CAPITOLO I
Napoli, 1687.
‘L’intelletto come entità separata dal corpo?
Illuminazione intellettuale o osservazione sensibile alla base della conoscenza?’
Su questi temi rifletteva Anastasio scendendo le scale dell’androne, dirigendosi verso l’uscita.
Uno dei presenti alla riunione cui aveva appena partecipato gli aveva ricordato tremendamente un personaggio di un libricino che aveva finito di leggere il giorno prima.
Col naso aquilino, gli occhi ravvicinati e stempiato al punto da apparire quasi calvo se non per quei pochi capelli non tagliati da molto tempo dietro la nuca, gli fece sospettare che l’autore dell’opera dialettale si fosse ispirato proprio a lui.
Ovviamente non era così ma era stato divertente pensare all’‘uccello predatore’ mentre lo ascoltava ribattere quelle rare volte in cui qualcuno non assecondava i suoi convincimenti.
Il tono era quello di un despota che si ergeva a depositario di tutte le verità, a giudice di tutto ciò che fosse morale o immorale.
Ogni tanto si degnava di fare un sorriso che non riusciva a dissimulare tutta la sua falsità.
Accadeva quando si rendeva conto che il suo tono deciso e intransigente avrebbe potuto portare alla fine prematura della discussione.
Sperava, in tal modo, di non dimostrare il suo intento di imporre ad ogni costo il suo punto di vista ma di essere aperto ad una civile discussione.
‘Ma chi voleva prendere in giro? Non ci sarà cascato nessuno’ pensava convinto Anastasio anche se tutti i presenti avevano finto, diplomaticamente, di stare al gioco dell’altro.
“Buona sera, giudice” lo distrasse la voce di un impiegato del Tribunale che lo riconobbe mentre camminava per strada dirigendosi verso casa.
Il tono di rispetto e il sorriso sincero dell’uomo gli restituì un po’ di ottimismo.
A volte partecipare a quelle riunioni era piacevole; ne usciva arricchito e compiaciuto.
A volte si annoiava solamente e a volte ne usciva disgustato.
Come quella sera.
Doveva trattarsi di un’occasione per dibattere su argomenti che lo riguardavano direttamente in quanto giudice.
Problemi procedurali, questioni attinenti alla giurisdizione civile e penale avrebbero dovuto essere oggetto della discussione e, invece, il dibattito era scivolato su questioni di carattere teorico, astratto, che poco o nulla avevano a che fare con la pratica forense.
La presenza di diversi avvocati e di studiosi del diritto non aveva impedito che si parlasse di tutt’altro.
Affermazioni come quella secondo la quale non si può avere società senza religione lo avevano fatto rabbrividire.
Le argomentazioni sostenute a supporto di questo e di altri assunti del genere gli erano sembrate prive di fondamento, meri esercizi di retorica.
Questioni filosofiche, principi religiosi e temi letterari.
Ma come erano andati così lontano?
Già, non ci voleva molto a capirlo.
Si era soltanto voluto compiacere ‘uccello predatore’.
Ora era tutto molto chiaro.
Ma se queste erano state dall’inizio le intenzioni degli organizzatori avrebbero fatto bene a non invitarlo o, almeno, ad avvertirlo.
Non disdegnava la filosofia e la letteratura ma preferiva dedicare più attenzione ai problemi della giustizia o, meglio, della mancanza di giustizia che registrava ogni giorno come magistrato e come napoletano.
A differenza di molti suoi colleghi, ciò gli impediva di fare sonni tranquilli.
Per sua natura evitava di mettersi in evidenza ma la sua fama era quella di giudice onesto.
Stimato dai suoi sottoposti e amato da chi lo conosceva bene che riconosceva in lui un uomo giusto.
La voce si era sparsa anche tra la povera gente che confidava nella sua onestà anche quando una delle parti del processo era un nobile o una persona appartenente ad un ceto sociale superiore.
“Speriamo che a occuparsene sia De Marchi” si sentiva spesso dire nei corridoi del Tribunale.
Lui, il giudice Anastasio De Marchi, stimato anche dai colleghi ma certo non amato da tutti.
Pochi di loro gli avrebbero sorriso come l’uomo che lo aveva appena incrociato.
Ad alcuni risultava antipatico per la sua intransigenza.
Per lui si trattava semplicemente di applicare la legge sempre e per tutti allo stesso modo.
Certo, si era rifiutato a volte di fare qualche piacere ad un collega chiudendo gli occhi su qualche malefatta di un amico di questi ma, per il resto, cercava di tenere un profilo basso.
Non aveva velleità di alcun tipo né ambizioni politiche da assecondare; gli bastava fare bene il proprio lavoro.
La moglie a volte lo aveva affettuosamente rimproverato per questo.
Soprattutto agli inizi della carriera lo aveva spronato a farsi riconoscere maggiormente i suoi meriti e le sue capacità ma non era riuscita a cambiarlo più di tanto.
Le uniche concessioni che le aveva fatto erano state quelle di accettare l’invito alle feste di qualche personaggio appartenente alla nobiltà che, di questo lui era convinto, sperava in tal modo di accaparrarsi la sua benevolenza.
Per fortuna non si era mai dovuto occupare di questioni riguardanti quelle persone e, comunque, non avrebbe rinnegato i suoi principi neanche in tali circostanze.
Da circa tre anni aveva perso la moglie ma già prima che lei lo lasciasse per sempre aveva smesso di partecipare a quegli impegni mondani; accettava, invece, di partecipare alle riunioni come quella che era da poco finita e lo faceva con piacere anche quando non si parlava di questioni attinenti al diritto.
Quella sera, però, lo aveva irritato il fatto che l’argomento era stato cambiato senza avvertirlo e non era stato neanche avvisato della partecipazione di alcune persone e, in modo particolare, di ‘uccello predatore’.
I legum doctores presenti non avevano nemmeno una volta proposto argomenti di discussione relativi alla loro professione.
L’avvocato Procacci, che lo aveva formalmente invitato, gli aveva anticipato che tra i temi su cui si sarebbe discusso rientravano quelli concernenti diversi istituti giuridici e l’interpretazione di alcune leggi, temi che furono completamente disattesi in quella circostanza.
Solo in una occasione era stato affrontato un tema giuridico da uno dei presenti ma tutti gli altri avevano ignorato il tentativo di portare la discussione su quel terreno preferendo continuare ad annuire compiaciuti alle dissertazioni etico-religiose di ‘uccello predatore’.
Il coraggioso giurista aveva notato l’interesse del giudice alla sua osservazione e quando si era accorto che il suo intervento era caduto nel nulla aveva diretto verso di lui lo sguardo alzando le sopracciglia e facendo spallucce come a dire: ‘Io ci ho provato’.
L’altro gli aveva sorriso dimostrando di aver compreso la situazione e di aver apprezzato il suo tentativo.
In cuor suo Anastasio si ripropose di non partecipare più agli incontri organizzati dall’avvocato Procacci.
Costui credeva davvero che fosse così tonto da non capire che era stato organizzato tutto precedentemente?
Come poteva credere che non gli fosse stato subito molto chiaro?
Dei presenti conosceva quasi tutti.
Avvocati, burocrati, un banchiere e uno scrittore.
Di quest’ultimo tempo addietro aveva ricevuto in dono un libro.
Aveva persino provato a leggerlo ma dopo un paio di capitoli aveva deciso di riporlo nel posto più nascosto della sua libreria.
Si sarebbe vergognato se qualcuno che lui stimava avesse saputo che leggeva cose di quel tipo.
Si trattava, come riportava la prefazione, di una ‘opera poetica’ ma in realtà era una vergognosa celebrazione di un nobile spagnolo e della sua casata scritto in occasione delle nozze della di lui figlia.
Non l’aveva bruciato perché aveva troppo rispetto per i libri, ma la tentazione era stata grande.
Perché quella sera avessero invitato anche lui era chiaro.
Le sue idee, il suo modo di operare, la fama di persona indipendente.
Indipendente anche nei confronti di personaggi potenti in campo ecclesiastico come ‘uccello predatore’.
Farlo intervenire, seppur con una sorta di raggiro, in una riunione in cui tutta la partita veniva giocata dall’altro era un punto a favore dell’organizzatore dell’evento.
Costui, però ignorava che il giudice De Marchi non era tipo da farsi intimidire da situazioni di quel genere.
Anche ‘uccello predatore’ se ne era accorto subito.
Più volte, mentre disquisiva, si era voltato senza che gli altri se ne accorgessero, cercando di carpire un cenno di assenso da parte sua.
I suoi occhi furbi e veloci lo avevano esaminato, scrutato.
Anastasio con studiato e misurato garbo gli aveva tenuto testa.
Cenni di assenso da parte sua non ce ne erano stati ma neanche aveva assunto un atteggiamento ostile.
Lo aveva ascoltato con formale interesse ma i suoi occhi avevano palesato il suo disaccordo rispetto a certe affermazioni.
Lo sguardo annoiato che non aveva fatto nulla per nascondere, verso la fine dell’incontro aveva irritato il principe della serata che, però, non aveva mancato, nel momento del commiato, di andargli incontro salutandolo con un sorriso falso stampato sul volto teso e con gli occhi socchiusi nel tentativo di nascondere lo sguardo feroce.
Anastasio aveva ricambiato con gentilezza il saluto ma il contatto con quella mano lunga, sottile e fredda gli aveva procurato una sgradevole sensazione.
Appena fu in strada respirò, pertanto, con piacere l’aria frizzantina di quella sera e pensò che avevano perso tutti una buona occasione.
Quella di discutere, ad esempio, della successione delle leggi nel tempo; questione molto importante vista la mole di leggi esistenti e per le quali non esisteva un principio unico circa la loro applicazione.
Per non parlare della necessità di togliere ogni discrezionalità ai giudici di motivare o meno le sentenze stabilendo, invece, l’obbligo per tutti loro di esprimere i motivi di fatto e di diritto che li avevano portati ad emanare i loro giudizi.
Di questo avrebbero fatto bene a dibattere in quell’incontro appena terminato e di questo avrebbe dovuto e voluto parlare ogni giurista degno di quel titolo.
CAPITOLO II
Il giorno dopo, in ufficio, fu felice di trascorrere un po’ di tempo col suo collega Domenico Scoppa.
Spesso si confrontava con lui su temi giuridici particolarmente rilevanti e sui quali non c’era unicità di veduta da parte di coloro che erano chiamati ad applicare le leggi.
Loro due la pensavano allo stesso modo quasi su tutto.
Entrambi avvertivano l’esigenza di opinioni condivise e punti fermi che valessero per tutti gli operatori della giustizia e che non dessero luogo a decisioni differenti per fattispecie analoghe.
Osservando l’aspetto bonario del giovane collega, Anastasio pensò tra sé che l’altro, per sua fortuna, non aveva avuto bisogno di incattivirsi.
Proveniva da una famiglia agiata e sembrava uno di quelli a cui il destino ha riservato solo cose positive.
Il tono di voce garbato e allegro in ogni circostanza era corollario di un carattere aperto ed estroverso.
Si trattava, nondimeno, di un serio professionista che amava il suo lavoro ma che sapeva rimanere sereno anche di fronte ai problemi e mantenere un atteggiamento garbato con tutti.
Lo faceva, almeno così sembrava ad Anastasio, senza alcuno sforzo a differenza sua che spesso doveva fare una grande fatica per non inveire contro certe persone.
‘Certe persone’ erano quasi sempre avvocati.
Titolo abusato, secondo lui, se riferito a certi personaggi.
Per fortuna, però, ce n’erano anche di validi e onesti.
Con uno di questi, l’avvocato Andretti, scese le scale del Tribunale quel giorno quando finì di lavorare diretto verso una taverna dove, spesso, da quando era morta la moglie, si fermava a mangiare.
La figlia, sposata e con due bambini, lo invitava di continuo a casa sua ma lui, che non voleva esserle di peso, solo raramente accettava l’invito.
Preferiva stare da solo e in quel locale dignitoso e ordinato, nei pressi di Porta Nolana, il proprietario gli riservava sempre, per compiacerlo, un tavolo al riparo da sguardi indiscreti.
Avevano percorso insieme un tratto di strada e si stavano salutando quando sopraggiunse un corteo che seguiva un feretro.
Entrambi, per rispetto e per non trovarsi nel corteo, si fermarono al lato della strada e assistettero al triste passaggio.
Triste come tutti i cortei funebri ma ancor più triste perché si trattava del funerale di una bambina.
Si tolsero il cappello e Anastasio si accorse che l’avvocato Andretti aveva gli occhi lucidi.
La scena era commovente di per sé ma l’altro ne rimase particolarmente colpito perché, come il giudice sapeva, alcuni anni prima aveva perso un figlio di soli otto anni a causa della tisi.
La tragicità dell’evento si accompagnava alla desolazione di quella cerimonia.
Il corteo era composto da pochissime persone che seguivano quella misera bara bianca.
Bianca come il volto di quella giovane donna che, vestita di nero, camminava toccandola di tanto in tanto, accarezzandola con dolcezza.
Aveva lo sguardo fisso su di essa e, come in un dialogo silenzioso con chi non c’era più, continuava il percorso.
Dietro di lei un’altra donna più minuta, più anziana e ugualmente vestita di nero la seguiva insieme ad una decina di persone.
Era chiaro che la prima era la madre della bambina.
Muoveva le labbra senza emettere suoni; voleva essere ascoltata solo da quella piccola senza vita.
Convinta che questa la sentisse, muoveva dolcemente il capo in direzione della bara quasi a volerla rassicurare, confortare.
Era una scena straziante.
Anche Anastasio, a quel punto, sentì di avere le lacrime agli occhi.
Il corteo ad un certo punto si fermò per dare la precedenza ad una carrozza e allora la giovane donna si voltò e incrociò il suo sguardo.
Lui rimase sgomento di fronte all’espressione degli occhi di lei.
Erano lo specchio del dolore, della disperazione più assoluta, più totale.
Erano occhi spenti, vivi solo per accompagnare e confortare quella creaturina inerme.
Si accorse che stava guardando una donna che era morta insieme a sua figlia.
Il corteo, dopo qualche secondo, riprese il cammino e scomparve dalla loro vista.
I due uomini, addolorati e commossi, si salutarono nuovamente e ciascuno prese la sua strada.
Anastasio si accorse che l’appetito gli era passato e che non aveva più voglia di recarsi alla taverna.
Tornò a casa, dove per sua fortuna non trovò la serva, e mangiò solo un po’ di pane con del formaggio.
Non riusciva a togliersi dalla mente l’immagine di quella esile donna accanto a quella piccola bara bianca.
Cosa ne sarebbe stato di lei?
Era chiaro che era distrutta e che avrebbe avuto bisogno di aiuto, di qualcuno che la sorreggesse in quel tragico frangente.
Il peso di quel dolore era troppo grande per lei.
Il suo sguardo straziato lo accompagnò per tutto il pomeriggio.
Per distrarsi decise di leggere qualcosa.
Il primo libro che gli capitò tra le mani consisteva in una raccolta di opere filosofiche.
Sorrise tra sé considerando la strana coincidenza; solo la sera precedente, suo malgrado, aveva ascoltato dissertazioni di tipo filosofico.
Cominciò svogliatamente a sfogliarlo fino a quando qualcosa carpì il suo interesse.
Si trattava della teoria, sostenuta da uno degli autori, secondo la quale tutte le conoscenze conducono ad una sola verità.
La filosofia come la religione e persino la poesia, pur diverse tra loro, finiscono col coincidere.
I pensatori, quindi, secondo il filosofo, esprimono un aspetto della verità che è sostanzialmente univoco.
Anastasio pensò che il merito di alcune persone sta nel trasmettere con lucidità ciò che spesso anche altri individui pensano ma che non si soffermano a puntualizzare.
Anche lui, infatti, da sempre era convinto di ciò o di qualcosa di simile eppure non si era mai soffermato ad analizzare quel concetto.
Lo aveva fatto in sua vece quel filosofo del XV secolo e lui ora gli era grato per aver tradotto in chiaro un suo pensiero inespresso.
Dunque non era il solo a pensare certe cose.
Anche il corollario di quel principio era affascinante: la concordia di quelle conoscenze dovrebbe portare all’unità della società umana identificata con la pace universale.
L’autore era stato semplice e audace allo stesso tempo.
Il concetto era lineare ma non certo semplicistico.
Anastasio fu confortato all’idea che quella sua intima convinzione fosse stata avallata da un eminente filosofo.
Dunque non era lui un tipo stravagante che pensava cose stravaganti.
Era anche un po’ deluso, però.
Già centinaia di anni prima di lui qualcuno aveva affermato quei concetti e, pertanto, non era lui l’unico o il primo a fare tali sagge considerazioni.
Rise di sé e continuò a leggere.
Si ritrovò a condividere anche l’affermazione secondo la quale Dio ha plasmato l’uomo in modo che questi possa assumere diverse forme.
Egli può innalzarsi ad angelo o degenerare a bruto.
Già… anche di questo era convinto con la differenza, però, che lui non riteneva che all’origine di tutto ci fosse un Dio.
Per sua natura, pensava, l’uomo è fatto in questo modo.
Sta a lui decidere da che parte stare.
Le azioni umane non dipendono da entità divine ma solo dalla volontà dell’uomo stesso; per questo egli è responsabile delle proprie azioni.
Queste considerazioni gli riportarono alla mente gli argomenti trattati durante la riunione cui aveva partecipato la sera prima.
Voler far dipendere tutto da qualcosa di soprannaturale, di ‘divino’; questa era stata la finalità di quasi tutti gli interventi dei presenti.
Ricordò che quando qualcuno aveva affermato l’identificazione dell’intelletto con l’anima era stato tentato di intervenire.
Avrebbe voluto ribattere che la capacità di riflettere, di conoscere è capacità umana, cosa c’entra l’anima?
Si era trattenuto, però.
Sarebbe stata una battaglia persa.
Nessuno dei presenti avrebbe accettato un contraddittorio al riguardo, chiusi com’erano nelle loro convinzioni.
Convinzioni strumentali e necessarie all’affermazione secondo la quale uno Stato non può reggersi e nemmeno esistere senza la religione.
Con un certo sforzo ricordò in che modo fossero riusciti ad andare così lontano.
Si era partiti dalla considerazione secondo la quale le idee sono il frutto di una illuminazione che Dio ha donato all’uomo costituendo una struttura logica nella mente delle sue creature, un archetipo eterno, per arrivare ad una visione della politica di tipo marcatamente religioso.
Era rabbrividito, a volte, ascoltando le dissertazioni di alcuni dei presenti; esempi degradanti di piaggeria.
Ovviamente ‘uccello predatore’ si era trovato completamente a suo agio tra quelle persone.
Più gli interventi dei presenti avevano avallato le sue idee più aveva sorriso soddisfatto e compiaciuto.
Ad Anastasio era sembrato persino che più aumentava il suo disagio tanto più aumentava il godimento dell’altro.
Decise di non pensare più a lui.
Era sgradevole anche il suo ricordo.
Continuò a leggere ma tutto gli riportava alla mente la noiosa e irritante serata.
Chiuse gli occhi e si appisolò sulla poltrona del suo studio lasciando cadere il libro sul pavimento.
[continua]