Tres Orionis (e dintorni)

di

Marcello Lorenzotti


Marcello Lorenzotti - Tres Orionis (e dintorni)
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
15x21 - pp. 524 - Euro 19,50
ISBN 978-88-6587-7746

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Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’opera è finalista nel concorso letterario Jacques Prévert 2016


Tres Orionis, ovvero il fallimento di un bizzarro accostamento ideato da un gagliardo vecchietto fra le tre stelle della cinta di Orione e i suoi tre nipoti. Aspirazione profonda e aggregazione accettabili stando a certe apparenti evidenze, sia nella visione illusoria che determina la vicinanza tra loro dei tre astri sia nella consanguinità, vettore di affetti e unione in vita per i tre fratelli. Questo nelle intenzioni dell’idealista vegliardo.
L’inganno ottico delle tre stelle e il loro voluto accostamento con la consanguinità dei nipoti, che dovrebbero correre insieme ai Tre Re l’itinerario della vita come i tre astri percorrono da sempre quello dello spazio, si rivela però inattuabile nell’idea e nei sentimenti del buon vecchio.
Vanificato l’ideale nei fatti e nelle vicende della vita ne consegue che, all’illusione ottica delle tre stelle, fa riscontro il realistico svolgersi della realtà terrena, vissuta in maniera diversa da ciascuno dei tre fratelli nello svolgersi delle varie vicende. Essi si muovono nelle fragilità del proprio vivere e sentire: nelle passioni, nelle rivalità personali, nelle miserie e virtù caratterizzanti dell’intero cast dei personaggi: attori delle proprie vicende entro le quali si muovono e recitano, in contrapposizione alla veduta ingenua, sentimentale e utopistica del nonno.
I fatti e le situazioni della vicenda sono a volte descritti adeguando il punto di vista dei personaggi al pensiero del momento, allo stato d’animo e al linguaggio da essi espresso, come raccontassero i propri pensieri, sensazioni e sentimenti, alternati alla voce del narratore.


Tres Orionis (e dintorni)


Parte Prima

I

Usciti i due fratelli del vedovo con le rispettive famiglie a calibrata distanza di tempo l’uno dall’altro per non doversi salutare, nella sala era tornata la rassicurante atmosfera familiare, pur nel dolore del lutto.
La tavola presentava il disordine tipico di un dopo banchetto. Sopra la tovaglia piatti, bottiglie, bicchieri, posate, tazzine vuote di caffè, il cestino con la frutta: una pasticciata natura morta non corrispondente alla spensierata ovvietà che, a prima vista, avrebbe potuto supporre occhio estraneo. Si era infatti trattato d’un mesto convivio tra parenti eccezionalmente riuniti per il commiato dalla povera Luciana; doveroso, inevitabile quindi e forzato intrattenimento, svoltosi a temperatura zero appena mitigata da scarno dialogare e insincere frasi di condoglianza e incoraggiamento.
Dopo essersi passata il fazzoletto sotto gli occhi, Maria fece per alzarsi e togliere dal tavolo quell’assembramento di stoviglie, ma fu trattenuta dal padre. Seduto accanto a lei sul divano, Fabio le cinse la spalla e le baciò la guancia commosso: «Calma piccolé, non c’è fretta. La mamma oramai è là» commentò indicando un punto vago fuori della finestra; «ha cessato di soffrire e ora è in pace. Questo solo pensiero dovrebbe esserci di conforto. Saldi in questa convinzione, non ci resta che continuare a vivere e ad andare avanti serenamente. Questo vorrebbe la mamma se ci sentisse, per cui, allentata la morsa del dolore, non dovremmo più rattristarci ma coltivarne memoria con gratitudine e affetto.» Voleva distoglierla, con quelle parole, dalla penosa prostrazione. Si rivolse allora a Paolo, seduto all’altra estremità del divano: «Dico bene Paolé?»
Il figlio annuì emettendo un profondo sospiro a bocca chiusa. Lo sguardo in apparenza distratto fissava un punto della sala; in realtà concentrato sulla mamma, gelida dormiente sulla cui fronte di marmo aveva impresso l’ultimo suo bacio.
Fabio Valleri guardò sconsolato i suoi due figli: avrebbe voluto aggiungere altre locuzioni atte a lenir loro la pena per soffocare, con le stesse, la propria. Niente di tutto questo però gli riuscì trovare, e la pena restava; meglio allora il silenzio.
Maria, staccatasi dal padre, si volse verso Remo che le era all’altro fianco. Voleva un bacio anche dal suo ragazzo, già vaccinato dallo stesso dolore, avendo anch’egli perso la madre cinque anni prima.
Seduta sulla poltrona accanto al divano, zia Giulietta osservava il quartetto immobile e malinconico. Provava pena per quei suoi due nipoti rimasti senza madre e per il cognato, privo della propria sposa. Si alzò per gettare uno sguardo fuori della finestra: nel grigio pomeriggio di gennaio il vento maltrattava le braccia scheletriche degli alberi disseminati lungo la via e infastidiva i comignoli minacciando, con il suo furioso ma innocuo sibilare, le fenditure delle imposte. L’auto sembrava essersene andata, ma lei non si fidava; quel disgraziato di suo marito Luigi, uscito per primo con la convivente e la figlia di questa: sgradevolissima novità e gran faccia tosta in compagnia delle quali s’era presentato, poteva aver acquattato l’auto dalla visuale della finestra e attendere che scendesse per inscenarle una chiassata non essendo stato possibile, per ovvi motivi, averla potuta effettuare lì in casa. Le avrebbe rimproverato, già se lo figurava, essersi permessa far presenza a quel ritrovo tra parenti come se lei, parente, non lo fosse più. Come se parente fosse quella che s’era portata dietro invece che lei ancora, per assurdo, sua legittima consorte nonostante i sette anni di buio tra loro. Certo, alla mesta circostanza non avevano potuto sottrarsi dall’intervenire i due fratelli del vedovo con le rispettive famiglie delle quali una, a suo giudizio, paradossalmente intrusa, altro che lei! Quella voluta ricreare in disprezzo alla sua persona dal fedifrago marito, il secondogenito Luigi, appunto, Capo Deposito Locomotive Superiore a San Lorenzo. Non era potuto mancare l’ingegner Mauro quell’altro trombone, anche lui con famiglia: quel presuntuoso, il minore dei tre; gran caricatura vip, in realtà geometra e costruttore edile chiamato anche dagli altri due, ma ironicamente, e a sua insaputa, il Velletrano, per aver appeso cappelloda quelle parti. Munito dell’abituale spocchia, essendosi dovuto scomodare giusto per la gravità dell’avvenimento, l’ingegnere si era presentato con la moglie Stefania e le figlie Giulia e Sara. Alle iniziali frasi di condoglianza erano seguite domande relative a compendio ed epilogo dell’evento, cui erano seguiti da ciascuna parte commenti addolorati, ovvi e mesti seguiti alle immancabili scuse per non aver saputo. Luigi aveva presentato a Fabio la sua donna già sul sagrato della chiesa, mentre vi si stava introducendo la bara sostenuta a spalla dagli addetti. Nello stringersi la mano, i due, il vedovo e la sgradevolissima novità per Giulietta, si erano procurati reciproca scossa e guardati increduli disegnando sul volto un imbarazzato sorriso di sola prassi. Luigi l’aveva presentata come sua convivente specificando essere Emma, la ragazzina quattordicenne, figlia di lei avuta da un pittore squattrinato. In chiesa, ma anche durante l’intrattenimento, il vedovo triste era sempre tentato rivolgere uno sguardo furtivo alla donna e a sua figlia: strabiliante sorpresa per lui, più che novità, paradossalmente riemersa da chissà quali nebbie dopo quasi tre lustri di buio, dopo essergli sparita nel nulla quindici anni prima, senza preavviso. L’aveva cercata furiosamente per più d’un mese fin poi a rassegnarsi. Benché attenuato nel tempo, l’amaro in cuore era rimasto al ricordo; e adesso eccola ripresentarsi tranquillamente, nientemeno che come compagna di suo fratello minore, certamente ignaro di quanto intercorso tra loro.
Lo straordinario ritrovarsi tra fratelli si era rivelato più ricco di pause che di parole per il disagio di non saper più intrattenere uno spigliato dialogare. I rapporti fra loro, infatti, si erano venuti sempre più opacizzando nel tempo con l’andarsene ognuno da casa per formare famiglia e condurre vita propria. Veramente, più che opacità esisteva buio mezzanotte da quattordici anni tra Luigi e Mauro. Unico tentativo di riaccendere luce, era stato il vago cenno di saluto rivolto da Luigi alla cognata Stefania e alle nipoti, che avevano dovuto limitarsi a rispondere con un furtivo abbozzo di sorriso esibendo rassegnate spallucce e rispondendo ciao ciao con manina furtiva per non contrastare il sedicente very important man che costruiva case, progettava villaggi, moveva e contribuiva a far muovere denaro. Stimato da chi conta nella cittadina, ma anche nella Capitale, l’ingegnere si fregiava dar di che vivere e mangiare a moltissime bocche, invece che mangiare a ufo il pane dello Stato come, secondo lui, non disdegnavano approfittare i suoi due insignificanti fratelli, con i loro ottavi livelli, gli scatti d’anzianità e i parametri di servizio. Nella propria smisurata concezione di grandezza venivano configurati come due irrimediabili teste vuote in attesa del ventisette; incapaci, al contrario di lui, assumersi una qualche responsabilità. Infatti, anche Fabio, ferroviere come Luigi, esercitava funzioni di Controllore Viaggiante Superiore (cordone oro sul berretto) in forza a Trenitalia, società FS. Un ottavo livello anche lui come Luigi, per cui risultava impropria quella parvenza fallimentare data per certa dall’ingegnere. Temperamento bonario, Fabio era considerato da superiori e colleghi agente serio e preparato nell’esercizio della propria professione. Al ventisette e a quanto esso significa, attribuiva equa ricezione di emolumenti a sé spettanti per la propria professionalità onestamente espletata, sia in treno sia in ufficio. Per Luigi, invece, il ventisette costituiva data attesa con impazienza, combattuto tra l’infantile aspettativa di trovare in busta paga improbabili arretrati e al tempo stesso ansioso all’ossessiva idea di qualche ritenuta extra atta ad assottigliare quel mensile, ché, per un sedicente parsimonioso come lui (spilorcio a detta degli altri due) non era mai abbastanza. A tal proposito, considerava Fabio quel detto latino, spesso citato a suo tempo da nonno Carletto: avarus semper eget, per poi il caro vecchietto tradurre loro, l’avaro è sempre nel bisogno, come di fatto sembrava trovarsi il signor Capo Deposito Locomotive. Sospetto possedere una fortuna viveva come un eremita se non, addirittura, come un pezzente. Questa la distanza ideale e comportamentale dei tre fratelli, che si era venuta a creare nel tempo con il distacco. A tal proposito, Fabio ricordò di quella volta che da piccoli nonno Carletto li aveva portati tre giorni dopo Pasqua da una coppia di suoi amici d’infanzia, Francesco e Mariella, con i quali aveva abitato nello stesso stabile in via Mameli a Trastevere. I due, coetanei, coltivando la loro amicizia avevano finito con unire le loro vite sposandosi. Sistemati i quattro figli e raggiunta l’età pensionabile, ministeriali entrambi, si erano trasferiti in campagna, nel cuore della Sabina. Oltre a lavorare un modesto appezzamento di terreno, il signor Francesco si era trasformato in piccolo apicoltore. Lui, Fabio, ma anche Luigi e Mauro ne ricordavano la prelibatezza del miele insieme alle squisite marmellate della signora Mariella che puntualmente facevano pervenire al nonno.
Si era agli inizi di primavera, metà aprile: una sera tersa e stellata, ultima dei tre giorni di vacanza e il nonno, complici i suoi amici, li aveva condotti nell’angolo più buio della tenuta e mostrato loro la volta celeste. Essi, nasino all’insù, contemplavano a bocca aperta quella meravigliosa cupola volgendo lo sguardo laddove il nonno puntava l’indice. Seguito da Sirio, in basso alla sua sinistra e preceduto a destra da Aldebaran, l’occhio infuocato del Toro con le Iadi sue corna, e, ancor oltre, dalle Pleiadi, Orione sfavillava alto nel cielo. Il nonno aveva loro indicato le tre stelle della cintura ed espresso un suo intimo desiderio, un proprio personalissimo sogno: “Voi dovete star sempre vicini e uniti come quelle tre perle lassù, vedete? Vicini l’uno all’altro, i tre astri formano l’ideale Cinto di Orione, il mitico Cacciatore. Sono i miei Tres Orionis. I tre di Orione, cioè!” Denominava da sempre così le tre stelle il buon vecchio. Erudito come può esserlo un autodidatta, infarinato un poco di tutto, nonno Carletto pretendeva masticare, a torto o a ragione, anche un poco di latino. Aveva abbinato a ciascuno di loro una delle tre stelle disposte in linea obliqua dal basso in alto: Alnitak quella a sinistra in basso a Mauro, il minore. Alnilam la centrale a Luigi, il medio, e Mintaka, quella sulla destra in alto, a lui, Fabio, il maggiore. Il bizzarro vecchietto si era poi messo a citare uno dei tanti aforismi di Camille Flammarion, astronomo e divulgatore scientifico francese: “Cieco chi guarda il cielo senza comprenderlo; è un viaggiatore che attraversa il mondo senza vederlo; è un sordo nel bel mezzo d’un concerto.”
Essi, tenendosi per mano, lo ascoltavano pendendo dalle sue labbra. Virtuali epigoni dei Tre Re, nell’accezione mentale e sentimentale di nonno Carletto, non ne avevano però coronato il sogno, ciechi e sordi per non aver più alzato, da quella sera, gli occhi al cielo distratti da altro; né quindi interessati a comprenderne la traslata intenzione. Però non per questo, o almeno non solo per questo erano venuti meno alle aspettative espresse dal nonno in quella sera stellata.
Nei rapporti con i fratelli, Fabio considerava ora la fatuità delle apparenze e dei paragoni. Essendo consanguinei, avrebbero potuto idealmente incarnare la somiglianza relativa ai tre astri uniti nel loro percorso astronomico e realizzare il vago auspicio del buon vecchio, babbo del loro papà, buonanima! La realtà celeste si presentava e si presenta, però, diversa dall’illusione ottica perché le tre stelle non si trovano così vicine tra loro come appaiono, se non per sola casuale bizzarria ottica essendo posizionate, nel loro infinito navigare, ciascuna a differenti anni luce dalla Terra, non solo, ma allontanandosi sempre più l’una dalle altre due. Beh, se per questo anch’essi, come le tre stelline, bizzarra e poetica somiglianza a parte, volendo far quadrare il paragone giravano distanti tra loro attorno a una propria realtà terrestre dovuta alla diversità delle specifiche vicissitudini e soprattutto alla determinazione dei caratteri. Dunque, pur allineati nella forzatura della singolare similitudine poggiante sulla comune consanguineità, si trovavano anch’essi, come le tre stelle, distanti tra loro perché estranei ciascuno agli altri due in ideali anni luce.
Questa, all’affiorare del lontano ricordo, la tardiva scoperta del maggiore dei tre fratelli, il quarantaduenne vedovo di giornata, che amaramente prendeva atto esser stati, ed essere tuttora, nient’altro che Tres cojones parafrasando, nella volgare distorsione del nome la disattesa, affettuosa, ideale intenzione di nonno Carletto.
Maria e Remo, aiutati da zia Giulietta, sgombrarono la tavola e si misero a trafficare in cucina. La zia tornò al suo posto.
Fabio, per distogliersi dai grigi pensieri, sorrise amaro nel considerare i propri fratelli: trovava dimagrito e invecchiato Luigi; ancora giovanile, grazie a tocco d’estetista, Mauro. Prima del pranzo Paolo e Maria, sapendoli non in buoni rapporti, si erano intrattenuti, uno per volta, con gli zii. Prima con Luigi, che nel porger loro le condoglianze aveva presentato, stupendo tutti (meno Fabio già di per sé perplesso) la sua compagna, la signorina Mariangela Cinni e la piccola Emma, figlia della donna. Maria aveva a sua volta presentato il fidanzato Remo, anch’egli ferroviere, Capotreno per l’esattezza, e collega del padre tramite il quale si erano conosciuti. Zio Gigi, barba incolta e capelli lunghi raccolti dietro la nuca da un codino fermato con elastico, dopo bacio rituale alla guancia, notando al polso di Paolo un orologio elettronico, si era fatto serio. Sfoderando la manica della camicia aveva scoperto il polso ed esibito un orologio a corda, cinturino metallico, un Perseo con locomotiva sbalzata sulla cassa, relativo logo FS e numero di matricola 148378 avuto in dotazione; sicché si sentì in dovere deplorare i giovincelli e metterli in guardia per quel loro servirsi di orologi elettronici: “Che sono mangia soldi per il periodico ricambio batterie. Invece, con questi a carica a mano come il mio, non si spende nulla, sapete? Basta olio di polpastrelli ogni ventiquattrore.” I nipoti, spiazzati dall’argomento perché tutti colpevolmente forniti degli esecrandi orioli, avevano annuito perplessi, non sapendo che replicare, se non tra sé, che lo zio si stesse dimostrando il solito tirchio. Zio Gigi aveva poi continuato a esternare il suo chiodo fisso, fonte di seria inquietudine per l’avvento dell’Euro. Ammalato di struggente nostalgia per la cara, vecchia, indimenticabile Lira, già ne prevedeva le nefaste conseguenze. Figurarsi, che quasi non ci dormiva più per il giustificatissimo timore d’aver perduto solidità nel cambio. Parsimonioso a oltranza come sentiva di essere, si mise a commentare ai nipoti quel versetto dell’Angiolieri:

“In questo mondo chi non ha moneta per forza è necessario
che si ficchi uno spiedo per lo corpo o che s’impicchi.”

Fraintendeva però l’intento del gaudente e prodigo Cecco sull’uso del denaro: da bruciare in allegria, cioè, e non tenerlo congelato in Banca, alla Posta e nella segreta ventiquattrore, la stanza del Re, per sola libidine di possesso. I ragazzi, perplessi per quei commenti giusti sì, forse, ma… fuori luogo e circostanza, avevano appena sorriso abbozzando spallucce e si erano rivolti agli zii Mauro e Stefania e alle cugine Giulia e Sara. Anche a loro Maria aveva presentato Remo. L’ingegnere, non più a disagio nel trattare con i nipoti, aveva espresso loro la propria ammirazione, incoraggiandoli a proseguire gli studi senza guardare indietro nonostante il dolore per la perdita subìta. Si era messo a sentenziare nel proprio figurato modo di esprimersi da persona superiore come si riteneva, asserendo la necessità di reagire a tutti i costi: “Perché la vita, come già saprete, offre un oceano di possibilità. È una montagna tutta da scalare, la vita, per giungere alla vetta, al top di quello che io chiamo, il mio Everest ideale!” Tutte opportunità da afferrare al volo, come lui era stato capace far proprie. Costruttore affermato nell’area Castelli Romani, friggeva d’inquietudine per quel quarto di percorso che ancora lo separava dal raggiungere l’agognata cima. Una volta data in moglie la figlia Sara a chi sapeva lui (ma questo non lo disse) poteva finalmente piazzare la bandiera del proprio Io vincente sopra la vetta di quel suo immaginifico monte. Non s’accorgeva, il grand’uomo, concepire mentalità non più in voga se non in alcuni Paesi del terzo mondo mentre veniva riesumando, nella presente cultura occidentale, un atteggiamento tipico dell’altro evo; e tutto per soddisfare la propria smodata ambizione unita a infantile vanità. Il sedicente ingegnere non si poneva domanda se Sara fosse o no d’accordo sull’argomento, tra l’altro importantissimo e delicato; né si chiedeva se anche l’altro giovane, quell’Alessio De Fabris a cui voleva dare sua figlia, fosse d’accordo. Lo stimato ingegner Mauro Valleri teneva molto a imparentarsi con questi De Fabris, famiglia di politici tra cui un magistrato, munita di tutte le chiavi d’accesso per potersi introdurre nella società che conta. Uomo di talento come si sentiva: uomo che fortemente credeva in se stesso, abbacinato dalla prospettiva di rifulgere nel bel mondo, intrepido, fantasioso e virtuale rocciatore himalayano non poteva resistere alla tentazione di far parte del gotha politico mondano della Capitale, essendovi solo parzialmente introdotto. Perciò, avendo trovato Giulia giusto affiatamento con un giovane Direttore di banca in carriera, il dottor Valerio Cavaterra, rampollo anch’egli d’ottima famiglia, non gli rimaneva che attuare il colpaccio con la sua Sara. Esisteva però quel particolare di cui non si era posto il problema: se Sara amasse, come di fatto amava, ragazzo diverso da quell’Alessio che le si voleva imporre. Nel rivolgersi ai nipoti, zio Mauro aveva fatto sfoggio dei propri meriti e risultati, rivolgendosi soprattutto a Paolo, che si era limitato a lievemente sorridere. A quel Remo, perché ferroviere come quei suoi due limitati fratelli, il professionista di un certo calibro, ché come tale si stimava, non aveva elargito consigli perché sapeva già condannato a stipendio fisso e miserando, vita piatta e senza ambizioni; destinato ad arrancare per trentasei anni, sei mesi e un giorno lungo strade e stradine tortuose alla base del suo mitico Everest, proprio come quei due là per i quali, tra sé e sé, provava vergogna esser loro consanguineo. Entrambi gli intimiditi nipoti l’avevano ringraziato per la rotta loro tracciata “con inimitabile sapienza d’esperto manager e finissimo uomo d’affari come sei te, zio.”
Troppo pavone sfoggiante la ruota, zio Mauro non aveva afferrato l’involontaria ironia nell’iperbole della nipote. Intanto, il vedovo dispiaciuto rispondeva con sottile imbarazzo alle rammaricate domande che gli poneva Stefania relative alla lunga malattia della povera Luciana. La donna, che provava sincera pena per il cognato, lamentava che avrebbe anche potuto far sapere del lungo calvario sofferto dalla povera Luciana: “Però, eh? Fabio! Cos’è, temevi forse disturbare? Tra noi, poi!” Fabio s’era schermito: “Ma no, che dici Stefania! Non s’è trattato mica per questo, sa!” Fosse stato per lei, gran brava donna, ma per quel presuntuoso del marito s’era ben guardato far trapelare notizie su quanto stesse accadendo alla moglie per non sentirsi poi obbligato a seguirne le petulanti direttive.
Approfittando che l’intrepido arrampicatore di superlative altezze dava loro la schiena intrattenendo i nipoti nel tessere le lodi di sé, Stefania si era avvicinata sorridente a Giulietta e le aveva dato un bacio alla guancia. Si erano poi abbracciate furtive. Sfidando il capo cordata velletrano nel caso si girasse e s’accorgesse; anche Giulia e Sara avevano voluto baciare e abbracciare quella zia che sapevano sfortunata e un po’ infelice, a causa di zio Gigi.
Giulietta, l’infelice signora Valleri, di fatto signorina Pardeni, era riapparsa anch’essa come fantasma. Spettro tuttavia incapace creare elettricità, non come l’altra, se non imbarazzo per colui che fu, o meglio, che continuava a essere suo marito. La sua presenza al funerale e al convivio aveva contribuito ad accrescere, suo malgrado, nervosismo tra lei, lo sposo fedifrago e la sua nuova compagna. Informata del lutto dalla nipote Maria, zia Giulietta non aveva potuto esimersi dal non dare l’estremo saluto alla cara Luciana. Avrebbe voluto limitare la propria partecipazione al solo rito religioso, ma era stata sempre Maria a chiederle d’accompagnare la mamma al Verano e a trattenersi poi in casa, ché quel giorno bisognava stare insieme perché zia Giulietta riusciva a confortare con la sola presenza. Nonostante paventasse i rimproveri del marito, e senza conoscere l’effetto sorpresa che questi avrebbe riservato, zia Giulietta non aveva saputo dire di no a quella nipote affranta e tanto cara. Dopo il pranzo, mentre sorbivano il caffè, Fabio aveva chiesto a Luigi di rivolgerle almeno una parola. Lei se ne stava in piedi accanto alla finestra con in mano la tazzina sulla quale ogni tanto soffiava per poi portare alle labbra e mandar giù, a piccoli sorsi, la nera bevanda. La mimica di quei gesti era copertura del malessere da cui era attraversata. Luigi aveva risposto al consiglio del fratello con un deciso no. Fabio, fingendosi non aggiornato, aveva chiesto se si fosse finalmente conclusa, in senso legale, la loro separazione. La risposta del fratello si era risolta in un’eloquente scrollata del capo precisando che la faccenda non era mai cominciata, perché né quella là né lui (veramente lui soltanto) avevano sentito il bisogno d’avviarne le pratiche. Era mica scemo lui, sa?! “Sì, così devo pure passare gli alimenti e mantenere una che ha abbandonato il tetto coniugale,” aveva concluso l’Arpagone anni Duemila.
“La verità è che l’hai costretta te a scappare, dopo i cinque punti di sutura alla testa” era stata la replica del fratello; “ecco perché hai paura di separarti legalmente, perché oltre i temuti alimenti, andando in fondo alla causa, essa sarebbe a tuo addebito. O no?” Dopo il commento l’aveva misurato con sarcasmo e aggiunto: “Ringrazia Iddio, Giggé, che t’è capitata lei, ché fosse stata un’altra a quest’ora t’avrebbe spellato vivo!”
“Tu dici?” Giggetto, da consumato scroccone, invece che replicare s’era limitato a porre quella domanda vuota e a sbafare al fratello una sigaretta, non ultima tra quelle sgraffignate insieme ai bicchierini di brandy, e le altre fattesi offrire.
Durante tutto il tempo, Giulietta era stata in fibrillazione per timore che quella specie di marito le si avvicinasse e si mettesse a insultarla. Presentatosi però con altra donna, l’uomo aveva preferito soprassedere trovandosi in posizione tale da non poter agitare moralismi perché ancora, per propria scelta, sposo della donna quindi coniuge palesemente fedifrago. Fabio si era anche accorto che tra Giulietta e la donna del fratello s’erano intrecciate per tutto il tempo saltuarie e rapide occhiate d’imbarazzato risentimento, specialmente da parte della sposa rinnegata.
“Deve amarti in qualche modo per non reclamare i suoi diritti,” aveva ripreso Fabio dopo quelle considerazioni; “ma hai almeno informato la tua nuova compagna, che sei sposato?”
“E se capisce.”
“E lei?”
“S’è bevuta la mezza rassicurazione che finirò, forse, col riconoscere la figlia come mia. Ho voluto darle l’idea che deve lavorarmi. Te intendi come, no?”
“Assoggettandosi a te in tutto. O no?”
“Esatto. Lei una cosa sola vuole. Dare un nome alla figlia. C’ha provato anche con l’altro, il padre, ma senza riuscirci. Non riesce ad accettare che la figlia porti il nome di una ragazza madre quale è lei; come se con il cambio dell’appellativo la ragazzina non rimanesse quella bastarda che è!”
Colpito dal commento ingiusto e sprezzante, Fabio aveva finto non afferrare la frase e s’era girato come distratto da altro. Benché tentato reagire, aveva preferito assumere quell’atteggiamento svagato, nonostante ribollisse di sdegno contro il fratello per la sua durezza di giudizio, e contro se stesso per la viltà di non saper reagire, ma… non voleva litigare, non quel giorno.
“Le ho posto una precisa condizione” aveva continuato Luigi; “che casomai, se prenderò un simile provvedimento, sarà solo dopo che la figlia avrà compiuto i diciotto anni.”
“Naturalmente, se ti chiedesse di regolarizzare la convivenza, tu non hai nessuna intenzione, di…”
“Naturalmente, ma che sono domande da farsi? Anche perché dovrei divorziare, e… questo non è in programma. Per quanto riguarda la figlia, vedremo. Sempre che stiano alle mie regole e l’operazione non presenti dei costi, naturalmente!”
“E se Giulietta si decidesse a chiedere separazione e divorzio?”
“Dovrebbe solo provarci!” Così definendo la questione, Luigi aveva mostrato pugno chiuso: “Riassaggerebbe dopo tanto tempo il bastone.”
“Farabutto!” aveva commentato Fabio tra sé, “violento, prepotente e spilorcio della malora!” Le affermazioni offensive del fratello rivolte a quella Emma, però, non dimostrando amore per la compagna e quindi neanche affetto per la figlia, lasciava indovinare un’unione poco cementata se non per l’unilaterale vantaggio di cui il lestofante godeva per essersi procurato un letto caldo e comodo col pretesto d’averlo offerto. Scenario interessante, non poteva negarlo, che gli apriva, anche se solo aleatorie, nuove ed eccitanti prospettive riguardo alla Mariangela rediviva, ma… a questo non voleva pensare, c’era tempo. E poi oggi era… oggi doveva essere solo il giorno del lutto per la sua povera Luciana. Tuttavia, pur tenendo a freno l’intimo impulso, smaniava dal desiderio di contattare la donna, magari in un secondo momento, per contestarle, anzitutto, la fuga immotivata di tre lustri addietro, e… non solo.

[continua]


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