per toccare l’inizio

e con lo sguardo punto in lontananza
dove la mia follia spazia al sicuro.


Nelle orecchie “En el muelle de San Blas”

Occhi sgranati a curva d’orizzonte
cogl’iridi seccati dal vento salmastrato
e le pupille due crateri spenti

S’è consumato il tempo dell’attesa
l’amore s’è sposato alla follia
sul molo del silenzio di San Blas

Singulti rassegnati e pianti amari
schiumano d’onde note sugli scogli
rock appena sussurrato a filo d’acqua
per spegnere le lune dentro il mare

Non tornerà l’amore coi gabbiani
non tornerà mai più l’amore ormai

Al molo non s’ approda né si salpa
è luogo di dolore
solamente.


Lettera su A4 da riciclo

Era solo per dirti
– e te lo scrivo
su questo A4 grigio da riciclo –
che mi sento stordito non di poco
dal tuo essere vera a dismisura

e spiegazzo parole roboanti
soltanto per sfiorarti col pensiero

Ma resti inarrivabile comunque
pur quando sei adagiata sul mio petto
e dai miei palmi trafughi le carezze
che t’accendono dentro frenesie

non ti basta inebriarmi di sapori
né schiantarmi di forti aritmie

sublimi in un istante per magia

non ti raggiungo mai
– te l’ho già detto –


Ancora guardiano delle stelle

Che poi
se sto sghimbescio e traballante
in bilico nel cielo
sui corni acuminati della luna
è perché – ti giuro – mi piace
e pure mi dispera
fare ancora il guardiano delle stelle

Meglio di qua non c’è
ne sono certo

Non perché stare coll’ansia
d’essere trafitto da lance rilucenti
oppure – lo ricordi? –
da quel raggio di sole assassinante
sia bello o esasperante per davvero
no
non è per questo
ch’è sempre esilarante
ma è perché mi riscopro
ormai quasi impotente a darmi un connotato
prigioniero di me in evasione

è questo un volo che si tenta da sempre

Ecco cos’era quel vuoto che distorce
quella morsa spietata della sera
che comprime la mente senza tregua

Si è soli veramente?

Una larva d’essenza che mi salvi
vorrei ci fosse

è questo un altro volo senza meta.


SOLITUDINE

Ogni tanto e specie quando la malinconia riesce a farla da padrona, mi ritrovo senza volerlo a osservare attentamente ciò che mi circonda, guardo la gente e le cose e tento di cogliere situazioni e stati d’animo. È una sorta di processo inconscio che mi porta a percepire ciò che mi sfiora, e le sensazioni che avverto, a volte sono piacevoli e diradano i miei languori di tristezza, altre, invece, sono turbolente e mi fanno sprofondare nella voragine dello sconforto.
Mi sono sempre domandato se questo modo di parlare con me stesso e questa maniera di vivermi, possano stare dentro i canoni della normalità comportamentale o appartengano alle stranezze anche se credo, semplicemente, che sia di tutti, di tanto in tanto, avvertire dentro sé il bisogno di guardarsi intorno per levarsi da dosso il pesante involucro dell’automa che omologa fino a far apparire il risveglio del mattino solo come assurda attesa dell’assopimento serale. E durante la giornata? Tutto è calcolato, scontato e scelleratamente quotidiano e abitudinario. Una routine che conduce alla noia mentale, fino a generare il mancamento della percezione di sé.
Poi però si riceve, per esempio, una chiamata da lontano.
Un parente ti comunica una brutta notizia, che avverti come una dolorosa sferzata sulla schiena. La fitta, però, ti scrolla di dosso il torpore della routine e ti ammanta di dispiacere e commozione.

“Volevo dirti che è morto il figlio di Ciccio…, cancro al cervello.”
“Oh Madonna, no! Non è possibile. Vorrei non crederci, che dolore e quanta pena per quei poveri genitori…”
Nel rispondere, avverti che la voce ti rimane semi-soffocata in gola. Vorresti aggiungere altro per esternare lo sconforto che stai provando, ma senti di essere bloccato. Non trovi altre parole, anzi, ti accorgi che non c’è proprio nient’altro da dire e devi arrenderti a un fatto ineluttabile. In quel momento solo la commozione ti appartiene, la pietà che provi, e il resto lo scarti perché è oltre a te.

Anche se ti senti scombussolato, recuperi il formale. Devi esserlo. Pensi che sia giusto far giungere una tua presenza a quei genitori.
Non puoi farlo di persona, data la lontananza e allora pensi a un telegramma, una presenza, anche virtuale, bisogna farla giungere.
Fai tutto da casa. Per telefono.
Buongiorno signore. Sono l’operatrice numero diciassette, come posso esserle utile?
Devo dettarle un telegramma.
O.k. mi dica. Destinatario?
Bianchi, via, eccetera.
Testo?
Vi siamo vicini punto preghiamo per il vostro bambino divenuto angelo stop
Mittente?
Rossi, via eccetera. Mi scusi signorina, quando giunge a destinazione?
Nella mattinata di domani, signore.
Mi rilegge il testo per cortesia?
Certo signore. Vi siamo vicini…
Va bene, lo invii, grazie.
Una cosa, la prego: quanti anni aveva il bambino, signore? Di cosa è morto?
Non avresti voglia di rispondere, avverti un fastidioso senso d’intrusione, d’invasione della tua sfera privata. Allora cosa fai? Stai in pausa un attimo e ti rendi conto che, dall’altra parte del cavo telefonico, una persona ha anch’essa scomposto la sua routine.
Rispondi lapidario.
Otto. Cancro al cervello.
Orrendo, anch’io ho dei bambini…, le chiedo scusa signore, non dovevo, mi dispiace davvero tanto.
Non si preoccupi. Buon lavoro.
Signore, mi chiamo Giulia…, anch’io sto soffrendo per i miei figli, il padre li ha abbandonati, se n’è andato via con un’altra. Mi scusi di nuovo. Non so perché le sto raccontando queste cose, non lo so proprio, ma parlando con lei ho avvertito una strana sensazione di sollievo.
Muto di nuovo. Stai lì con la cornetta del telefono appiccicata all’orecchio mentre nella testa ti balenano tanti pensieri, ai quali non riesci a dare immediata risposta. Ti sforzi di trovare il nesso tra i fatti della vita privata che Giulia, dall’altra parte del cavo telefonico, ha appena finito di raccontarti e la sua esternazione sulla sensazione di sollievo provata per averteli raccontati.

Ti si accende in mente una lampadina; ti lampeggia in mente l’idea della solitudine e te la ritrovi stampata in testa con due grossi segni d’interpunzione: un punto esclamativo seguito da un punto interrogativo. Così: SOLITUDINE!?
Tutto ti diventa, improvvisamente, chiaro e ti viene anche di rispondere a Giulia che è ancora lì ad aspettare un tuo segno.
Si sente sola. Vero?
Ora sì, signore. M’immedesimo in quella madre che sta piangendo sul proprio figlio morto. Il senso d’abbandono è sconfinato in quelle circostanze. È lì che si avverte, veramente, la solitudine, ti si materializza addosso e pesa, soffoca e, assurdamente, porta a ritener logico essere la morte, a volte, unica soluzione per liberarsene.
La voce di Giulia si affievolisce e tende a divenire rauca, è come se qualcosa le ostruisse la gola.
Signore, mi dispiace ma ora devo proprio salutarla. Buona giornata.
Rispondi appena, per gesto di cortesia, non per altro.
Buon lavoro Giulia e, anche a lei, buona giornata.
Pensi di aver chiuso, definitivamente, quella conversazione ma ti rendi conto che non è bastato mettere giù la cornetta del telefono per stopparla, perché quel dialogo aveva aperto il varco all’emotività che avverti dentro, come un languore, alimentato da un eco rimasto nei timpani, quello del tono accorato del commiato di Giulia.
Giulia, infatti, avrebbe voluto continuare a dialogare se fosse riuscita ad allontanare da sé la pesante cappa di solitudine generata da quell’approccio, che l’aveva piegata e costretta a soffocare il pianto in gola.

Tu, quel dialogo lo continui con te stesso, però. Il concetto della solitudine non ti abbandona e ti passano nella mente, con l’immediatezza di un flash, tantissime immagini di momenti della solitudine che avverti intorno a te, palpabile e cruda: Il sorriso di persone a te care che sono andate via per sempre, gli occhi nerissimi, luminosissimi, pieni di lacrime dei bambini negri che, senza alcuna pietà, muoiono di fame; e, assurdamente, anche gli occhi semi-spenti dei bambini, figli obesi del progresso, che muoiono anch’essi ma di noia, perché hanno tutto. Molti altri fotogrammi di vite e di vissuti, fatti di opposti, ti scorrono in testa e l’elemento dominante, padrone del pensiero è, e rimane, come un fantasma fisso, la solitudine che sconquassa tutto e partorisce l’uomo “ego sum” dispensatore di egoismi e di desolazione.
Eppure il sole, all’alba quando nasce, la luce la diffonde dappertutto.



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