Dedicato a mia madre, mio pilastro e sostegno
insostituibile ed ineguagliabile. Voglio spiegarti
come e perché.
E a me stessa. Solo io so, solo io sento, solo io posso.
E a quelle poche persone che con amore hanno
provato a salvarmi.
Se ci sono riuscite, ancora non lo so.
“Mia sorella non si muove. Resta a letto la mattina, torno da scuola e dalle lezioni sportive e la vedo sempre lì, davanti allo scaldabagno raggomitolata tra le coperte. E non dorme. No. Lei pensa. Che gran ferite si affligge pensando. Per lei non è sano pensare. Sarebbe meglio dormisse. Vorrei sapere a volte a cosa pensa. Ma la sua mente mi spaventa quanto il suo comportamento. Mia sorella non dorme. Mia sorella pensa. Mia sorella è strana. Mia sorella ha sempre freddo. Mia sorella non mangia nulla. Mia sorella sta morendo fuori. Mia sorella è morta dentro”
“Mia sorella è di nuovo ricoverata. Un ennesimo duro percorso l’aspetta e lei non è contenta di andare a salvarsi la vita. Ho deciso che anche questa volta non andrò a trovarla. Troppo doloroso guardarla negli occhi e vedere la morte affacciarsi senza dignità. Non le ho mai parlato più di tanto della sua malattia, non la capisco, non saprei che dire se non che la odio perché si è mangiata una parte di me, quella Lara serena e gioiosa qual era. Da fratello maggiore sono riuscito solo a dirle “Ti prego fatti aiutare. Fatti ricoverare”. Non mi ha ascoltato quando gliel’ho detto io, ha aspettato che fosse l’unico modo per non morire. Mia sorella. Ridatemela così com’era prima di questo inferno”
“Mia figlia ridotta così. L’ho ridotta io così? In cosa abbiamo sbagliato? Le abbiamo dato tutto ciò che possediamo. Ma forse non era quello di cui aveva bisogno. Sicuramente influisce la gelosia che credo abbia provato verso la sorella più piccola, come se l’avessimo accantonata per dare spazio alla nuova arrivata. Mia figlia. Mai avrei creduto di poter vedere una persona, MIA FIGLIA, ridursi così. E non riesco a fare nulla per aiutarla né tantomeno per capire le sue logiche e i suoi bisogni, seppur io sia suo padre. Spero solo sappia quanto la amo”
“Piccola bambina mia, come ho potuto lasciare che ti facessi questo? Eri la mia rosa senza spine, ricordi? E ora sei un cadavere su un letto nella tua maledetta camera a cui se potessi darei fuoco. Ti guardo e mi si spezza il cuore in mille pezzi, gli occhi si bagnano senza ritegno, non so cosa dirti o fare per aiutarti. Non mi resta che abbracciarti ed ascoltare i tuoi deliri. Come ho potuto non fermarti quand’ero in tempo? Cosa ho sbagliato? È colpa mia lo so. Dammi la tua vita e io ti do la mia. E ti supplico, non andartene e lasciarmi sola. Ti seguirei”.
05-12-09
Sedie bianche allineate al muro. Pareti verdi. Etichette appese a ogni porta.
Ospedali.
Quante volte mi sono seduta su quelle sedie fissando quei muri aspettando che si aprissero quelle porte nella speranza, di chi mi circondava e forse un po’ anche mia, di trovare aiuto.
E intanto con l’immaginazione univo i puntini dell’intonaco delle pareti.
Ospedali.
Quando mi trattenevano d’urgenza, per una notte come per una settimana, pensavo a quanto sarebbe passato prima che mi fossi pesata di nuovo, pensavo a quanto peso avrei ripreso a causa di quelle flebo e a quanto avrei impiegato per perderlo di nuovo.
Adoravo le garze bianche, gli aghi dei prelievi o delle flebo, il mio sangue sempre troppo scuro e, all’apparenza, sempre troppo poco, per riempire quelle siringhe, il profumo del disinfettante, l’aria sterilizzata, il silenzio di quei luoghi; adoravo sentirmi diversa. Adoravo che, anche se mi avessero ricoverata, avrei sempre potuto vincere io sulle loro cure. Io avrei deciso se avrebbero funzionato.
Adoravo girovagare per l’ospedale in ciabatte e pigiama, andare a fumare al freddo raggomitolata sulle mie ossa, certa che quella condizione di onnipotenza anche sui farmaci mi rendesse migliore e che non vi avrei mai rinunciato, nessuno me l’avrebbe mai potuta rubare.
Il mondo intero era completamente impotente di fronte al mio modo di morire, o di vivere.
Nessuno poteva nulla, io potevo tutto. Nessuno poteva entrarmi dentro e ammaliarmi come l’anoressia faceva. Nessuno poteva vincermi. Solo lei. Nessuno poteva fare di me ciò che voleva, solo lei. E nella mia mente “lei” ero io e spesso lo penso ancora. Dunque nessuno, oltre me, aveva un qualche potere sulla mia vita.
Ospedali.
Vi ho passato la maggior parte dei giorni della mia malattia/vita.
Ospedali. Li amavo e li odiavo.
Ospedali. Li amo e li odio.
06-12-09
Freddo. Mani gelide. Inverno.
Ho passato così tanti anni senza sentire il profumo dell’inverno, ho trascorso così tante stagioni senza avere idea della reale temperatura esterna.
Sempre protetta dal mio piumone, riscaldata platonicamente dallo scalda sonno e da un paio di tazze di thè che puntualmente rigettavo, ogni giorno mi conficcavo nella carne una solitudine, a volte cercata altre dovuta, una solitudine che mi impediva di partecipare alla vita degli altri, e che offuscava la mia vista dal vedere la seconda entità più vicina alla mia anima, il mio corpo, me stessa.
Con la sola, unica, imposta o voluta, compagnia dell’anoressia, dilaniavo corpo e mente con ferite autoinflitte, gesti irrazionali e inconsci, diete inconsistenti/inesistenti quanto quello che ingerivo, induzioni al vomito sempre più frequenti e naturali, vuoti interni sempre più vertiginosi e violenti.
Non percepivo lo scorrere del tempo perché la dimensione nella quale mi trovavo non aveva minuti, ore, giorni. Solo gesti, emozioni, rituali ripetuti all’estremo ritmicamente e naturalmente quanto l’atto del respirare.
Nulla nella mia mente ha un ordine cronologico, confusa da giorni sempre uguali e martellanti nella loro similitudine.
Niente primo giorno di primavera, niente profumo di pioggia, niente primi colori autunnali, niente freddo invernale.
Vagavo tra i giorni in un mondo a sé stante, lontano anni luce da quello in cui erano inseriti gli altri.
08-12-09
21 anni. 21 anni che pesano come 100 e vengono scambiati per 16.
Nessuno ha mai indovinato l’età che ho. Forse perché non so neppure io quale sia e quindi confondo chi mi incontra. Normalmente mi danno 16-18 anni; nel periodo in cui la malattia pesava di più, e quindi io di meno, addirittura 13.
E non mi dispiaceva, perché allora avevo un corpo da bambina ed ero felice mi fosse riconosciuto tale traguardo. Anche perché questo non influiva sull’aspetto pratico della vita quotidiana. In farmacia sfoderavo la carta d’identità ed ero a posto, e lo stesso nelle tabaccherie.
Però, al contempo, un po’ mi innervosiva, perché per valutare l’età di una persona la si deve guardare anche in faccia. E il mio viso sicuramente non aveva i tratti di una felice 13enne. La pelle era chiara sì, ma un chiaro-morto; ero minuta sì, ma una minuta-cadavere. Con un po’ d’attenzione, si sarebbe potuto intuire che io avessi almeno 4-5 anni in più di quanti ne mostrava il mio corpo. Ma aspettarsi attenzione nella realtà comune, intendo la vera attenzione, quella di chi cerca di leggerti dentro, è tempo sprecato.
A volte mi sento senza età, o con un’età in via di definizione. Quanto tempo passerà ancora prima che io mi decida a darmi un’età, non lo so. Magari lo saprò domani, magari fra 70 anni, quando ormai saranno le rughe, i capelli bianchi, la vecchiaia, il mio corpo insomma, a suggerirmelo.
Se ci arrivo a vivere altri 70 anni. Ma questo è un altro discorso.
Odio questo giorno, da quando ho compiuto 18 anni ogni anno è un’atroce tortura, perché tutti gli 8 dicembre mi allontanano sempre di più dalla possibilità d’essere considerata non autosufficiente, piccola, volubile. Mi allontanano sempre di più dal mio letto, dalla mia cameretta, dalla mia famiglia, dalle mie certezze, dal mondo che mi sono creata in quelle quattro mura, dal riparo dei temporali che creo io stessa.
Ogni giorno è un numero in meno al conto alla rovescia, scadenza che mi porta a dover essere ciò che il mondo si aspetta da una ragazza, ciò che è necessario fare per essere integrati in una società in cui, per quanto mi riguarda, mi devo violentare se voglio camminarci in mezzo.
Ho provato spesso a spiegare i motivi per cui odio il mio compleanno, ma puntualmente vengono banalizzati, sminuiti, o semplicemente incompresi.
E poi, come faccio a spiegare che vorrei tornare talmente piccola da rientrare nel grembo di mia madre, al sicuro, con il suo strato di pelle che mi protegge? Come posso spiegare che vorrei che mi insegnasse nuovamente tutto ciò che conosce, a partire dal nome degli oggetti, a muovere i primi passi? Che vorrei ancora per un po’ usare i suoi occhi per guardare il mondo in braccio a lei? Come posso spiegare. Che ho paura di perderla. Che ho paura che muoia; e la mia mente contorta mi porta a credere che più piccola divento più allontano il giorno in cui dovrò staccarmi da lei, un cordone ombelicale troppo duro per poterlo tagliare senza farsi male.
E ancora, vorrei cancellare tutta la mia vita e riscriverla da capo, senza errori, senza inutili bugie, senza urla, senza tagli alla fragola. Vorrei godere ancora dei giorni che ho sprecato, invece di vivermi la mia famiglia, rincorrendo stupide infatuazioni che mi spingevano a voler scappare di casa.
Sì, volevo andarmene il prima possibile da casa mia. Sì, ora faccio fatica a lasciarla per uscire a bere un caffè in compagnia.
Vorrei tornare indietro per dare il giusto peso al tempo, senza pensare che sia infinito, senza pensare che sia sempre lì, identico al giorno prima.
Vorrei tornare piccola anche per reinventarmi, se ci riuscissi chiederei di modellarmi così come mia madre mi immaginava mentre si accarezzava la pancia. Così sarei sicura di andarle bene, sempre, di non sbagliare, di non deluderla, di non farla pentire di aver voluto concepirmi, di non farle pensare che forse in ospedale hanno scambiato la culla. Perché io, al suo posto, con una figlia così, ci avrei pensato. L’unica programmata su tre figli: l’unica che non sarebbe mai dovuta nascere.
12-12-09
Improvvisa voglia di scrivere.
Dettata forse dal turbinio di parole di un libro appena letto, parole che tentano in ogni modo di sostituire ogni stadio di relazione tra due persone descrivendo minuziosamente tutti i passaggi tra la conoscenza e l’innamoramento.
Parole.
Troppe volte ne ho pronunciate di sbagliate, troppe volte non ho adeguatamente pesato ciò che la mia voce stava per pronunciare, probabilmente senza rendermi conto del loro effettivo peso/valore/significato.
A volte ho l’impressione di essere una bambina che usa termini ancora incerti perché non è a conoscenza di una parola appropriata al concetto che le occupa la mente.
O forse è il concetto a non essermi appropriatamente chiaro ed io cerco di giustificarmi così?
Non so rispondere, capisco solo di avere tanti pensieri nella mia mente che si legano, slegano, giocano, oppongono… il tutto in una mente forse troppo piccola per contenere tutto questo movimento, o troppo inesperta per poterlo esprimere e spiegare a parole.
E dico a parole perché in modo diverso riuscirei a dimostrarlo senza problemi; con il mio corpo ad esempio, mi riesce sempre bene.
13-12-09
Certe volte mi illudo di essere riuscita a creare una sorta di amicizia/collaborazione tra me e il cibo.
Nulla è più falso e impossibile.
Il cibo è stato, è e sarà per sempre il mio peggior nemico.
Sarà così fino a quando non riuscirò a trovare un punto di incontro, una mediazione funzionale tra me e lui. E dopo anni di terapia e un numero di dottori che non posso indicare con le dita delle mani, sto perdendo la speranza che esista ciò che sto cercando, quel punto d’incontro accettabile.
Non c’è stata una volta in cui non le abbia rinnegate/rifiutate, almeno con il pensiero, quelle molteplici sostanze che le persone assumono per bisogno o/e per voglia, tutti i santi giorni, senza chiedersi perché o per come. Il cibo, così innocuo per tutti, così letale e lacerante per me.
Mi sento in balia di esso, e con me lo è il mio corpo.
Come si può perdonare qualcosa che ci ha ferito tanto? Qualcosa che ogni santo giorno ci ha torturato e fatto uscire di testa e confuso e fatto piangere e si è fatto desiderare con un’intensità tale da farci sopravvivere solo in sua funzione? Come si può dimenticare? Mi devo rassegnare?
Forse dovrebbero inventare un corso, in cui non solo mangi, ma ti approcci al pasto e al suo svolgimento con la stessa innocenza/semplicità/attenzione/curiosità di una bambina all’asilo. A partire da come usare la forchetta, anzi, a partire da come prendere la linfa vitale alla propria madre. Sì, un corso per conoscere da zero l’arte di nutrirsi.
Sogno, lo so, e forse se anche esistesse non servirebbe a niente.
14-12-09
Di nuovo qui. Di nuovo voi. Voglio manomettere le cure, voglio raccontarvi ciò che volete sentire e fare il contrario appena fuori dalle vostre mura. Voglio essere di nuovo definita “grave” (sembra presuntuosa questa frase, egocentrica forse, ma in realtà cela il mio bisogno di essere in qualche modo giustificata per questi tormenti che mi accompagnano. Sentirmi dire che sono un caso complesso e grave mi ha sempre aiutata a sentirmi meno stupida, meno sbagliata. E anche capace almeno in qualcosa, cioè nell’essere malata. Triste, lo so da me). Voglio che vi sentiate impotenti.
Non siete in grado di decodificarmi, e dovete rendervene conto.
Il mio peso aumentato non mi rende ora comprensibile e normale.
No, significa solo che qualcuno ha fatto un buon lavoro, ha approfittato del momento in cui ero più stanca e spossata e affamata e mi ha porto qualche alimento. E io l’ho divorato tutte le volte, senza pensare alle conseguenze a lungo termine, alla pesantezza di quei bocconi, all’ostacolo che avrei trovato nel rigettarli appena mi fossero diventati insopportabili.
E ora lo sono diventati. Quei bocconi, li sputerei tutti. E per ora non riesco a farlo, perché leggere disperazione negli occhi di mia mamma è più difficile che morire di fame.
Però tutti quei “voglio” sono indice di qualcosa, sono campanelli d’allarme, me ne rendo conto.
Credo proprio di avere ragione, quando dico che non posso cambiare, che nulla può modificare il mio essere/non essere.
E la cosa peggiore è che non ho paura di me stessa. Dovrei. Sì, dovrei.
15-12-09
Erano anni che la mia voce non usciva in quel modo.
Cattiva, rauca, forte, rumorosa, imponente, pazza.
Credevo che queste esplosioni d’ira facessero parte solo del mio passato.
Invece sono tornate, taglienti e crudeli come allora. Attenuate in questi anni da un temperamento docile e accondiscendente, stanco di farsi innescare, deciso a lasciarsi soffocare senza difendersi.
Presenti prima, quando ancora il cibo non era un problema perché bastavano i tagli sui polsi, presenti ora, quando sia il cibo che i tagli non bastano più. Giustificate prima da una “eccentrica adolescenza”, giustificate ora da… cosa? Follia?
Ditemi, dov’è la linea di confine che, superata la soglia della normalità, indica l’inizio della pazzia?
Qual è la differenza tra una persona detta “normale” e una chiamata “pazza”?
Quali criteri si usano per classificare le persone in una o nell’altra categoria?
La prima forse tiene per sé i pensieri che la seconda ostenta?
O la seconda ha pensieri che solo i suoi simili hanno?
Per trovare qualcuno che guardi al mondo con la stessa tonalità che adottano i miei occhi, devo per forza rifugiarmi in una clinica?
Inseritemi in una di queste categorie una volta per tutte. Datemi un nome.
16-12-09
Come ogni anno, mi sveglia la voce di mia mamma che mi sussurra “è tutto bianco”.
Mentre realizzo il significato di quella frase, ancora travolta dal sonno, ritorno bambina con i ricordi.
Mi alzavo di scatto e mi sporgevo dalla finestra ad ammirare il mondo dipinto di bianco. E per tutta la durata delle lezioni quella mattina immaginavo come sarebbe stato il pupazzo di neve che avrei realizzato nel pomeriggio, o a quali giochi avrei potuto fare con le mie amiche.
E ora?
Ora penso a quanto sarebbe strano vedere la neve macchiata con il sangue dei miei polsi.
A quanto sarebbe candido il dolore di quelle ferite.
E penso a quanto il mondo mi appariva più semplice dipinto di bianco. O più innocuo. E ora?
Più malinconico. Più triste. Un perfetto anestetico.
Non ricordo quando sono cambiata. Forse proprio quando ho smesso di fare pupazzi di neve e ho iniziato a spingere quelle lamette sulla mia pelle.
Sangue sulla neve.
Come tutte le ferite, anche quel sangue verrebbe coperto da una nuova nevicata, come a voler nascondere/cancellare agli occhi del mondo le prove di un peccato, di un gesto apparentemente illogico.
Perché quest’anno riuscite a trattenermi dal ferirmi di nuovo per mostrare il mio male anche su questa nuova neve?
RABBIA. Lasciatemi vivere a modo mio.
Ma poi, il mio modo di vivere, qual è?
17-12-09
Cento giorni.
Cento giorni che non mi piego a vomitare il mondo. Cento giorni che il mondo non viene vomitato da me.
Verbo transitivo. L’azione dal soggetto transita su qualcosa.
E sono quasi convinta che non sia una malattia a farmi agire così. Sono io.
Vomitare. Per me farlo era diventato naturale come respirare. Mi consideravo onnipotente.
Mi potevo concedere quelle piccole prelibatezze che molte persone evitano di concedersi o si guardano bene dal concedersi troppo spesso. Ma le eliminavo subito dopo averle ingoiate (per un periodo mi limitavo ad assaporare il gusto e sputare il cibo prima di averlo ingoiato, così da non dover vomitare. Poi però ho conosciuto lo strano potere di riempirsi per poi svuotarsi a proprio piacimento, di soffocare il dolore e far credere al corpo di essere tornata a sfamarlo, per poi fregarlo ed assaporare nuovamente quello stato di “vuoto” primordiale).
Così il mio corpo rimaneva immutato, le mie ossa persistevano nel loro tentativo di mostrarsi al mondo, il mio ventre incavo non faceva trasparire segni di cedimento al comune nutrimento degli esseri umani.
Io ero superiore alla necessità di sfamarsi insita negli esseri viventi. E questo incuteva paura/terrore/curiosità. E io lo adoravo.
Cento giorni. Cento giorni che ho trascorso senza avvalermi della rara capacità/condanna di vivere senza sostentamenti.
Arriverò a 150? 200? 500?
Continuerò all’infinito? O forse metterò fine a questo conteggio prima di quanto io/chiunque altro creda?
Che poi, a chi la racconto?
Credo davvero che il motivo per cui cedevo a quelle tentazioni fosse puramente materiale?
Non cercavo forse di riempire quel vuoto che mi accompagnava in ogni istante, per poi liberarmene rabbiosamente perché non sopportavo che qualcosa/qualcuno mi entrasse dentro come a volermi salvare?
[continua]