In copertina: «My self», computergrafica di Manuela Vincenti
Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’autrice è 8^ classificata nel concorso letterario Il Club dei Poeti, 2006
… Come ciechi bugiardi pieni di canzoni mortali, a mano a mano che disimpariamo il silenzio e che il silenzio non ci copre più, noi sentiamo il grande vociare di Satana …
Alda Merini
Presentazione
Arte come distrazione dalla morte o arte come “bluff”, se non come pudica menzogna? “Diario Di Una Bugiarda”: è bugiardo ciò che scrive l’autrice o lo è il personaggio reale, quello che incontriamo tutti i giorni per strada?
La sapiente fantasia è capace di creare situazioni che sfiorano l’erotismo puro, quello di un certo Foscolo, poniamo, o di un D’annunzio, se non di un Rimbaud.
Una poesia quella della Vincenti, elegante, saffica, impetuosa (Prevert), con effetti segmentati (A. Merini, De Juredicibus), o è semplicemente, si fa per dire, la chiave dianoica di lettura di quel mondo mistico, intimo, alla maniera del “Cantico dei cantici”, dove solo al Padreterno è consentito entrare? Oppure è evasione da una realtà inutile, materialista che nulla concede al sogno, al bello, all’ineffabile? O ancora, è la carne che si ribella, che reclama schiacciata dagli “ismi”?
Il suo è certamente un grido esistenziale dell’“esserci” e lei lo fa altalenando tra il sacro ed il profano, una confessione che ha tutto il valore del testamento spirituale attraverso un eufemistico “mentire”.
Comunque interpretiamo la poesia della Vincenti il dubbio rimane, anche se non ci sembra difficile “tatuarla” col marchio di “bugiarda”, almeno nel rispetto di quel mondo, per aprire il quale solo l’autore ne possiede le chiavi. Una cosa è certa e la suggerisce lo stesso Rimbaud: – Dovrei avere un mio inferno per la collera, un mio inferno per l’orgoglio e l’inferno della carezza: un concerto di inferni. – Un sillogismo che fa tremare e riflettere per l’incoerenza di una vita non vissuta appieno. Ne consegue un atteggiamento “angelicamente” schizofrenico con conseguente e dolorosa crisi di insofferenza, un rifiuto insurrezionale, ovattato all’esterno, avverso alla realtà del quotidiano, del “perbenismo” colpevole”, se non del bigottismo da teatro.
In un’eterna commedia del consueto la poesia rappresenta, per la Vincenti, la cosiddetta “Isola che non c’è”, ma che invece esiste in quella terra fertile e misteriosa della psiche che, avviandosi sul terreno della dissociazione, è alla costante ricerca dell’Io, quello che vive, pulsa, grida, gioisce, sussulta, si dispera, gode nel silenzio dell’immagine vivificata dai sensi, proprio come l’aforisma, riportato nel retro di copertina, di Alda Merini.
Ma forse tutto ciò fa parte di quel tomo infinito che racchiude “i sacri difetti del poeta”. Non sempre purtroppo è proprio così perché l’esistenza in vita di tanti, troppi “poeti cani” potrebbe dimostrare il contrario anche se, contemporaneamente, si rafforza la convinzione che solo il vero poeta resta oltre il tempo esistenziale conquistandone lo spazio.
La parola da sola è arida, ha invece bisogno di luce, di colore, come il segno nell’arte figurativa, ma c’è di più: essa si evolve e palpita di nuova bellezza se “abita” il verso; in tale veste non inquina ma purifica, si esalta attraverso un procedimento che non è blasfemo affermare che ha del miracolo. E’ consequenziale, pertanto, dire che il verso si nutre di talenti, o viceversa e non di talentuosi, è il caso della Vincenti che ci pare possegga virtù non comuni; il suo stesso dipingere non è azzardato definirlo “poesia per immagini”.
Noi qui non ci poniamo il problema di analizzare verso per verso la sua poesia, questo compito lo lasciamo al lettore intelligente o al letterato. Qui ci corre l’obbligo di illustrare, per quanto possibile, pur ripetendoci di tanto in tanto, le qualità intrinseche, le chiavi di lettura della sua poesia.
Attraverso uno stile originalissimo ed autentico, che traduce una personalità invero molto complessa, la nostra autrice si avvale di una linguistica ricca ed ardita per certe figure di pensiero come l’ossimoro, il climax, certi sviluppi connotativi e denotativi ed ancora antinomie.
Un’ironia sferzante e pur sempre elegante fa capolino con discrezione ma tale da creare anamorfosi, specchio deformante posto in una scena circoscritta. Lo stesso termine “bugiarda” nasce da un evidente “back-ground” e cioè il proliferare da esperienze passate, ambigue o reali, quale retroterra culturale di un “vissuto” immaginario, tanto da “scivolare” in un borderline, se non proprio bugiardo, sicuramente altrettanto ambiguo. Qui l’amore e i sensi che ne prorompe e sprigiona è visto e sofferto come catarsi e come ricerca di un limite “altro”. Non enfasi ma anelito, parola che transustanzia attraverso un giro vizioso che perviene alla supplica, al bisogno di ricevere quale presupposto per dare.
Per arrivare a tali confini l’autrice non disdegna certe soluzioni entropiche preferendo, di conseguenza e per innato pudore, un ermetismo allucinato e illuminante. Ma c’è di più: un senso mistico dell’amore pare invadere non solo il cervello e l’ipersensibile ma anche tutto l’essere proiettandosi, spesso, su un tessuto o modulo narrativo post-romantico volto ad assorbire l’universo reattivo dei sensi, una gestione gestaltica del rapporto sensibile che si agita tra percezione e mondo riflesso. La poesia della Vincenti non può essere vista, di conseguenza, dal buco della serratura, bensì attraverso un grandangolare affinché vengano colte, afferrate a volo tutti quei particolari esplodenti che contiene.
In conclusione possiamo affermare che la sua è poetica di tipo icastico e cioè rappresentazione per immagini che crea teatro, scena, vita rappresentata. Ogni poesia è scheggia dell’esistenziale, scheggia di un rituale esoterico, trasformazione dal reale a mito, quasi fosse un personaggio unico, ossessivamente riflesso eppure sempre nuovo ed originale nel manifestarsi nell’eterna commedia di una vita fortemente interiorizzata e che va ben oltre il pensiero del poeta francese Guy de Maupassant quando afferma che: – La vie c’est une scene immense où chaquin représente une scenette. –
Con la Vincenti ci troviamo in un deserto inaccessibile e infuocato popolato di anime che vivono in un corpo solo. Ella cerca il “vaticinio in un aggettivo, il vaticinio, non la deduzione”.
Se finora abbiamo parlato dei contenuti, degli indirizzi nella poesia della nostra Manuela, altrettanto doveroso ci sembra, se pur brevemente, parlare della forma. Il suo verso gode appieno di quell’insostituibile binomio musicalità ed armonia che non può e non deve prescindere dai contenuti e infatti rispondono perfettamente all’interrogativo di Cicerone: “Cos’è la poesia se non la musica delle idee?”.
Nic Giaramita