Capitolo I
Faceva sul serio questa volta. Non v’erano più dubbi. Un vero talento il suo, ancorché fortuito; puntuale nel cogliere alla sprovvista e disorientare. Ecco dunque spiegata la fatica a credergli, a compiere quell’immane sforzo d’immaginazione. Del resto non te lo aspetti, che una persona dall’indole schiva e il fare taciturno prenda tutto a un tratto a borbottare nel disperato tentativo di farti indovinare le proprie intenzioni. E comunque sia ogni pericolo di fraintendimento era ormai superato, visto che, valige alla mano, lo stavamo osservando varcare l’uscio. Poco importava. Noi ci eravamo riuniti solamente per convenzione, perché così si usa fare, eppur con l’intima certezza di poter credere soltanto agli occhi.
Aveva cominciato circa tre settimane prima a ipotizzare una sua possibile partenza, richiamando esplicitamente la nostra attenzione e ostinandosi a fondo per divenire il contrario di se stesso; ma questo era forse l’ultimo giochetto per farci tremare un po’. Una specie di regalo d’addio, tutto ingarbugliato e incomprensibile, alla maniera sua.
“Sapete com’è…” era stato il primo accenno. “Lo stimolo a cambiare c’è sempre. È tenace. Giusto per cercare qualcosa di nuovo. Niente di particolare. Solo uno svago.”
Proprio così aveva cantato. Frasi a metà, una in fila all’altra, a darti da intendere che la cosa si doveva sapere fino a un certo punto. Quale fosse poi questo limite era tutto da decifrare fra le pieghe dei suoi pensieri; cosa che io non tenevo a fare. Un piatto insapore che mai mi sarei sognato d’ordinare: questo pensavo di lui. E certo lo pensava anche chi, al mio fianco, continuava a fingere d’avere a cuore la sua sorte.
Gira e rigira, ci si riduce sempre a mentire sui buoni sentimenti che non si hanno.
Ad ogni modo c’aveva sorpreso, perché col passare dei giorni s’era fatto più insistente, aggiungendo parole alle parole, e adesso lo osservavamo scendere le scale con fare compiaciuto, come se il solo calpestare quella moquette polverosa per l’ultima volta gli procurasse un piacere indicibile. Passo dopo passo, avanzava tenendosi ben saldo al corrimano, prestando attenzione a non inciampare, perché anche lui come me aveva piedi troppo lunghi per quei gradini, e di finire a gambe all’aria era già successo. Ostentava decisione, d’altro canto. Quella sì. E persino una maldestra spavalderia. Aveva un disperato bisogno di fingere senza motivo, ma noi che ce l’eravamo trovato fra i piedi a sufficienza non faticammo a comprendere il teatrino che s’era inventato per rendere severa la sua uscita.
Mentre con aria saccente scrutavo le sue evoluzioni, senza motivo mi venne anche da pensare che tutto quel mutamento non fosse da addebitarsi ad un estremo tentativo di nascondere le proprie insicurezze, quanto piuttosto a una sorta di consapevolezza. Ciò che infatti più mi aveva colpito del suo repentino cambio di pose era stata la scomparsa dell’espressione svagata, che da sempre gli aveva segnato il volto, in favore di una più circospetta, come in attesa di conferme, di un qualcosa che ancora non era stato rivelato a noi altri. Purtroppo queste congetture trovarono la loro giusta collocazione solo quando tutto era ormai finito al diavolo; quando ero già bello che fregato. Non me ne faccio una colpa, però. I giorni passano scanditi dall’incedere dei particolari che ignoriamo. È una questione di conservazione. Ci si arrangia come si può.
Detto questo, non è tanto ciò che mi è accaduto in seguito a guastarmi tutt’oggi il sonno, bensì il pensiero che qualcuno o qualcosa, nascosto fra le ombre, gli abbia sussurrato all’orecchio di andarsene, di levare le tende, di raccogliere i suoi stracci e fuggire da lì. Ma perché proprio a lui? Lui, che altro non era che un’ennesima, inutile comparsa. Giusto appena un manichino: due braccia, due gambe e un tronco.
Certo, nel giro di pochi mesi fui costretto a riconoscergli il merito dell’intuito; ma nulla di più. Abbiamo poi vissuto per quasi un anno sotto lo stesso tetto, sospirai quel pomeriggio. Vi fosse stato in lui qualcosa di accorto l’avrei sicuramente inteso da un pezzo.
Così, mentre quel ragazzo inglese trascorreva i suoi ultimi istanti in casa, io non potei fare a meno di constatare una volta ancora la siderale distanza che ci separava, nonché un’innegabile irraggiungibilità. Mi venne da chiedermi chi fosse e chi era stato per tutto quel tempo, ma soprattutto come potesse quella somma di giorni trascorsi assieme essere soltanto un freddo numero buono nemmeno a misurare il nostro grado di reciproca estraneità. Istante dopo istante era passato un anno senza che me ne accorgessi, e adesso lui mi veniva incontro con il suo dannato sorriso. Perché sapeva, quel diavolo! Altroché se sapeva! Eppure nemmeno quando fummo uno in fronte all’altro riuscii a scuotermi a sufficienza per sputargli tutto in faccia e dire a chiare lettere che le sue recenti stranezze non erano passate inosservate. Avrei certo potuto sferzarlo col sarcasmo, chiedergli da chi o cosa stesse fuggendo. Mi venne in mente, per dio! Ma il timore di passar per squilibrato non mi permise di liberare quel che il mio stomaco avvertiva.
Rimasi così muto; lui salutò tutti alla stessa maniera e a seguito di ciò rincasammo.
Passarono forse cinque minuti: il tempo che serve di solito a scordarsi del superfluo. Poi, questa volta sul serio, tutto riprese normalmente. Allora risalii le scale. Verso la cima. Fino al mio alloggio. Prima di arrivarvi, esitai davanti alla camera di Neil. Quello era l’unico locale con una finestra che s’affacciava sulla strada, e la porta era socchiusa. Alla più pigra delle curiosità non sarebbero serviti stimoli maggiori.
Simon era ancora lì, dove l’avevamo lasciato. Sedeva su di un cassettone, circondato dai suoi averi, in attesa del taxi che aveva chiamato e che non si decideva ad arrivare. Fu una scena mesta vedere quel ragazzo ai margini della strada, tutto solo, tanto che d’istinto fui quasi sul punto d’affacciarmi al davanzale per urlargli un incoraggiamento o qualcosa del genere. Tuttavia, prima ancora che quel pensiero prendesse una forma decisa, come accortosi d’un incombente pericolo braccarlo alle spalle, egli si voltò di scatto nella mia direzione. Subito, per camuffare l’imbarazzo d’esser stato sorpreso a sbirciare, alzai il braccio per un ultimo cenno, agitando la mano a mo’ di chi saluta un amico che s’allontana, sentendomi totalmente fuori luogo, ma confidando in una replica.
Al contrario di quel che supponevo, lui rimase invece immobile, con gli occhi fissi sulla finestra. Successivamente, con lo sguardo sempre saldo sulla presa, avanzò ciondolante verso di me, permettendomi di mettere a fuoco un volto che non ricordavo, e nemmeno potevo dire famigliare o estraneo. Un volto mutato nei tratti, ma ancora padrone della propria essenza, che sembrava voler aggiungere qualcosa al nulla che avevamo condiviso, e che faceva capo ad un corpo dalle movenze parimenti sconcertanti. Un mondo d’incomprensioni e incredulità spalancava dunque le sue porte al mio cospetto per rendermi partecipe d’immagini nebulose, che nella testa sarebbero poi andate a confondere la realtà dei fatti con delle semplici suggestioni.
C’era insomma tanto, troppo da vedere: lui ricurvo in avanti, imperterrito nella ripetizione del gesto, con mani e braccia a mulinar nel vuoto, perfette nella posizione. Un pinocchietto diligente, una marionetta che grazie all’esattezza del movimento andava suggerendoti la soluzione. Mancava giusto l’oggetto a completar l’opera, perché fra le mani era come se davvero stringesse una pala, come se davvero stesse impegnandosi allo scavo. E menava anche dei gran colpi! A ripetizione! Del tutto inequivocabili!
Incapace d’intendere l’origine di quel che stava accadendo, indugiai ancora un poco nella speranza d’una spiegazione, mentre lui, risoluto, continuava come se ciò fosse quanto di più naturale. Gli occhi azzurri risplendevano liquidi nelle orbite, eccitati allo spasmo, persino inumani. C’era solo lui. Lui e i suoi colpi a vuoto. Non il mondo, né le genti. Non le case o i rumori. Non le auto e il vento a strappi. E nemmeno le ghigna sguaiate dei passanti attardatisi per godere dello spettacolo.
Ben presto, vedendolo insistere in quella farsa, l’iniziale perplessità si trasformò per me in inquietudine. Capii che ciò che stava mostrandomi aveva a che fare con la sua repentina partenza e quelle innumerevoli sfumature che avevo ignorato. Incapace di sostenere la vista, mi ritrovai infine ad arretrare, fino a sparire dal suo campo visivo e giungere con le spalle al muro.
Il tempo d’inspirare un paio di volte e mi chiesi se la memoria mi facesse difetto, se vi fosse qualcosa in sospeso fra noi. No. C’era nulla. Proprio nulla. Nemmeno da inventarsi. Solo allora riguadagnai la finestra, deciso ad afferrare i motivi di quell’equivoco.
Celandomi puerilmente dietro la tende, lo ritrovai seduto come poc’anzi. Le spalle piegate in avanti, la schiena inarcata e le braccia abbandonate. Sembrava più quello di un minuto prima. Era di nuovo lui: spossato e innocuo. Con la mente tornai allora indietro, lungo tutto quell’anno appena trascorso, attraverso ogni parola scambiata, ogni cenno. Ed in effetti da cercare era rimasto giusto il vuoto. E allora perché spaventarsi? Perché quel brivido senza motivo era più insistente di mille ragioni?
Di nuovo scesi le scale, preda di un formicolio nella testa che mi suggeriva di uscire in strada, che faccia a faccia mi sarei liberato di quello sciocco timore; eppur la sola vista dell’uscio d’ingresso fu sufficiente a paralizzarmi. Con la maniglia già stretta nella mano rimasi ad attendere quel che doveva venire, fino a quando riconobbi la voce di Neil giungere da tergo.
“Esci a far due passi? Fammi indovinare: stai andando al pub a festeggiare, vero? Anch’io faccio fatica a crederci. Finalmente quel fesso se n’è andato. È la riprova che anche le cose belle accadono!” sorrise soddisfatto. “Non ho mai incontrato un ragazzo più insignificante. Davvero inutile come persona. Non trovi?”
Quando mi decisi a spalancare la porta, il taxi aveva appena ingranato la prima, pronto a perdersi nella città. È solo stanchezza, mi dissi. Che altro se no?
Capitolo II
Inciampai in quel lavoro per un accidente, alla maniera in cui si inciampa quando si percorre una via che t’hanno mal consigliato. Il numero di telefono mi venne fornito dalla segreteria dell’università e io non feci altro che chiamare. La voce dall’altra parte del cavo fu molto cordiale e mi fissò un appuntamento per il giovedì successivo, a cui mi presentai privo d’ogni passione. Nonostante la giovane età, la vita che conducevo, la relativa spensieratezza e ancor più il patrimonio di potenziali aspettative a mia disposizione, proprio non mi riusciva d’entusiasmarmi o fantasticare riguardo gli anni ancora da venire. Tutto mi appariva allora come una nebbia indecifrabile, cupa, persino superflua; e insomma l’esistenza, così come diviene col tempo e le seccature, era ancora lungi dal rivelarsi. Quel che facevo si limitava ad essere un’ingombrante astrazione, per nulla inerente alle mie reali aspirazioni; benché al tempo fossi ancora incerto riguardo le mie aspirazioni.
L’incontro si rivelò poco proficuo ai fini dell’indagine sulle prospettive del settore turistico di cui mi stavo occupando, ma mi diede modo di lasciare le mie generalità presso l’ufficio del personale, che in capo ad un paio di settimane mi contattò per un colloquio. A cuor leggero e senza rifletterci, dissi loro di scegliere il giorno che preferivano, ben conscio che mai avrei accettato un eventuale posto, essendo il mio ritorno in Italia fissato per il mese seguente.
Quando con candido disinteresse tornai per la seconda volta in quegli uffici, m’ero già maledetto in abbondanza per il peccato di leggerezza commesso, e non riuscivo a credere d’aver anteposto una questione professionale ad un pomeriggio d’ozio. Fu tra quelle mura che per la prima volta presagii la natura suscettibile del caso, la sua irritabilità di fronte all’apatia e il disorientamento che ne consegue.
Mentre il direttore del personale m’illustrava la struttura aziendale e le mansioni che avrei dovuto ricoprire, continuavo a chiedermi che cosa fossi venuto a fare in quel luogo e quale istinto malsano m’avesse condotto fin lì. Non avevo mai sostenuto un colloquio di lavoro prima d’allora, e mi parve tutto semplice, informale, persino pleonastico. Mi divertii per un poco a rispondere come credevo fosse lui gradito, e in generale a raccontarla diversa dal vero. Non era del resto impervio intuir cosa desiderasse trovare in me quell’uomo incravattato che rispondeva al nome di Gordon Shue, eppur la totale assenza di retorica nelle sue parole m’invogliò, esaurite le prime battute, a dargli il giusto credito. Smisi allora di fingere e cominciai a parlar per ciò che ero. Lui mi descrisse quello che sarebbe poi divenuto il mio lavoro in maniera pulita, senza usar fronzoli e senza enfatizzare a sproposito. Non cercò d’impressionarmi, e tantomeno si sforzò di mettermi a mio agio. Era uno dei rari uomini che non ambiscono a piacere al prossimo, e ti guardano dritto in faccia, perché la prima cosa che gl’interessa scoprire è la canaglia che nascondi sotto la superficie. Ascoltandolo, mi venne da pensare che ero stato fortunato a incappare in una persona del genere, e l’idea che avrei dovuto rifiutare quella proposta a priori già mi seccava.
Al termine del colloquio ci stringemmo la mano. Chiesi anche un paio di giorni per valutare l’offerta; dopodiché me ne andai.
Camminando verso la metropolitana provai da subito a liberarmi di quell’idea, ripentendomi che abbandonare gli studi al punto in cui ero sarebbe stata una pazzia, e nulla mai poteva giustificare una scelta di quel genere, soprattutto al cospetto di certi occhi. Non era poi difficile immaginare quale sarebbe stata la reazione di chi ancora finanziava la mia formazione, ma era anche passato del tempo dall’ultima novità e io avevo una disperata voglia di lasciarmi andare, di mandare tutto in malora e ricominciare.
Le sere successive le passai così attaccato al telefono, a spender soldi e fiato in un’improbabile opera di convincimento. Volarono delle belle parole in quelle ore. Come mai ne avevo sentite prima. Così grosse che mio padre arrivò sin a minacciare di prendere il primo aereo e rimpatriarmi tirandomi per le orecchie o qualsivoglia escrescenza del mio corpo. Era la prima volta che lo sentivo parlare a quel modo.
Ne avevano così tante loro, è vero, di argomentazioni ragionevoli, e io così poche; eppur ci provai comunque a far valere i miei diritti di ventiduenne, anche sfoderando le angolature più svergognate e villane del mio carattere e mettendo a dura prova la proverbiale pazienza di quei due. Sono inoltre sicuro non volessero farlo, proprio no, ma davvero tirai troppo la corda; allora me lo rammentarono chiaro e tondo che l’adulto di cui andavo blaterando altri non era che un nullatenente a cui i genitori mantenevano gli onerosi studi oltremanica. Si poteva mica dargli torto. Comunque sia me la presi parecchio a male.
La discussione andò ancora per le lunghe; era mica finita: ore su ore e giorni appresso, a cui seguirono un numero imprecisato di mal ti testa e gincane dialettiche, che giusto mi condussero alla saturazione, all’inevitabile sconfitta. Ma proprio nel momento in cui, ormai svuotato persino del piacere della diatriba, stavo per abbandonarmi alla resa, mia madre riuscì per l’ennesima volta a sorprendermi. Mi telefonò poco prima dell’ora di pranzo, quando la casa era vuota e le luci della città cominciavano a morder la notte. “Io e tuo padre ne abbiamo parlato a lungo, Renzo, e benché non condividiamo nella maniera più assoluta la tua decisione, siamo disposti ad accettarla. Speriamo solo tu sia ben conscio di ciò che stai facendo e delle possibili conseguenze, perché non tollereremo ripensamenti. Questa è la tua scelta e ci aspettiamo che tu la segua con coerenza. Da adesso in poi dovrai arrangiarti per conto tuo. Avrai uno stipendio, e quindi il dovere di mantenerti in autonomia. Ciò non vuol dire che noi non ci saremo più per te, ma è chiaro che da ora divieni responsabile per tutto quel che ti occorre. Desideri essere trattato come un adulto? Bene. Ora lo sei in tutto e per tutto. Almeno finché non ci ripensi.”
Le mie orecchie non avrebbero potuto esser scosse da parole più soavi. Mi profusi in grandi ringraziamenti e genuflessioni, accampando discutibili interpretazioni del rapporto genitore-figlio per cercare di mitigarne la delusione; ma comunque sia stavo pensando solo a me stesso. Assicurai anche che non si sarebbero pentiti, che li avrei resi orgogliosi di me. Rivelai poi i miei progetti per il futuro e un’altra manciata di cialtronerie che lei non parve neppur sentire.
Detto ciò non persi tempo: telefonai a Gordon Shue per comunicargli l’intenzione di accettare il posto, ringraziando calorosamente per l’opportunità che mi veniva offerta. Poi, visto che il contratto della casa in cui abitavo era prossimo alla scadenza, chiesi di poterlo prolungare a tempo indeterminato. Quando il padrone di casa mi disse che la mia camera era già stata affittata ad un’altra persona, sentii mancarmi la terra sotto i piedi. Avevo poche settimane per trovare un tetto e ancor meno soldi da spendere. Mi gettai quindi nelle viscere della città alla disperata, disposto a prendere per casa qualsiasi acquitrino mi fosse stato proposto. Raccolsi volantini, inserzioni, annunci e persino parole captate lungo i marciapiedi. Telefonai ovunque, e dovevo aver proprio una faccia a pezzi, perché i dinieghi erano sempre annacquati da un vago dispiacimento.
A seguito d’innumerevoli tentativi andati a vuoto, Sandro, un italiano che avevo conosciuto tempo addietro e che già da anni risiedeva in città, mi servì la dritta giusta. Alcuni ragazzi, suoi colleghi, che mi vennero descritti come “cordiali e alla mano”, stavano cercando un nuovo inquilino. La casa si trovava nei pressi dell’incrocio fra Turnepike Lane e la Green Lane. A nord, in terza zona.
Ricordo bene la prima volta che la vidi e l’effetto che mi fece quella grossa casa vittoriana: fatiscente, costruita su quattro piani e persino un poco storta si rivelò da subito in tutta la sua precarietà, a giustificare in maniera lampante l’accessibile pigione.
La mia stanza si trovava in cima, in stile mansarda, imperitura testimonianza dell’estrema confusione intellettiva che aveva minato l’opera di architetti e costruttori. Al di sotto di essa, nel giardino, era ammucchiata ogni sorta d’inutilità: materassi, vecchie lavatrici, biciclette arrugginite, mobili e quant’altro. Sebbene a corto di spazi, la vegetazione cresceva in quel disfacimento alta e rigogliosa, sino ad oltrepassare la staccionata di confine e lasciarsi ricadere a peso morto nei cortili adiacenti.
Ogni casa che dal mio alloggio potevo scorgere si trovava nella medesima situazione e il paesaggio era deprimente in maniera omogenea. La prima impressione non fu delle migliori, ma si pagavano circa cinquanta sterline a settimana e la stazione del metrò era subito appresso. In un paio di mesi, appena avrò ingranato col lavoro mi troverò una sistemazione più decorosa, pensai. Mi serve giusto il tempo di mettere da parte due soldi.
Era ormai passato più di un anno da quel giorno, e io non me ne ero ancora andato. L’erba del giardino era sempre più alta, i rottami più arrugginiti, e nonostante conservassi ancora il lavoro il mio entusiasmo era notevolmente scemato. L’impiego all’agenzia cominciava a starmi stretto, come stretti erano stati in precedenza gli studi. Ripensando a ciò che mi aveva detto Gordon Shue mi accorgevo come non vi fosse nulla di diverso, che facevo ciò che mi era stato offerto, ma nel frattempo lui s’era trovato un’altra occupazione e quel posto aveva perso la sua profonda schiettezza.
Comunque sia, andavo avanti. Lo stipendio non era malvagio e io cominciavo a sentirmi in intimità con la città. I veri problemi stavano però fra le mura domestiche, appena fuori dalla mia porta.
Se Simon era stato quasi un’ombra in tutti quei giorni, lo stesso non si poteva dire di Sophie e David. Loro erano i veterani. Abitavano quel luogo da non so quanti anni e con gran disinvoltura si comportavano come ne fossero i legittimi proprietari. Per dirla tutta David non era così malvagio, se preso da solo e in modiche dosi, ma al sopraggiungere della compagna diventava lagnoso e saccente.
Mi era bastato un niente per decifrarla, quella strega. Appena trasferitomi mi aveva accolto con maniere affabili, persino gettando del tempo per portarmi in giro a visitare il quartiere, consigliandomi i posti migliori in cui pranzare e quelli più economici dove far la spesa. Si era poi prodigata a spiegarmi le piccole regole domestiche che da tempo immemore venivano adottate, preoccupandosi che non mi mancasse nulla in quanto a ragguagli. Dopo due settimane circa aveva cominciato a riprendermi ogni qual volta non mi attenevo scrupolosamente alle sue merdose regole. Passata la terza aveva alzato la voce. David annuiva sempre in sua presenza, ma era ben disposto a farsi due risate una volta solo, anche se sempre con estrema cautela. Fortuna vuole che nei paraggi vi fossero anche Neil e Richard. Il primo era un irlandese scappato di casa. L’altro un inglese dai capelli rossi e l’occhio veloce. Avevano entrambi vent’anni, il corpo disseminato di tatuaggi e piercing, e conducevano le loro esistenze con la stessa noncuranza con cui io m’infilavo le scarpe la mattina, prima di uscire. All’inizio avevano quasi fatto fatica a salutarmi, e in generale si erano comportati come non vi fossi. Le cose erano però cambiate a seguito dei primi rimproveri inflittimi da Sophie.
Aggrappandosi a pretesti da niente, l’avevano aggredita con una ferocia fuori luogo, lasciandomi inebetito di fronte a cotanto furore. Di ciò si erano in seguito giustificati confidandomi il profondo odio che avvertivano nei di lei riguardi. “Non del genere che ti fa uccidere,” vollero rassicurarmi. “Ma un colpetto da farla rotolar giù per le scale ci starebbe eccome.”
Quotidianamente, e in maniera metodica, provavano a destabilizzarne la psiche: un piatto non lavato, una maglietta abbandonata in sala, una macchia di dentifricio nel lavandino. Si davano la carica a furia di piccole molestie, gareggiando tra loro a chi escogitava la più irritante. David, di tanto in tanto, provava a placarli, ma i modi ambigui uniti all’incapacità di prender posizione avevano reso la sua autorità una sorta di barzelletta mal raccontata.
Appena riconosciuto come uno del gruppo, venni anche messo a conoscenza di sconcertanti retroscena: “Hai visto David com’è ridotto? Vorrai mica fare la stessa fine, vero? Va’ che quelli non sono sempre stati una coppia. Quando siamo arrivati, appena si salutavano. Avevano camere separate e si facevano gli affari loro. David frequentava una ragazza spagnola ed era rilassato come non crederesti. Capitava anche di uscire assieme. Una cosa normale, insomma. Poi, un giorno, di punto in bianco lasciò quella bella ragazza e si è trasferì nel letto di Sophie. Fu un lampo. Il tempo di capire cosa stesse succedendo e quella gli aveva già frullato il cervello. Ci abbiamo ben provato a farlo ragionare. Gli abbiamo dato delle gran strapazzate. Ce lo siamo lavorato per giorni interi. Mica è servito! Te lo diciamo noi: quella è una fattucchiera! Una serpe! Stalle alla larga! Se sarai gentile, fregherà anche te! L’unica cosa intelligente che puoi fare è renderti insopportabile. Funziona così, dacci retta!”
E io proprio così avevo fatto: m’ero incolonnato a quei due, permettendo ad un clima di reciproca ostilità e sospetto di divenire casa mia e assumere in un certo qual modo i contorni della normalità. Guastata, ma pur sempre normalità.
[continua]