Da Fiume a Pavia passando per un lager

di

Lilia Derenzini


Lilia Derenzini - Da Fiume a Pavia passando per un lager
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Poesia
15,5x21 - pp. 100 - Euro 11,00
ISBN 978-88-6587-3083

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In copertina e all’interno fotografie dell’autrice


Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto la silloge è finalista nel concorso letterario Jacques Prévert 2012


Con questo libro l’autrice vuole testimoniare le sue origini e ricostruire la storia dei suoi parenti e di un mondo mitteleuropeo per i suoi cugini e le sue nipoti.
Il percorso del padre verso la libertà, il momento resistenziale e l’esodo si intrecciano con l’Italia del dopoguerra che vuole riscattarsi: un dramma che ha segnato la storia d’Italia.


Da Fiume a Pavia passando per un lager


Prologo

Questo libro nasce dall’esigenza di ricordare agli italiani la storia della mia città natale, calpestata da molti dominatori, ma sempre culturalmente italiana nei secoli. Voglio anche ricordare la Pavia eroica degli anni ’40 che si oppose al fascismo e che combatté per le strade con l’aiuto dei partigiani dell’Oltrepo, prima ancora che arrivassero gli angloamericani. Il mio compagno voleva che andassi avanti con questo scritto ed era orgoglioso della mia prova biografica e storica che mi è costata tante emozioni e ricordi remoti.

La sindrome dell’esilio non è un argomento letterario inedito. Come afferma Enzo Bettizza, scrittore e giornalista dalmata di Spalato, fino alla stesura del suo libro “Esilio” aveva finto con gli altri, e più ancora con se stesso, che la cosa potesse non toccargli personalmente. Si illudeva di non portare quel fardello sulle spalle. In sostanza rimaneva un disagio: l’esilio come un logorio diluito nel tempo; una strana malattia dello spirito.

Ecco perché ritrovare il filo della memoria è per un esule un’operazione molto più importante che per chi è nato e cresciuto nel suo ambiente naturale. Per l’esule ricordare è guarire. È come ritrovare una prima vita perduta1.

Mi accingo a raccontare della mia famiglia e dei nonni e bisnonni, zii e cugini, sullo sfondo degli eventi che hanno coinvolto e ricomposto più volte questo parentado di confine, che ha resistito a tutto.

Lo stesso succedeva alla nostra terra, ex Venezia Giulia, al confine nord-orientale di un’Italia idealizzata dalla mia gente.
Linguisticamente la popolazione fiumana si sentiva italiana da lungo tempo, non solo, la nostra gente aveva rispettato e protetto per secoli dalle molte invasioni la sua identità, prima veneziana e poi italiana. La Tarsatica romana addirittura si era arroccata su di un colle per difendersi dalle invasioni barbariche. Come scrisse Leo Valiani, illustre concittadino, “a Fiume la popolazione era italiana da molti secoli. Prima del 1918 Fiume non era mai stata politicamente italiana. È sempre stata etnicamente e culturalmente italiana2”.

A sessant’anni dall’esodo degli istriani e giuliano-dalmati lo Stato italiano si è ricordato di una immane tragedia consumatasi nel silenzio delle istituzioni, regalandoci la giornata del ricordo il 10 febbraio. Il mio pensiero va a quei morti nell’indifferenza generale dell’Italia, che avevano amato a tal punto da pagare con la vita, l’esilio, l’abbandono delle radici, dei parenti, delle tombe. Il loro attaccamento all’Italia di genti di confine era di tipo risorgimentale, ma non fu compreso. Tito se ne servì per comporre l’equazione “italiano = fascista” molto comoda per la sua propaganda e conseguente pulizia etnica.

Come si possono dimenticare i tanti innocenti, che hanno pagato per i colpevoli fuggiti per tempo, alla mercé degli eccessi del Comitato Popolare di Liberazione?

“Tito, Tito ti ne ga fregà pulito” era un ritornello che andava allora per la maggiore tra gli istriani di Fiume. Dopo qualche levata di scudi e proteste dall’Italia, il governo democristiano cessava di contrastare Tito. Il P.C.I. invece aizzava la popolazione di quella terra a rimanere nel “paradiso del comunismo”. Non tutti sanno che nel 1945 l’esercito di liberazione, costituito da partigiani croati sloveni, aveva battuto in velocità quello angloamericano con l’aiuto di Stalin e aveva occupato l’Istria, Fiume e Trieste. Il P.C.I. amico di Tito si macchiò di gravi discriminazioni nei confronti dei profughi di quelle terre, che rifiutavano il “paradiso jugoslavo” additandoli agli italiani come fascisti. Nottetempo nelle strade di Capodistria, Pola, Fiume e dintorni comparivano scritte in serbo croato inneggianti al loro eroe Tito, che li aveva liberati dall’occupazione nazista.

Bastava una semplice delazione per far sparire uno sventurato, magari innocente. Quando la commissione interalleata fu mandata a verificare la situazione dei residenti in quelle terre, i suoi componenti finsero di non vedere le mani alzate delle donne coraggiose coi palmi dipinti nei colori della bandiera italiana.
Mi sembra opportuno, a questo punto, riportare le parole di Paolo Santarcangeli, fiumano e autore di libri che mi hanno fatto riflettere sulla storia della mia gente e di quella terra.

“Noi fiumani, lontani e anche quelli rimasti, non siamo dei nuovi venuti, siamo cittadini di una città inesistente. Siamo dominati da un permanente senso di inappartenenza: non apparteniamo al luogo che ci ospita e non apparteniamo più alla nostra città natale, perché nella configurazione che era a noi nota, non c’è più. Ci portiamo dietro il segno della precarietà, dello sfasciamento. Siamo come foglie strappate ai rami dal grande vento della storia, che non distingue tra foglie colpevoli e incolpevoli.

Ai nostri figli e ai figli dei figli che cosa resterà di Fiume, quale noi la conoscemmo3? Al di là delle riflessioni letterarie con noi finisce la realtà fisica della città.”

Pavia è la città che mi ha accolto nell’agosto 1948, dove sono rinata alla democrazia, non avevo ancora quattro anni e non mi rendevo conto che mi aveva dato la libertà, senza chiedermi niente. A Pavia sono racchiusi i ricordi di una gioventù spensierata, in una famiglia che mi ha trasmesso forza di volontà, dignità e amore per la cultura. All’età di 35 anni ebbi il dolore di lasciare Pavia, la mia Pavia, per Travacò a causa della salute di nostra madre, che si trasferiva al mare con mio padre per i suoi gravi problemi. Fu doloroso lasciare la nostra bella villa sul Ticino a San Lanfranco con un gran giardino e adattarmi a vivere in un piccolo appartamento, tutto per me, anche se finalmente ero indipendente.

Era un altro difficile distacco dai ricordi, dalle abitudini, dagli amici: l’ennesimo sradicamento, anche se a 4 km da Pavia. Tutto ciò mi metteva a disagio, non mi sono mai piaciuti i traslochi, mi allontanavano da qualcosa. Ma quando vidi le cascine sparse di Travacò, le risaie, il Parco del Ticino, che iniziano vicino a casa, ero in un giro di ricognizione con i miei fratelli e le mie cognate. Cantavamo a squarciagola “l’ültim di d’fera” in pavese, e rimasi colpita da quei panorami tra il verde dei campi. Nel Siccomario ho insegnato inglese per 22 anni, dopo 10 di pendolarismo per tutta la provincia di Pavia. Raggiungevo la mia cara scuola in bicicletta e il contatto con un centinaio di allievi all’anno, sbarazzini ma simpatici, mi ha legata a questo mondo a parte tra Po e Ticino, un tempo terra di confine. Travacò, 4000 abitanti circa, è un paese dove tutti, più o meno, si conoscono. Un ponticello sulla Rotta, ramo del Gravellone, lo unisce a San Martino, paese più grande.

Infatti la scuola media si trova qui, piccola, ma molto efficiente ai miei tempi, ed eravamo una squadra di colleghi: lavoravamo insieme da vent’anni con le nostre diversità, ma solidali nel valorizzare il nostro compito educativo. Non sempre la gente del posto ci aveva sostenuti, ma i nostri allievi ci hanno sempre dato soddisfazioni, anche passando alle scuole superiori. Certamente qualcuno si è perso per strada, ma noi siamo sempre andati avanti con la consapevolezza di aver svolto il nostro ruolo educativo e didattico. Di ritorno a Pavia, nei tramonti estivi sul Ticino, durante una gita a Boschi, vedevo il profilo delle torri medievali, del Duomo e mi prendeva un senso di nostalgia e di ammirazione per tanta bellezza.

Le giornate solitarie a Travacò mi portavano a ripensare alle mie origini, alla prima infanzia rubata, allo sradicamento forzato da Fiume. Allora Pavia e Travacò non mi bastavano più: dovevo partire per l’Europa per placare la mia inquietudine. Al ritorno mi ritrovavo alla stazione di Pavia, prima di tornare a Travacò: era sempre una gioia, un approdo sicuro e accogliente.

Quando mi capitava di andare a Lavagna e a Chiavari a trovare i miei parenti fiumani era un rinverdire la memoria del nostro passato. Ascoltare i loro racconti nel nostro dolce dialetto, ma non troppo nostalgici, voleva dire per me ricevere messaggi positivi che mi ricaricavano e trasmettevano la loro forza di volontà. Non fu facile per Carmen di 32 anni e per Ferruccio di 38 ricominciare la loro vita a Pavia con tre bambini, in una città sconosciuta e ancora ferita dalla guerra. Ma la loro tenacia e l’amore per noi ebbero la meglio sulle ansie e sulle solitudini di esuli. Erano genitori moderni. A Natale Ferruccio estraeva dalla custodia il violoncello, che aveva portato con sé da Fiume; Franco, che andava a scuola di musica, si metteva al piano e suonavano “Stille Nacht” che Carmen cantava con la sua bella voce. Io e mia sorella, il naso schiacciato contro il vetro della porta della sala da pranzo, appannato dalla nebbia, sognavamo i regali di Gesù Bambino. Ci sembrava di sentire i campanellini della slitta di Babbo Natale nella nostra ingenuità.

In precedenza, il 6 dicembre, avevamo messo alla finestra una scarpa di papà, dove la mattina dopo trovavamo i regali di San Nicolò.

Quando arrivavano gli amici fiumani dei nostri genitori: Tullio, Stelia, Zita e Gustavo era il momento di sentire storie popolate di gabbiani, sassi bianchi delle spiagge di Medea, Costabella, che noi ricordavamo molto vagamente, nostro fratello aveva ricordi più nitidi. Sentivamo parlare dei vaporetti pieni di gente, inseguiti dai delfini, o magari dai pescecani. La guerra aveva sottratto questo mondo di marca mitteleuropea alla nostra infanzia.

I festeggiamenti accompagnati dal suono del violoncello terminarono bruscamente con il 12 dicembre 1953, quando la piccola Nadia morì di difterite, dopo una drammatica tracheotomia al San Matteo. Ferruccio appese al chiodo il suo caro strumento che gli aveva tenuto compagnia nel 1947, quando viveva già in Italia senza di noi. In quegli anni scambiava gli spartiti musicali con il suo dentista, il dottor Livio Cerri, che era un valido critico di musica jazz. Il sacrificio di Ferruccio fu ancora più grande.

Alla fine degli anni 40 era facile nell’Italia, messa in ginocchio dalla guerra e dalla povertà, scoprire atti di intolleranza nei confronti dei bambini arrivati dall’Istria e da Fiume nella scuola. Non eravamo in tanti a Pavia: questo non capitò mai a me e a mia sorella perché la maestra, la signora Rosa Betroni Perversi, spiegò alle compagne la nostra storia. Nessuna di loro si permise mai una presa in giro: anzi ci consideravano speciali, così bionde e con gli occhi azzurri, per di più gemelle. La nostra era una classe femminile. Ricordo che c’erano due orfane del “Nido”, con il grembiule nero, ma per la foto le loro suore le mandavano con il grembiule bianco. C’era poi la Scarpolini, sempre sorridente, che non portava il grembiule, aveva tanti fratellini da accudire e viveva alla Caserma Menabrea. La maestra capiva e non la mortificava pretendendo da lei il grembiule. Riceveva i quaderni e i libri dal patronato scolastico e la merenda dalla refezione, come altre bambine bisognose.

Noi volevamo bene alla nostra maestra e le mamme la rispettavano. Alla fine della quinta ci regalò una lettera di commiato, che conservo ancora, in cui ci raccomandava la lealtà, l’operosità e il rispetto degli altri. Il primo giorno di prima elementare ricordo Ferruccio Belli con un grembiule nero svolazzante alla guida di un tram, che transitava per via Scopoli, mentre andavamo a scuola. Egli ci salutò con il caratteristico scampanio del veicolo. Nel frattempo il trolley era uscito dai fili e dovette trafficare molto per rimettere in sesto il suo tram. Un altro ricordo è della mia compagna di classe Rita, che sarebbe diventata una cara amica, a cavalcioni sulle spalle del dottor Giovanni Grilli, chimico alla SNIA Viscosa. Questi due flash risalgono al lontano ottobre 1950.

Quante volte mi sarei trovata in seguito con Rita, Gabriella, Olivetta e Angela a giocare in via Carlo Dossi! Là imparai ad andare in bicicletta, penso che mia madre non ne fosse al corrente. Ora è triste passare da quelle parti ed assistere al degrado pluridecennale di tutto il complesso della ex SNIA Viscosa.

In una di quelle case le nostre madri prendevano il tè accolte dall’ospitale Teresa Grilli madre di Rita e Gabriella. Dimenticavo la mia amica Olivetta, che avevo conosciuto il primo giorno di scuola. Avevamo passato la mattinata nella stessa classe e ritornando a casa per viale Gorizia le nostre madri si erano messe a parlare. Così Nadia, Olivetta ed io ci tenevamo per mano: e iniziò un’amicizia che rimane ancora ben salda, anche se lei ora vive a Chiavari, ci siamo sempre ritrovate nei momenti lieti e in quelli tristi. Adesso ci vediamo poco, ma non è cambiato niente. Noi bambine quel giorno calpestavamo le foglie secche di viale Gorizia e sorridevamo alla vita, con i nostri grembiuli bianchi un po’ lunghi, perché dovevano durare tanto tempo. Dietro a noi Carmen e Teresa familiarizzarono: una fiumana, da poco trapiantata a Pavia aveva tante cose da chiedere alla madre di Olivetta, che apparteneva ad una famiglia benestante e all’antica. Carmen era più moderna, ma voleva inserirsi in questa città provinciale.

Ferruccio era impegnatissimo con il lavoro e non gli interessava la vita di società. In quel periodo andava anche a Roma per svolgere attività sindacale in difesa dei dipendenti delle aziende municipalizzate. Tornando al percorso delle scolarette, la strada era lunga, ma si camminava senza fare storie. Da piazza Emanuele Filiberto, Olivetta proseguiva con sua madre per via Gilardelli. Noi avevamo ancora tanta strada. Passato il ponte sul Naviglio c’era da percorrere via Campari in tutta la sua lunghezza. Nonna Caterina, di nascosto da nostro padre, ci portava verso Natale alla festa dei giuliano-dalmati che si teneva alla Casa dello Studente di viale della Resistenza, con lei c’era anche lo zio Mario. In quell’edificio per anni furono ospitate famiglie che avevano perso la casa durante la guerra e qualche profugo giuliano.

Ricordo che mi regalarono la statuetta di un calzolaio per il presepe, che Franco allestiva nel corridoio, costruendo da solo casette e arredi vari con materiali di recupero. Il resto delle statuine, la carta per fare le montagne e la grotta di Betlemme, venivano dalla cartoleria Fastelli di corso Cairoli, il mio negozio preferito, ancor oggi, forse per deformazione professionale, adoro le cartolerie, anche se sono diventate dei bazar. Ricordo ancora con quanta tenerezza prendevo in mano Gesù Bambino, ma non capivo come, appena nato, avesse già i capelli lunghi. I miei fratelli ed io avremmo potuto avere l’esenzione dalle tasse scolastiche come “profughi”, ma nostro padre ci dava ogni anno una lezione di dignità mostrandoci che non elemosinava sconti dallo Stato italiano. Ferruccio ammirava la figura di Tito come oppositore del nazismo e guida per il suo popolo verso la libertà nel nome del comunismo. Non gli perdonava il tradimento ai danni dei partigiani della Venezia Giulia e dell’Istria.

Ferruccio, vedovo a 72 anni, tornò distrutto a Travacò, senza la sua Carmen. Vivevamo in appartamenti contigui. Per 13 anni ancora ebbi il conforto di avere accanto mio padre e di conversare con lui: era bello farlo perché aveva una signorilità innata, ereditata da suo padre ed insieme un grande affetto per me. Parlavamo della Fiume dei suoi tempi, della tragica esperienza della deportazione in Germania, del suo impiego per l’A. S. M. di Fiume e di Pavia in qualità di direttore amministrativo, per questi meriti gli fu data la medaglia di San Siro in comune dal sindaco Elio Veltri; ci fu qualche polemica perché dopo tanti anni a Pavia c’era chi non lo considerava ancora pavese… (1974)

Dalla voce di mio padre ho sentito più volte la delusione per i cambiamenti dell’Azienda Municipalizzata di corso Carlo Alberto, che neutralizzavano il lavoro suo e dei colleghi di tanti anni. Il crollo delle certezze di quell’Italia della rinascita in cui si era prodigato con impegno per i suoi ideali, gli faceva male in vecchiaia. C’era molta serenità quando arrivavano a pranzo i fratelli, le cognate e le nipotine nei giorni di festa. Ma Franco, Flavio, Laura, Mirella, Giulia e Micol sentivano con noi la mancanza di Carmen, che aveva sempre saputo tenere unita la famiglia con la sua cordialità. Aleggiava nell’aria il ricordo di lei non detto: ci aveva lasciato troppo presto, il 10 maggio 1984. E pensare che era arrivata a Trieste il 10 maggio 1948. Queste date mi hanno sempre fatto pensare che niente accade per caso. Alle mie nipotine ho sempre cercato di fare da nonna e da zia, dato che quando è nata Giulia avevo già quarant’anni. Essere zia per me, che avevo tanto amato i miei, è stata una bella esperienza. Pur abitando a Travacò, per me Pavia è sempre rimasta un punto di riferimento sia affettivo che culturale. Qua ho frequentato il liceo classico, ho praticato vari sport, sono nati i primi amori, si sono consolidate amicizie che durano ancora.

Nel Siccomario della maturità ho finalmente trovato quella serenità che cercavo da anni. È ricomparso l’amore con Alberto, ritrovato dopo tanti anni di lontananza. L’incanto è durato solo dodici anni, vissuti intensamente, ci ha divisi la morte improvvisa di lui. Ma la sua bella persona, semplice e buona mi terrà compagnia per sempre: è stata la più bella storia d’amore. Come potrei dimenticare i nostri momenti che nessun altro conosce, i nostri bisbigli innamorarti? Il nostro legame va al di là della morte. Anche mio padre, a 88 anni di età, raggiunse mia madre. Ora sono tutti le mie stelle che vedo a Travacò nelle sere d’estate e che mi parlano di infinito.

In questo prologo ho voluto spiegare, prima a me stessa e poi a chi leggerà, perché ho unito delle biografie ai fatti storici, desunti da testimonianze orali, documenti e libri.

Parlerò di me in terza persona per confondermi con la mia gente d’origine e con i pavesi della mia infanzia. Ci sono un prologo e cinque atti; si tratta di un dramma che ha coinvolto i miei parenti e molta altra gente. È un dramma che ho faticato a scrivere, perché scava nella vita delle persone più amate e nella storia recente.


NOTE

1 c.f.r. Enzo Bettizza, Esilio, VI edizione, pp. 442-443, Mondadori, 1996.

2 Prefazione al libro di Paolo Santarcangeli In cattività babilonese, collana civiltà del risorgimento, Del Bianco Editore, 1987.

3 c.f.r. Paolo Santarcangeli, Opera citata, collana civiltà del risorgimento, pp. 232-233, Del Bianco Editore, 1987.


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