A tutti quelli che non hanno
smesso di sognare!
CAPITOLO 1
L’IMBOSCATA
La nebbia bianca e densa alta circa mezzo uomo, illuminata da due lune, una mezza e una piena, rendeva il paesaggio lugubre e spettrale. Il suono echeggiante di una pagaia sull’acqua infrangeva il silenzio tombale che regnava sul lago Garsdod, posto al centro di tre grosse montagne ricoperte da fitte boscaglie. Sulla riva ovest del lago, dove la nebbia si diradava, fece la comparsa, una piroga di legno levigato dove si distinguevano due sagome, come ombre stampate su di un muro candido. Le sagome, ormai quasi nitide, erano una guardia e una giovane donna. La prima portava un’armatura dorata con la goletta ed un mantello cremisi e, sulla parte anteriore della corazza, spiccava un sole nero completo di corona rosso fuoco. La seconda portava in grembo un fagotto avvolto da una coperta marrone.
Sulla sponda, formata da una piccola spiaggia aurea circondata da limoni e albicocchi, un gruppo di quattro persone osservava ansioso l’arrivo della canoa. Due di loro, vestiti con una corazza azzurro cielo senza mantello, avevano, al posto dell’elmo, una specie di copricapo di pelle dura, con due fasce metalliche a croce dello stesso colore della corazza. Le braccia erano nude con dei legacci in cuoio che stringevano i polsi, mentre stivali e braghe di pelle marrone finivano il resto. La terza era un uomo senza armatura, con una cotta metallica senza maniche e delle fasciature in cuoio attorno alle braccia. Indossava stivali di cuoio ed un paio di calzoni marrone, non portava mantelli o altri ornamenti, ma aveva al collo uno strano ciondolo con due cerchi pieni, argentati, di forma uguale e nel mezzo una spada a forma di sciabola. Aveva i capelli e gli occhi castani, la carnagione chiara e il corpo alto e possente, molto muscoloso, con una cicatrice sul collo che finiva dentro la cotta di maglia. Una spada sul fianco destro ed un pugnale nella cinta dei pantaloni lo facevano somigliare ad un valoroso guerriero. La quarta era un vecchio che indossava una tunica color giallo chiaro, completamente calvo, il viso rotondo e rugoso, con una lunga barba bianca che finiva a punta all’altezza delle ginocchia. In vita portava una cintura di cuoio e, al dito anulare della mano sinistra, un anello d’argento con lo stesso simbolo del ciondolo del guerriero.
La canoa giunse a riva. Il primo a scendere fu la guardia che si mise subito a scrutare nei paraggi con sguardo severo e la mano sull’elsa. Finito di ispezionare i dintorni e le persone sulla spiaggia, aiutò la ragazza con il fagotto a scendere. La guardia offuscava l’immagine della ragazza, poiché si trovava sempre innanzi a lei ma quando si spostò, apparve in tutta la sua maestosa bellezza. Aveva lunghi capelli corvini e gli occhi di un profondo colore blu che luccicavano con il chiarore delle lune. La carnagione era chiara quasi azzurrognola ed il corpo esile e leggiadro. Indossava una veste argento con ricami particolari color cremisi, che rendeva le sue forme sinuose ed eleganti. In testa una coroncina d’argento con uno splendido zaffiro nel centro, allontanava i capelli dalla fronte facendo risaltare ancor di più l’aggraziata bellezza del suo viso. Guardarla infondeva pace e serenità. Lei si alzò e permise alla guardia di prenderle la mano.
“Prego mia Regina” disse la guardia aiutandola a scendere dalla canoa. Lei lo guardò e con uno sguardo di ringraziamento lo congedò.
Dal fagotto, così sembrava fino a quel momento, emersero una ciocca di capelli biondi ed il viso di un bambino dalla carnagione chiara.
“Finalmente qui, mia Regina” disse il vecchio facendo un profondo inchino; il guerriero e le guardie fecero altrettanto.
Lei fece un gesto non curante con la mano.
“Alzatevi! Non è tempo di cerimonie. Abbiamo un viaggio da intraprendere ed è tempo di partir….” Non fece in tempo a finire che una saetta di color rosso intenso illuminò a giorno la spiaggia.
Il lampo si dileguò e la guardia con l’armatura dorata, davanti alla Regina, stramazzò a terra con una freccia nera conficcata in fronte.
“È un’imboscata” urlò Wolfgang il guerriero, e guardandosi in torno aggiunse:
“Prendi la Regina Asha e il bambino e scappa.”
“Non prima di aver fatto qualcosa per te.”
Il vecchio alzò la mano al cielo.
“Grof sa ien.” All’improvviso, l’anello che portava al dito, s’illuminò di una luce bianca come le stelle e in pochi secondi la nebbia del lago si avvicinò a loro, avvolgendoli completamente, rendendoli invisibili al nemico.
Dalla foresta vicina si udì un suono di corno e un gran rumore di zoccoli avvicinarsi.
“Ora va, occupati della Regina e del bambino, al nemico penso io.”
Quirimus fece un fischio e un enorme unicorno alato planò davanti a loro. Era una creatura stupenda, bianca come la nebbia che li avvolgeva, portava sulle zampe anteriori una specie di paracolpi dorato ed aveva sul dorso una lunga sella di pelle con ricami color oro. Appesi ad essa c’erano un mantello con cappuccio ed un bastone di legno, alto circa otto piedi, con l’estremità superiore ricurva a formare un punto interrogativo. Aveva occhi verdi scintillanti e sapeva esattamente dove andare, nonostante la nebbia offuscasse ogni cosa. Atterrò innanzi a Quirimus e chiuse le ali, lunghe insieme più di cinquanta piedi. S’inginocchiò sulle zampe anteriori e fece un cenno con la testa come se volesse dire al vecchio di occupare posto sul suo dorso. Una volta in sella, Quirimus prese il bambino, lasciò che la Regina salisse e poi glielo porse, alloggiandolo in mezzo a loro.
“Che le lune ti proteggano, Wolfgang” dissero in coro Quirimus e la Regina Asha. L’unicorno puntò le zampe posteriori, dispiegò le possenti ali e con un balzo si alzò da terra. Con pochi battiti d’ali, uscirono dalla nebbia che li avvolgeva, lasciando una scia bianca dietro di loro. L’unicorno continuò a salire, staccandosi sempre più da terra, quando all’improvviso un altro bagliore rosso intenso tagliò la nebbia e si levò nella notte. Il bagliore finì e la Regina urlò in preda al dolore. Con la mano sinistra resse il bambino, mentre con la destra si toccò la scapola sinistra dove una freccia nera spiccava facendola sanguinare. Il vecchio si voltò, il volto preoccupato ed angosciato per quanto stava accadendo. Stava per pronunciare alcune parole, ma la Regina lo anticipò:
“Non fermarti Quirimus continua fino a quando non saremo al sicuro. Lui è più importante di tutto e di tutti, non dimenticarlo mai.” Con una smorfia di dolore socchiuse le palpebre ed appoggiò la testa sulle spalle del vecchio.
“Sì mia Regina” mormorò il vecchio con l’amaro in bocca e, volando sempre più in alto, si allontanarono.
Nel frattempo Wolfgang e le guardie sopravvissute corsero ai cavalli, legati ad un albero poco distante da loro. Allacciato alla sella di un cavallo c’era uno scudo rotondo, fatto al centro e all’esterno di metallo azzurrognolo, separato da una striscia di cuoio spessa e dura. Wolfgang mise lo scudo al braccio destro, sguainò la spada con la sinistra e montò sul cavallo.
“Per le due Lune” urlò, galoppando con le guardie che avevano fatto la stessa cosa.
Il guerriero sapeva, dall’esperienza di varie battaglie, che il rumore di zoccoli udito, poteva appartenere al massimo a quattro cavalcature e quindi decise di andare all’attacco, sicuro che lui e le guardie sarebbero riusciti a vincere.
La nebbia svanì di colpo, come cancellata dalla mano di un gigante, lasciando spazio ad una bellissima notte stellata e alle lune che irraggiavano ogni cosa. Gli occhi ci misero qualche secondo ad abituarsi al cambiamento e quando furono pronti, Wolfgang tirò le redini, fermando di colpo il cavallo, tanto che la guardia dietro di lui, per poco non lo urtò.
Davanti a lui otto Cfuz sbarravano la strada per la foresta. Non pensava che si sarebbero spinti fino a quei confini.
Erano bestie orripilanti e repellenti, alte più di due uomini messi insieme e camminavano eretti su due zampe con, al posto dei piedi, degli zoccoli. Tutto il corpo era ricoperto da una folta pelliccia marrone, tranne il busto, robusto e liscio e stranamente lucido come cuoio, duro e resistente, simile al torace umano. Al posto delle mani avevano tre artigli appuntiti e brandivano, da una parte un piccolo scudo rotondo, in metallo grezzo e, dall’altra una scure enorme. Quest’ultima, fatta da una lama tagliente infissa in un lungo manico di metallo, era fusa a formare un unico pezzo. Sulla testa la pelliccia copriva tutto il viso tranne gli occhi e la bocca, mentre il naso non si notava. Gli occhi erano rossi come la brace, assetati di sangue e la bocca grande con denti a punta adatti a lacerare la carne e ricoperti da una strana bava giallastra. La parte posteriore, ricoperta di pelliccia, finiva con una grossa coda nuda e rossa come gli occhi. In vita avevano uno strano cinturone metallico, composto di vari anelli legati e saldati tra loro, dai quali penzolavano dei ganci ad uncino, probabilmente usati per fissare armi e vari oggetti.
Non è possibile! Pensò Wolfgang sbiancando in volto. Avrebbe avuto problemi a sconfiggere una sola di quelle creature ripugnanti ed orripilanti; sicuramente lui e le guardie avrebbero avuto ben poche speranze di riuscire a scamparla.
Dalla foresta si levò una voce:
“Tuciozzat!” Uccideteli! Diceva. Poi si spense come inghiottita dalla foresta.
Wolfgang non capì cosa dicesse, ma riconobbe nella voce un tono aggressivo, fermo e deciso, come un comando.
I Cfuz ruggirono come bestie, anche se in realtà non erano molto diversi e presero a roteare le asce, avanzando a grandi passi. Wolfgang non sapeva cosa fare se non fuggire il più in fretta possibile, diresse il cavallo a destra dei nemici e si mise al galoppo, seguito fulmineo dalle guardie. Stava imboccando la foresta, dove i limoni e gli albicocchi finivano, quando sentì un tonfo dietro di lui. Si voltò per un istante e scorse il corpo di una guardia a terra trafitto alla schiena da una scure. Il sangue cominciò a ribollirgli nelle vene e presto la collera s’impadronì di lui. Senza riflettere girò il cavallo e, con la spada in mano, attaccò i Cfuz, seguito dall’ultima guardia. Un primo fendente amputò un braccio ad uno di loro che si accasciò a terra in preda al dolore. Con lo scudo parò un colpo di scure che, oltre ad un profondo solco, gli fece vibrare il braccio. Si stava preparando a colpire di punta un altro Cfuz, quando sentì una fitta tremenda alla gamba destra.
Lo avevano colpito con una scure provocandogli un taglio profondo. Ferito e sanguinante, Wolfgang riacquistò la lucidità e il controllo della propria mente e subito capì che non avrebbero avuto scampo.
Si guardò attorno per cercare la guardia rimasta e con disgusto notò due Cfuz che lo stavano sbranando con i loro denti aguzzi. La sua sbadataggine e leggerezza avevano portato alla morte anche l’ultima guardia. Nauseato da quella scena decise di abbandonare il campo di battaglia, giurando vendetta. Impotente e rammaricato, scomparve nella foresta di pini sulla montagna ad ovest del lago, inseguito dalla ferocia e dall’ostinazione dei Cfuz.
CAPITOLO 2
I MONTI SINUS
Yashan stava in ginocchio davanti ad un cespuglio osservando un grosso cinghiale, bruno nerastro con un canino spezzato, mangiare alcune castagne.
Poche persone si sarebbero avventurate sui Monti Sinus, ostili e tenebrosi e tanti avrebbero avuto paura solo a metterci piede. Lui non si curava di simili dicerie e malelingue, e non dava importanza al fatto che reputassero i monti maledetti, solo perché qualche cacciatore non aveva fatto ritorno dopo una battuta di caccia. Per lui erano come una seconda casa, abituato fin da piccolo a cacciare in quei luoghi, profondo conoscitore di tutti i suoi segreti e pericoli, anche se in realtà non finiva mai di apprendere e scoprire nuovi aspetti e posti nascosti di quei tetri ma, affascinanti monti. Non conosceva il perché li chiamassero in quel modo, ma credeva avesse a che fare con la loro forma. Si snodavano ed accompagnavano il fiume Larmoor da nord a sud facendoli somigliare ad un lungo serpente sinuoso.
Yashan se ne stava sulle colline limitrofe, dove il sottobosco era più ricco di selvaggina e di facili prede. Erano passati diciotto inverni per lui, ragazzo normalissimo di carnagione chiara ma abbronzata. I capelli lunghi, castano biondi, con una fascia sulle tempie per non farli cadere, risaltavano ancor di più i suoi penetranti occhi verdi. Il suo viso aveva forme addolcite con lunghe sopracciglia fini ed oblique, le labbra rosse e lo sguardo curioso e furbetto. Sul naso facevano capolino alcune lentiggini come piccole stelle in una notte candida. Una leggera peluria bionda gli spuntava sul viso, facendolo somigliare più ad un ragazzino che ad un uomo, anche se il corpo, asciutto e poco muscoloso, non lasciava spazio a fraintendimenti sulla sua natura. Indossava stivali e pantaloni di pelle con una cucitura di cuoio ad ics, che partiva dalla caviglia e finiva per allacciarsi in vita. Una maglia biancastra, senza maniche, gli usciva dai calzoni, allacciata sul davanti con stringhe di pelle. I vestiti erano logori, a tratti impunturati, vissuti da almeno un anno. Aveva, su entrambi gli avambracci, delle fasciature marrone chiaro ed in vita un cinturone di cuoio dal quale spuntava un piccolo pugnale ricurvo. Portava in spalle una faretra abbastanza grande da farci entrare un piccolo arco ricurvo ed alcune frecce dal piumaggio scuro.
Erano passati quattro giorni da quando era partito per andare a caccia e sapeva che la sua famiglia aveva bisogno di carne e pelli. Quel grosso cinghiale faceva proprio al caso suo. La pelle, di gran robustezza, sarebbe servita per vari usi come cinture, calzature, guanti o varie sacche. La carne, saporita e selvatica, unita alle loro coltivazioni, li avrebbe sfamati per diverse lune.
Le provviste che si era portato erano ormai esaurite, perciò non poteva perdere quest’ultima occasione. Sapeva di non poter avvicinarsi molto perché l’animale avrebbe fiutato il suo odore, così si sedette, prese l’arco dalla faretra e lo incordò. Si mise in ginocchio, estrasse una freccia e si voltò, puntandola verso l’animale. Stava per scoccarla, quando pensò che la distanza fosse troppo audace per la sua forza e che non sarebbe mai riuscito a raggiungerlo. Sapeva di non avere altre possibilità, ma anche che rinunciare avrebbe significato ritornare a casa a mani vuote. Scacciò tutti i dubbi dalla mente e si disse:
Almeno non potrò rimproverarmi il fatto di non averci provato!
Rinvigorito da quella speranza, tese il braccio destro e prese la mira.
L’aria fresca ed umida non era sufficiente a fermare le gocce di sudore che, dalla fronte, fecero capolino, per lo sforzo e la concentrazione. Non riusciva a mettere a fuoco, stava per rinunciare, avvilito e frustrato, quando la visione dei suoi famigliari gli balenò nella mente. Le immagini fluirono nitide davanti a lui. Tutti i sacrifici fatti per coltivare i campi, allevare gli animali, conciare le pelli, riparare gli steccati e per tante altre piccole e grandi cose di vita quotidiana che costituivano il suo mondo, lo rinvigorirono.
No, non posso deluderli.
Strinse i denti e all’improvviso, come per magia, l’occhio verde smeraldo, aperto per prendere la mira, mise a fuoco ogni cosa. Il cinghiale sembrava a due passi da lui, tanto che riusciva persino a vedere il suo naso umidiccio. Riusciva a sentire il rumore che faceva nel cibarsi di castagne e ghiande ed inoltre fiutava il suo odore come un lupo che fiuta la sua preda. Come se tutto questo non fosse già assurdo, il braccio che teneva la freccia ed inarcava l’arco non gli doleva più per lo sforzo, era come se impugnasse un ramoscello verde e lo potesse rompere con una sola mano. Esterrefatto, da tutta quella situazione ed incredulo delle proprie capacità, tese ancor di più l’arco tanto che se non avesse mollato la presa in pochi istanti, si sarebbe di certo spezzato.
Un tonfo secco e forte scosse la foresta. Gli uccelli sugli alberi volarono via, alcune lepri si rintanarono nelle loro tane, gli scoiattoli abbandonarono le ghiande e si rifugiarono negli anfratti degli alberi ed il cinghiale si voltò di scatto a scrutare cosa fosse successo, indeciso se attaccare o scappare. Era come se tutto si fosse fermato per qualche istante come se un senso di pace e di tranquillità innaturale avvolgesse ogni cosa.
Yashan si guardò incredulo il braccio destro coperto da alcune schegge di legno e poi guardò il suo arco, due pezzi di legno rotti legati da un filo e i suoi poteri svaniti nel nulla, come risucchiati da un vortice invisibile.
No, non è possibile! Il mio arco.
Parecchie domande percorsero la sua mente:
Come farò a dirlo a Wolfgang? Come spiegherò quello che è successo? Soprattutto come posso tornare a mani vuote?
Non ebbe modo di analizzare la cosa perché si accorse che il cinghiale stava attaccando. Estrasse il piccolo pugnale ricurvo dal cinturone e si mise in guardia.
Una voce dentro di lui disse:
Hai intenzione di difenderti? Hai delle speranze? Peserà tre volte il tuo peso e avrà il triplo della tua forza.
Lo sprezzo del pericolo e l’entusiasmo di affrontarlo svanì di colpo, per lasciar posto alla disperazione. Doveva trovare una via di fuga. Non c’era modo di pensare e non c’era il tempo di salire su di un albero, né tanto meno di raggiungere il cavallo, legato ad una quercia vicino ad una radura poco distante. Doveva per forza affrontarlo.
Il cinghiale continuava a correre nella sua direzione con la bava alla bocca ed il ringhio feroce. La paura si fece largo in lui lasciandolo impietrito, come una statua sul suo piedistallo.
Poi, come prima con l’arco e la freccia, strane sensazioni di sicurezza e forza si pervasero in lui, diffondendosi nel corpo e stimolandogli i sensi. Era come se la paura avesse stimolato quella strana magia, come prima la frustrazione e l’ansia di non riuscire a colpire l’animale.
Ora, avvolto da questa stregoneria, vedeva il cinghiale muoversi a rallentatore e riusciva a carpire tutti i movimenti precisi, fotogramma per fotogramma. Sentiva il rumore delle zampe che battevano sul terreno ricoperto di foglie secche e sentiva persino il suo cuore battergli pian piano. Si fece audace e carico di quelle sensazioni, fece un passo in avanti.
Con stupore notò di essere quasi arrivato davanti a lui. Lo vide abbassare la testa per investirlo, ma lui lo schivò con un tuffo fulmineo e, mentre era di lato, vide il corpo del cinghiale davanti ai suoi occhi scorrergli lentamente. Con il pugnale, fece un taglio profondo su tutto il fianco sinistro e nel farlo si stupì del fatto che sembrava di tagliare formaggio.
L’animale smise di correre, si fermò di colpo, e con un ultimo ringhio di dolore si accasciò a terra, ormai morto.
Le sensazioni e gli strani poteri di Yashan svanirono immediatamente, così come apparsi e ci mise qualche minuto per riabituarsi alla normalità. Guardò il coltello sporco di sangue con le gocce che cadevano dalla punta. Fece qualche passo e si avvicinò al cinghiale. Rimase stupefatto nel vedere la lunga lacerazione inflitta all’animale. Si accostò ed aprendo la ferita con la mano sinistra notò che era profonda quanto la lama e che non aveva tagliato solo la carne ma anche le ossa interne.
Rimase seduto per ore a ricordare gli eventi di quella giornata mentre il cielo sereno, ma ormai plumbeo, si preparava ad accompagnare le tenebre.
Non sarebbe riuscito a tornare alla fattoria quella notte. Conosceva bene quei luoghi, ogni sentiero, radura, piccolo ruscello e sapeva che incamminarsi di notte, per giunta da soli, in quella foresta, sarebbe stato pericoloso. Decise quindi di accamparsi ancora una notte e l’indomani sarebbe tornato. Lasciò il cinghiale dov’era, troppo pesante per essere trasportato a mano e andò a prendere il cavallo.
Non poteva scuoiarlo sul posto perché l’odore ed il sangue avrebbero attirato ogni tipo d’animale. Era meglio legarlo e trascinarlo, con l’aiuto del cavallo, nella piccola radura, accendere un fuoco, scuoiarlo, svuotarlo delle viscere ed avvolgerlo in una coperta affinché non si sentisse l’odore. Poi avrebbe bruciato le viscere e le parti scartate dell’animale senza attirare indesiderati predatori.
Detto e fatto. Il giovane si mise al lavoro e pazientemente realizzò il tutto.
Era esausto da tutto quel lavoro e dalla giornata intensa. Si sdraiò accanto al fuoco masticando della carne affumicata, mentre il cavallo brucava dell’erba giovane e verde. Guardò in alto e contemplò la magnifica notte stellata, soffermandosi ad osservare le due lune, una mezza e una piena, chiedendosi come mai non fossero mai entrambe piene e si alternassero a vicenda ogni sera. Distolse lo sguardo ad osservare il fuoco, mentre altri pensieri si fecero largo nella sua mente.
La mia famiglia mi prenderà per pazzo, quando gli dirò quello che è successo. Non mi crederanno mai. Forse è meglio che non racconti la verità, anche se non mi va di mentirgli.
Si soffermò a pensare ancora alla cosa migliore da fare e alle parole da dire.
Sia! Gli racconterò che ho colpito il cinghiale con le frecce e l’ho finito col pugnale. Per quanto riguarda l’arco gli dirò che il cavallo, accanto a me, si è imbizzarrito e malauguratamente l’ha calpestato, spezzandolo. Pensò, sicuro che fosse la soluzione migliore.
La luce prodotta dalle due lune, rischiarava la piccola radura, dove le ombre dei castagni e dei cipressi cercavano di oscurarla ed avvolgerla in un manto tenebroso. Un gufo solitario se ne stava su un ramo avvizzito a scrutare la notte in cerca di piccoli roditori e Yashan, sfiancato dalla spossatezza, si lasciò ninnare dal dolce crepitio delle braci e lasciò che il mondo dei sogni lo cullasse, come una madre con il proprio piccolo.
[continua]